Bagolaro
Celtis australis è il nome scientifico, ma sono i nomi comuni a far simpatia: bagolaro o spaccasassi, perlaro in veneto, romiglia invece è chiamato dalle mie parti. Quest’ultimo resiste come toponimo, residuo lessicale di quando gli alberi erano termini d’orientamento, bussole naturali. Ricordate la «piazzetta con de’ begli olmi» nei pressi di porta orientale indicata a Renzo appena entrato in Milano? Ma ora, chi li conosce più i nomi degli alberi.
Doveva essercene uno nei pressi della mia casa paterna. Ancor oggi, l’ingresso posteriore dà su via Romiglia, e vorrei tanto fosse l’indirizzo ufficiale, purtroppo intitolato al fondatore della Democrazia Cristiana.
Un altro si ergeva al margine del podere del nonno materno, bello, massiccio, con braccia poderose e folta capigliatura. In autunno facevo incetta dei frutti come quei bambini fissati nel lampo poetico di Masaoka Shiki (1867-1902):
I frutti del bagolaro
i bambini del vicino
vengono a raccogliere.
Dev’essere il mio albero totem: segna la mia vita ad ogni svolta. Lo trovai persino a San Sebastiano, allora sede della facoltà di lettere e filosofia a Venezia dove mi laureai: un esemplare notevole, specie in quella città galleggiante, che ancora ombreggia un angolo del giardino, e tutt’ora molto amato dagli studenti che sostano ai suoi piedi.
Quando poi mi trasferii nel capoluogo lombardo, d’istinto presi casa per la galleria folta d’ombra dei bagolari lungo la via, piantati pure sul lato interno dell’edificio con l’affaccio del balcone: avrei goduto la frescura d’estate e le ciarle degli uccelli all’alba. A Milano poche cose sono giuste e ben scelte come i bagolari. Parenti stretti degli olmi, sono anch’essi rustici e frugali, eppure sanno dare fisionomia a una strada popolare come via Aselli, e sostenuta grandezza al semicerchio di Foro Bonaparte. Possono alzarsi oltre i 25 metri, e le dimensioni notevoli dei rami primari ben meritano questo spiritoso haiku di Kobayashi Issa:
Vento invernale:
accanto al cancello i grandi bicipiti
del bagolaro.
Pare essere un soggetto adatto all’osservazione e alla benevola, misurata ironia di Issa: eccovene qualcun altro in sequenza, tra i molti che gli ha dedicato:
Un fogliame così spesso
che pugno nell’occhio…
un bagolaro.
L’aquilone sacro
agguantato dal bagolaro:
che sfrontato!
Anche oggi, anche oggi
il bagolaro strappa
l’aquilone.
Nuvole invernali cariche di pioggia
ogni giorno si impigliano
nel bagolaro.
Una foschia su misura
solo per lui…
bagolaro.
Ne avrei anche qui, nella nuova dimora di campagna, di bagolari, se non fossi costretta a eliminare i giovani polloni germinanti dai semi portati dagli uccelli: non c’è più posto per un albero di tale corporatura.
Si distingue per il portamento eretto e saldo, per la chioma regolare e compatta, frondosa di lamine ovate o lanceolate, d’un intenso verde nella pagina superiore, più chiare e tomentose in quella inferiore, margine finemente dentato e lungo apice appuntito, che si inseriscono alterne con breve picciolo sui giovani rami bruni e picchiettati di lenticelle biancastre. Qui amano volteggiare l’avvenente Nymphalis antiopa, l’elegante vanessa dagli ocelli blu, e la Libythea celtis, la farfalla a lui simbiotica che, come il nome scientifico segnala, ha nel bagolaro il suo albero alimentare.
Un altro aspetto peculiare è la liscia corteccia d’un grigio cenere, a tratti luminoso, che, con la stazza, fa pensare a un arboreo pachiderma, dotato persino di occhi: nelle alberature cittadine, quando i rami più bassi vengono potati, la corteccia si corruga intorno al tondo della ferita in una piega a mandorla, cosicché l’albero pare sogguardare all’intorno. E viene in mente quell’altro haiku di Issa, perfetto per gli automobilisti che parcheggiano, senza riguardo, sulle sue robuste radici:
Se ti avvicini troppo
il bagolaro ti maledirà;
freddo della sera.
Poco appariscenti i piccoli fiori verdastri spuntano in aprile-maggio pressoché coevi alle foglie: i maschili riuniti in radi corimbi, i femminili sono solitari, compaiono all’apice dei rami dotati di cinque o sei stami con antere gialle e due stigmi pronunciati e ricurvi.
Albero longevo e resiliente, si presta a molti usi: da corteccia e radici si otteneva il giallo per colorare cuoio e lana; il suo legno è un buon combustibile per il camino, robusto e flessibile è adatto per costruire remi, pali, gioghi, mozzi di carri e fruste, e per ciò in Francia veniva appositamente coltivato. I cugini d’oltralpe lo chiamano Micocoulier de Provence (ou du Midi), perché prospera nelle più calde regioni del sud. E di Antibes era il grande bagolaro cantato da Jaques Prévert (1900-1977) nella raccolta Alberi (1976)
Ad Antibes
Ad Antibes
in rue de l’Hôpital,
dove l’erba dei gatti
spunta
ancora indenne sul pavé
c’è un grande bagolaro
si trova nel cortile
dell’ospizio per vecchi
Ah sì è un bagolaro
dice un vecchio dell’ospizio
seduto sopra una panca di pietra
contro un muro di pietra
e la sua voce
è cullata dolcemente dal sole.
Bagolaro
e questo nome d’albero
sembra una cantilena
nella sua logora voce
È millenario
aggiunge il vecchio
con semplicità
molto più vecchio di me
e tuttavia tanto più giovane
Millenario e sempre verde
E nella voce
dell’apprendista centenario
c’è un poco d’invidia
molta ammirazione
un gran sgomento
e un’immensa freschezza.
Se ne contano circa ottanta specie, tra cui il Celtis occidentalis, originario dell’America nord-orientale, che si differenza dall’australis per la corteccia fessurata, le foglie più strette e meno seghettate; inoltre, la pagina fogliare superiore è lucida e liscia come l’inferiore e le drupe mature sono giallognole anziché scure.
Bagolaro da bagola, cioè bacca (dal latino bacula), per le piccole poverissime drupe dal lungo peduncolo, la cui sottile pellicola bruna quand’è matura, con quel poco di polpa che riveste il seme, ha un sapore dolciastro che ricorda la carruba. I tondi nòccioli, bucati, si infilavano per farne corone di rosario, e in qualche plaga meridionale lo si chiama ancora “albero dei rosari”, in concorrenza con la Melia azedarach (famiglia delle Meliaceae), per eccellenza l’albero dei paternostri in India e Cina, ma più raro da incontrare in Italia.
“Perlaro” è detto, invece, per l’argento della corteccia che mostra solchi solo ad età avanzata, mentre “spaccasassi” evoca il potente apparato radicale con cui si abbarbica a terreni rocciosi e poveri d’acqua: ci vuole una forte tempra per vivere in città.