Arte: flâneur a Parigi
Sono uscito dalla fiera Paris+, ex Fiac passata sotto l’egida della ormai imperiale Art Basel, e ancora di più dalla sua non si sa se estensione o alternativa Young International, frastornato dalla quantità di pittura d’ogni genere portata a prezzi speculativi. Non emerge una tendenza, mi dicevo, sembra tutto sul piatto, una confusione che appare solo a vantaggio di un mercato che, come al solito, investe sull’oggetto più comodo, il quadro o la scultura da arredo.
Poi sono andato al Jeu de Paume, perché c’era la grande mostra su fotografia, film e video dell’Arte Povera, Renverser ses yeux (curata da Quentin Bajac, Diane Dufour e Giuliano Sergio e che si terrà fino al 29 gennaio, per venire in primavera alla Triennale di Milano), in realtà “intorno all’Arte Povera”, come specifica il sottotitolo. Mostra bellissima, mi ha fatto subito una grande impressione: l’arte italiana ne viene fuori come una storia seria e convincente, profonda e piena di idee, come raramente accade, mi pare – lo dimostra l’assenza da decenni di artisti italiani nelle mostre internazionali. Allora ho voluto accertarmene anche con la seconda sezione della mostra allo spazio Le Bal ed è stata una conferma: anche lì ottimo allestimento, ottima impressione d’insieme.
Se devo essere sincero, ho pensato che, insomma, sarà un poco irriverente, ma si è dovuto attendere la scomparsa di Germano Celant per poter fare un’operazione del genere. Finché c’era lui, per un motivo o per l’altro, monopolio, controllo, omertà, si veniva fermati o non si azzardava. Ho pensato anche che, di nuovo – l’avevo già notato e segnalato all’uscita del pregevole e troppo poco diffuso volume Il confine evanescente (Maxxi-Electa) –, viene dall’estero l’indipendenza di giudizio sui fatti italiani, senza niente togliere all’emerito apporto di Giuliano Sergio in questa occasione come di Gabriele Guercio in quella.
Nelle visite ero con un amico, che alla libreria del Jeu de Paume mi ha voluto regalare il catalogo dell’altra mostra d’arte italiana circa dello stesso periodo che si è appena conclusa al Mamac di Nizza, intitolata Vita Nuova. Nouveaux enjeux de l’art en Italie 1960-1975 (curata da Valérie Da Costa). Ecco un’altra conferma. Scrive la curatrice in catalogo, dopo aver giustamente ricordato tutte le mostre istituzionali tenutesi su quell’ambito in gran parte curate da Celant: “L’esposizione Vita Nuova non si inscrive nella continuità di questa ingozzamento-infatuazione (il termine francese è engouement) per l’Arte Povera, ma presenta una scena artistica ben più estesa e diversificata”. Ovvero, aggiungo io, fuori dalle etichette dei movimenti, bensì per argomenti.
Certo, gli argomenti sono rischiosi e non risolutivi, ma alla fine sono più aperti delle etichette. Oggi, per esempio, è usuale che si facciano mostre su un argomento con artisti di tendenze del tutto diverse, che dal punto di vista formale, o formalista, sarebbero considerate addirittura opposte e inconciliabili.
Alla fine, insomma, con questa seconda idea ho dovuto correggere la prima: bisogna rimanere disponibili alle forme espressive più varie e vigilare invece sui meccanismi speculativi del mercato, senza del resto lasciarsene distrarre troppo, così come da quelli degli argomenti obbligati, cui pure una marea di artisti vanno dietro per opportunità. E allora?
Allora, forse rispondono altre visite. Allo spazio espositivo del Musée d’art moderne de Paris, enorme, che prende tutta la curva dell’edificio e poi altre cinque o sei grandi stanze, è ospitata (fino al 29 gennaio) la mostra di un unico progetto dell’americana Zoe Leonard intitolato Al rio / To the river. Non so quante decine di fotografie siano, centinaia, apparentemente monotone, in bianco e nero, formato medio, esposte in semplici classiche file ad altezza d’occhio. A metà mostra ho pensato che nessuna istituzione italiana accetterebbe mai di esporre un progetto simile. Comunque sia, il fiume in questione è il Rio Grande (nome americano) o Rio Bravo (nome messicano), che scorre per duemila chilometri lungo il confine tra Messico e Stati Uniti, sulla cui sponda lo accompagna il “muro” che contrasta l’emigrazione clandestina.
