Branding e politica
Harley-Davidson: una motocicletta, una leggenda, un modo di vivere? Tutto insieme, e appassionatamente, senza dubbio. Ma anche molto di più, non foss’altro perché, nel bene come nel male, con alti e bassi d’ogni genere, questa moto dal rombo assordante e (per alcuni) dolcissimo ha condiviso non pochi momenti della vita politica, e dell’immaginario tutto, degli Stati Uniti d’America – vale a dire del pianeta.
Più che un mezzo di trasporto – in sé, ammettiamolo, assai scomodo – Harley-Davidson è stato, ed è tuttora, il protagonista di storie assai diverse, l’esito inesorabile dell’inventiva di una serie di autori, giornalisti come sceneggiatori, registi, musicisti, attori, uomini politici e via dicendo, dunque un prodotto che è ben più di una merce: semmai, a ben vedere, una vera e propria icona culturale che spazia, formandolo, nell’immaginario popolare degli americani e, da lì, di tutto il mondo. Per certi versi, possiamo dire, la fortuna economica di questo pacchetto di cose (moto, certo, ma anche accessori, caschi, giubbotti di pelle, merchandising d’ogni tipo ivi compresi i capelli grigi e unti dei bikers e gli ambigui topless delle girls che li accompagnano – non è tanto l’esito calcolato di precise strategie aziendali quanto piuttosto l’effetto di una serie di fortunate coincidenze che, in vario modo, ne hanno fatto un mito.
In origine furono i club dei motociclisti, in California, dove si mescolavano i ragazzi poveri della strada ai veterani che non riuscivano a integrarsi nel sistema economico del dopoguerra. Guidare una Harley, e soprattutto personalizzarla secondo i propri gusti, era un gesto simbolico che integrava l’ideologia del fuorilegge con le vecchie leggende del West. Modificare la forcella anteriore e allungare il manubrio fino a creare un chopper aveva un valore politico di ribellione. È l’epoca di Marlon Brando protagonista di Il selvaggio e degli Hell’s Angels che, ubriachi fradici, battono le periferie urbane mostrando tutta la loro mesta forza mascolina di contro al maccartismo crescente e all’ideologia familista che lo contraddistingue. Il chiodo diviene un must perché controcorrente. Charles Manson, si ricorderà, era un biker, e con lui migliaia di nerboruti amanti della Harley, le cui gesta divengono celebri grazie a testate come “The Nation” e “Rolling Stone”.
Una risposta politica a Il selvaggio è, si sa, Easy rider che, a fronte dei musi duri dei biker d’antan, racconta di Peter Fonda, Dennis Hopper e, in completo di lino bianco, Jack Nicholson che attraversano gli States in moto al suono di “Born to be wild” degli Steppenwolf. Accade però che in una scena spesso dimenticata i tre si ritrovino a cena presso una tradizionale famiglia dell’Ovest e Nicholson, avvocato in acido, esalti la vita rurale d’un tempo, quando il valore supremo della gente americana era la libertà di spostare sempre più in là la frontiera, in barba agli indigeni da sterminare con cura. La controcultura Harley, insomma, si attenua di parecchio, in un mix a dir poco ambiguo fra machismo e nazionalismo: l’odio verso i Vietcong diviene così, per magia, odio delle moto giapponesi come Honda e Kawasaki che stanno invadendo il mercato statunitense. Cavalcare una Harley è difendere i valori dell’America, anche se dal basso, dai margini sociali dell’Impero.
Il passo ulteriore è opera nientepopodimeno che di Ronald Reagan, attore di Hollywood finito alla Casa Bianca, che in pieno boom economico, grazie a una campagna stampa accuratissima riesce a far guidare le Harley non più agli spiantati di periferia ma ai frequentatori di Wall Street. Per un broker d’assalto, andare in ufficio alla guida di quelle moto smisurate diventa estremamente cool. Non foss’altro perché, al cinema, a cavalcare una Harley c’è adesso uno come Sylvester Stallone in Rambo, seguito a stretto giro da Bruce Willis ma soprattutto da Arnold Schwarzenegger: il quale in Terminator 2 fa fuori, con gran soddisfazione del pubblico, alcuni attempati Hell’s Angels, ormai patetici personaggi da circo. Parallelamente un giornalista come Malcom Forbes, proprietario della testata omonima, stipa il ventre di grossi jet con scintillanti Harley da mandare in giro nei sentieri selvaggi di tutto il mondo, dall’America Latina all’Asia, dalla vecchia Europa alla Nuova Zelanda. Idea commerciale o gesto politico?
Cosa tiene insieme gli elementi eterocliti e cangianti di questa strana storia? E quale potrebbe esserne la morale? La riposta di Douglas Holt, docente di marketing ad Harvard e Oxford, è insieme semplice e tranciante: si tratta del brand, vale a dire dell’impressionante forza semiotica di una marca made in Usa che ha saputo gestire con intuito e furbizia le fluttuazioni dei desideri e delle ansie dei cittadini americani, influenzandoli, subendoli e comunque capitalizzando le principali tendenze modaiole e i conseguenti mood culturali che si sono succeduti dal secondo dopoguerra a oggi.
