Fatta l'Italia facciamo gli italiani / Cannavacciuolo e l’Unità d’Italia

17 Marzo 2016

L’altra settimana, nel programma del sabato di Fabio Fazio, Antonino Cannavacciuolo non ha fatto un gran figura. Era impacciato, faticava a inserirsi nel dialogo collettivo, non rispondeva a tono. Sembrava un pesce fuor d’acqua. Qualcuno, per esempio, gli ha chiesto perché, nel suo ultimo libro, ha scritto che gli alimenti ci parlano. Affermazione che i fenomenologi della percezione, da Merleau-Ponty a Sartre e forse anche Husserl, avrebbero trovato plausibile. Ma che lui non è stato in grado, su due piedi, di motivare. Suscitando generali risolini di perplessità. Il che non va a suo demerito. Segnala semmai, se ce ne fosse bisogno, il fatto che gli eroi per un giorno non sono tutti uguali, non sono tutti televisivi allo stesso modo, quantitativamente e qualitativamente. C’è chi manifesta nonchalance, parlantina sciolta, disinvoltura davanti alle telecamere. E c’è chi, all’opposto, fa della goffaggine la propria arma vincente, attirando comunque l’empatia di quella che solo Umberto Eco riusciva a chiamare, con sublime traduzione, udienza. E lui è tra questi altri. Quarantenne gigantesco e chef bistellato, Antonino Cannavacciuolo è già da tempo divenuto un celebre personaggio televisivo: dopo il successo di Cucine da incubo (dove svolgeva il ruolo di chi fa ripartire con scienza e pazienza ristoranti allo sbando), è approdato nelle scene di MasterChef, ad affiancare Cracco, Bastianich e Barbieri con quel tocco di burbera meridionalità che ha ridato smalto e popolarità a una trasmissione che ne stava perdendo un bel po’. Con lui, a MasterChef la cucina è tornata protagonista: la cucina come attività e professione, perizia e ingegnosità. Innanzitutto disciplina dinnanzi ai fornelli, dura gavetta a prender ordini da chef spietati ma capaci. E poi, manco a dirlo, passione quasi mistica per una tecnica che deve sapersi fare arte, o spacciarsi per tale. Non senza quel tocco di altruismo spontaneo, di comprensione profonda per il prossimo e i suoi troppo umani patemi che caratterizzerebbe, per eterno stereotipo, l’uomo del Sud. All’edizione di MasterChef sono arrivate in finale due ragazze che, forse, più della bravura in cucina avevano dalla loro storie di vita alquanto travagliate: una ex anoressica che piangeva senza soluzione di continuità; una neomamma single con enorme desiderio di riscatto contro la società dura e crudele (risultata vincitrice). E di questo esito struggente lui è stato, s’è visto, il principale responsabile. Ma cos’è questo libro di cui s’è detto? Dopo due prove, diciamo così, letterarie precedenti, Anche tu vuoi fare lo chef? (2014) e In cucina comando io (2015), dove è più che altro questione di ordine fra le padelle e di rigore nelle brigate d’alto bordo, esce adesso Il piatto forte è l’emozione (pp. 227, € 19,50), ospitato nientepopodimeno che dalla collezione Stile libero di Einaudi (“una casa editrice tosta”, ha detto lui in un’intervista). Resa dell’editore radical-chic alle mode del momento, ovvero al mercato librario drogato da fornelli, pentole, ricette e comparsate televisive di cuochi pavoneggianti? Se fosse soltanto questo, niente di cui stupirsi. Accettazione del personaggio-mitico nell’empireo della grande letteratura? Non esageriamo. Il nuovo libro di Cannavacciuolo, crediamo, è qualcosa di più, ha dei tratti su cui val la pena soffermarsi, e soprattutto si propone un obiettivo di grande ambizione.  Innanzitutto, diciamolo, è una raccolta di ricette, ricette d’autore, senza dubbio, e condite da innesti editoriali che strizzano l’occhio allo spettatore televisivo, facendo del cuoco un personaggio. Ma si sbaglierebbe a lasciar pendere il piatto della bilancia dal lato dell’eroe mediatico, che per quanto sia stato sapientemente costruito da piattaforme comunicative vecchie e nuove continua a mantenere un che di spontaneo e di personale. Probabilmente, se c’è una ragione dell’attuale successo televisivo di Cannavacciuolo sta nel fatto, come si diceva, di essere impacciato davanti alle telecamere, di conservare un’aura di autenticità popolaresca che gli deriva, da una parte, dal fatto d’essere campano e, dall’altro, dall’aver rivendicato (vedasi gli altri due libri) l’importanza della professionalità, o per meglio dire del mestiere: al di là di tutto, a lui piace stare in cucina, sperimentare, rispettare materie prime, riproporre tecniche tipiche e, si spera, mangiare. Nell’intervista di cui sopra ha affermato: “quando diventi famoso tutto ti si stringe un po’ addosso. Vieni giudicato ogni giorno, ogni servizio. E se sbagli, passare dalla star del momento allo status di incapace è un attimo”. E c’è da crederci, non solo alla genuinità nella paura di sbagliare, ma all’idea del ‘servizio’: un cuoco, innanzitutto, è una persona che produce servizi, che serve, nel doppio senso dell’essere utile e dell’essere servitore. Le storie della mamma e del papà, nonché dell’immancabile nonna, presenti nel libro vanno tutte in questa direzione. Cucinare è sempre per l’altro: come dire che, al di là dello schermo, c’è uno stomaco esigentissimo cui rendere conto. Non si scappa.  Per questo, dicevamo, più che alla costruzione mediatica, una volta tanto, occorre star attenti, nel libro, alla dimensione squisitamente gastronomica, che non nega la prima ma in qualche modo ne viene corroborata. Nella quarta leggiamo: “Il libro dello chef che ha unito l’Italia”. E sta qui, alla fin fine, il segreto del nostro Cannavacciuolo. Da Vico Equense, un paese del Napoletano dov’è nato e cresciuto, dopo lunghe peregrinazioni s’è installato in Piemonte, sul lago d’Orta: e lì ha letteralmente reinventato la cucina italiana, fornendole quell’unità profonda di sapori e di saperi che, si sa, le è sempre mancata. I suoi ingredienti di riferimento (quelli che, come si disquisiva da Fazio, “ti parlano”) sono il pomodoro, i molluschi, la bottarga, il pesce, da una parte, ma anche le lumache, i tartufi, il riso e le carni, dall’altro. Le materie prime d’origine si mescolano a quelle d’adozione. Sospettiamo insomma che Cannavacciuolo, al di fuori d’ogni enfasi, sia sulla via di realizzare ai fornelli quel che Artusi ha fatto a parole: ossia, molto semplicemente, una cucina italiana che non sia la sommatoria più o meno casuale di cucine regionali (come negli stereotipi turistici). Opera non da poco, che potrebbe dar luogo a quell’emozione di cui si predica nel titolo. Ce lo giurano le ricette del Melone bianco, salsa di arachidi, pomodoro e polpo verace, della Crema di castagne con burrata, tuorlo d’uovo e tartufo, dei Ravioli all’aglio e crema di cozze, degli Gnocchetti di baccalà e frutti di mare, del Riso Carnaroli all’olio, vongole veraci, timo e salsa di limone, della Trippa d’agnello e tempura di gamberi rossi, del Torcione di fegato grasso con salsa di ananas e sgombro… Basterà assaggiarli, o magari prepararli da noi. E vedere se mantengono la promessa. Nel frattempo, una domanda: che cosa significa che gli alimenti ci parlano? Semplice: sono segni

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