Le immagini sono raccolte in sequenze su punti diversi del lungo percorso. L’allestimento delle fotografie in fila mima evidentemente il flusso di fiume e muro, è il “confine”, la frontiera, l’orizzonte della fotografia e del nostro sguardo. Questa linea doppia è costituita principalmente sulla tensione tra natura e costruzione, scorrere naturale delle acque e blocco artificioso del muro. Per la stragrande maggioranza delle immagini si tratta di un paesaggio deserto, composto solo di fiume e muro, con pochissime apparizioni di uomini, piuttosto la presenza insistita dei fuoristrada della polizia di frontiera.
Si segue il lungo percorso tra l’imbarazzo non so se per il vuoto di immagini che dovrebbero essere drammatiche e l’attesa che arrivi un’immagine rivelatrice, esplicita, che non arriva. Arrivano invece tre nuclei di immagini che la spezzano in tre punti, occupando ciascuno un’intera stanza, con immagini ancora più simili tra loro, ben evidenti perché a colori, che figurano come degli affondo metaforici: il primo sono dei gorghi nell’acqua torbida del fiume, che rompono la linearità a tutti i livelli; il secondo sono dei fiori di cactus di un viola acceso, che moltiplicano e disseminano l’incredibile possibilità della natura di sbocciare anche in condizioni estreme; il terzo, a chiusura della mostra, sono una sequenza di frame di riprese delle videocamere di sorveglianza del passaggio pedonale dei frontalieri: il controllo viene forse messo così sullo stesso piano dei gorghi e dei fiori, la frontiera si trasforma in passaggio, l’opposizione in possibilità. E l’asserzione in interrogazione, l’illustrazione in pensiero, la denuncia in qualcosa dell’ordine della poesia.
Un’altra magnifica esposizione, questa volta in uno spazio relativamente piccolo com’è la Fondazione Alberto Giacometti (fino al 30 novembre). Qui Sophie Ristelhueber ha affrontato Giacometti in un modo fin da subito incredibilmente originale, poi entrando nei meandri della complessità. Si ricorderà che Ristelhueber è famosa per impressionanti dittici che accostano cicatrici sui corpi a cicatrici sui paesaggi, campi di battaglia, frane, catastrofi.
Ebbene, proprio a partire da questo rimando la fotografa ha trasformato per noi visivamente i segni del tormentato lavoro di Giacometti sulle sue sculture, i solchi degli strumenti di modellazione dell’argilla, in cicatrici! L’effetto è sorprendente, l’idea illuminante: l’arte è una cicatrice. La mostra è lungi dal fermarsi a questa già magnifica idea e la estende, peraltro in direzioni anche insospettate e ambiziose, in un dialogo serrato con opere scelte di Giacometti: una è quella personale, che allora significa memoria, biografia, somiglianza – si ricordino le sorprendenti riflessioni di Giacometti su questa nozione –, qui parentale; l’altra è quella storica, attraverso l’intreccio di due morti, quella di Giacometti e quella di Tolstoj, realizzato accostando foto dei funerali dei due e citazioni dalla Morte di Ivan Il’ic del secondo e di Paris sans fin del primo come sonoro di un video che scorre lungo la parete rocciosa di una parte del percorso del funerale di Alberto.
Il titolo della mostra, l’ho tenuto per ultimo, è Legacy: le cicatrici, come la memoria e la storia, sono i segni dell’eredità.
Rispondono questi due esempi ai dubbi che mi ero posto all’inizio? A me pare di sì: non importa se pittura, fotografia o che altro, ci vuole un’idea e che non sia dimostrativa ma in più, plus (+), come nel nome della fiera.