In Cultural branding – un libro importante del 2004 che vede finalmente la luce nel nostro Paese grazie a due valenti semiologi come Dario Mangano e Paolo Peverini, che ne hanno curato l’edizione italiana (Luiss University Press, pp. 302, € 24) – Holt compie una rivoluzione nel modo di concepire, studiare e consigliare le marche d’ogni genere e natura, di fatto ribaltando i principali assetti teorici e pratici del marketing mondiale. Quest’ultimo, secondo Holt, lavora più che altro sull’individuo singolo, e sui vari tipi di ‘benefici’ di cui costui andrebbe in cerca nelle offerte commerciali d’ogni azienda, ragionando dunque in termini di un determinismo psicologista, se non rozzo, comunque semplificatorio, riduttivo (è il cosiddetto mind-share). Il consumatore cioè effettuerebbe le sue scelte sulla base della propria convenienza personale, ora di tipo affettivo ora di tipo funzionale: compro qualcosa perché mi serve o perché mi piace, e stop. Pochino...
Secondo Holt, invece, bisogna ragionare non in termini di individuo singolo ma dell’intera organizzazione sociale entro cui i vari brand si trovano a operare, intercettando le relazioni fra un bene o un servizio proposti da una azienda e l’immaginario culturale dominante in un determinato periodo storico, in una certa congiuntura tanto politica quanto antropologica. I brand, in altri termini, non sono forze economiche più di quanto non siano soggetti sociali. Non solo perché, come è noto, oggi qualsiasi cosa, persona, territorio o istituzione propone se stessa in termini di una marca parlante, di un pacchetto di prerogative e di idee, di stili di vita e di desideri cui aderire; ma anche perché ogni oggetto, cosa, paesaggio e financo persona che ci troviamo dinnanzi è per noi già sempre carica di valori e disvalori, desideri e angosce, aspirazioni e rimpianti di natura eminentemente collettiva, intersoggettiva, sociale.
Da soli siamo già in troppi, dicevano Deleuze e Guattari nella prima pagina di Mille Plateaux: lezione che stenta ad affermarsi, più ancora che nel senso comune, nelle scienze sociali contemporanee; ma che invece, nei fatti prima ancora che nelle strategie consapevoli, i brand hanno perfettamente chiaro da tempo. Quando si ha a che fare con i simboli, categoria cui i brand appartengono di fatto e di diritto, bisogna, per Holt, mettere da canto ogni idea di problem solving, o di costi-benefici, per aprirsi piuttosto al dominio – tanto contraddittorio quanto prolifico – delle dinamiche culturali, là dove l’opinione pubblica (ma sarebbe meglio dire la passione pubblica) si costituisce e si trasforma. In tal modo la pratica del brand finisce a tutti i livelli per essere, forse anche contro i suoi stessi principi costituitivi derivati dalla scienza triste, una forma trasversale di critica della cultura, e, perciò, di intervento politico.
Piuttosto che alzare automaticamente il sopracciglio ogni qualvolta si parla di marketing della marca, Holt ci invita a riflettere sul fatto che, come sottolinea Peverini nella sua introduzione, ogni lavoro sul brand è sempre una forma di brand activism, vale a dire una presa di posizione politica sul mondo e le sue tensioni interne: “dalle marche – scrive Peverini – ci si aspetta una prova di maturità che consiste nella capacità di offrire da che parte stare all’interno di una tensione che è al tempo stesso politica, economica, sociale, culturale”. Così, quando in un celebre spot Coca Cola portò centinaia di ragazzi su una collina a cantare in coro (chi non lo ricorda?), si trattava di una risposta alle divisioni prodotte dalla guerra in Vietnam. Il libro, in questo senso, è ricchissimo di esempi, da Budweiser a Mountain Dew, da Marlboro a Corona e così via.
La morale che, dunque, cercavamo è presto detta (e, già di per sé, dà un senso alla traduzione italiana di questo libro a 20 anni dalla sua prima apparizione in USA). Il cultural branding si insinua fra due sguardi che lo snobbano: da una parte il marketing duro e puro, volto all'ottenimento di risultati di vendita nel più breve periodo possibile (con tutto lo stress intransitivo che ne deriva); dall’altra le solite anime belle che credono di coltivare un umanesimo scevro da ogni compromesso col mercato – salvo poi ricaderci sempre, nella moneta, a ogni concreta, pragmatica occasione. Siamo ancora, nota Mangano nella postfazione, alla trita divisione fra apocalitti e integrati: per sfuggire alla quale bisognerebbe prendere il termine ‘mito’ nella sua significazione più tecnica, quella fornita dagli antropologi, per i quali il racconto mitologico sposta a un livello superiore le contraddizioni che l’uomo percepisce nella vita di tutti i giorni. Riuscendo, in tal modo, a puntare il dito sulle tensioni sociali, e provando parallelamente a risolverle. Basta montare su una Harley e si capisce subito.