Cecilia Mangini, prima documentarista italiana

10 Maggio 2023

Immaginiamo una giovane donna di 25 anni, che, nel 1952, si lascia alle spalle una cittadina della provincia di Bari, Mola, per salire a Roma. Con quali aspettative? La spinge, su quella strada, un forte vento: è desiderio di libertà potremmo dire, ma forse si rischia di restare nel vago. Cecilia Mangini, questo è il nome della giovane donna, è mossa da una irrequietezza dello sguardo, da una passione per l’immagine, che alimenterà il suo interesse verso il cinema, la fotografia, e soprattutto il documentario. E nel documentario, nell’aspro bianco e nero che lo caratterizza, avvertirà il respiro della “verità”. È per sentire questo “respiro” che la giovane donna si sposta da Mola di Bari a Roma.

Quando Cecilia parte dalla provincia pugliese, ha visto tutto quello che era possibile vedere nell’arco di quegli anni: adolescente, ha scoperto La grande illusione di Renoir, che per lei continua ad irradiare la luce del “mito”; poi, non ancora ventenne, una nuova lingua, la grande avventura del neorealismo dentro il cuore ferito del Paese. “Il neorealismo mi ha salvata”, dichiarerà. Ma perché “salvata” e da che cosa? Dal sonno delle coscienze probabilmente. Il “neorealismo” è stato per molti, negli anni dell’immediato dopoguerra, una sorta di risveglio, una nuova epoca dello sguardo, dopo la cecità forzata del fascismo. Quel cinema, per Cecilia Mangini, le ha insegnato a vedere. E ha nutrito la sua intelligenza elettrica.

Ma la giovane donna divora anche la nuova letteratura. Ragazzi di vita, il clamoroso esordio, nel 1955, del Pasolini narratore, è per lei un “colpo di fulmine”. E non le pare neppure letteratura, è vita, materia indocile, scalpitante. Come Pasolini, Cecilia vuole vedere che cosa accade nei sommovimenti di quella materia in subbuglio. 

A fatica, il Paese si va normalizzando, ma ai suoi bordi, nelle zone rimaste in ombra, resiste un’umanità precaria, che sembra ignorare il diritto di essere. Qui Cecilia Mangini posa i suoi occhi, cominciando a raccogliere i pezzi dispersi di una realtà scabra, che di lì a poco sarà inghiottita dalla forza impetuosa della trasformazione. Verrà chiamata “miracolo”. Un salto di sicuro, la vertigine, l’ebbrezza, la frenesia, in cui è presa un’intera società, e coinvolge il suo modo di vivere e di sentire. In questa lacerazione della storia italiana, Cecilia Mangini comincia a girare documentari. Sarà la prima donna italiana a farlo, e si dirà orgogliosa di questo primato. Se ne servirà per denunciare i vincoli, gli impedimenti, gli interdetti, che pesano sulla vita delle donne. E i pregiudizi.

Essere donne, documentario del 1964, commissionato dal partito comunista per la campagna elettorale di quell’anno, racconta le grandi fabbriche milanesi, la Sit-Siemens, la Pirelli, la Montecatini, nella febbre produttiva che ha investito il Paese. Il lavoro, scandito dalla ripetizione, depreda la vita delle operaie; la fabbrica mangia la vita. Quando le operaie sono mogli e madri gli effetti sulla vita di tutti i giorni, diventano devastanti. Sfibrati dalla stanchezza, i corpi delle donne lentamente franano nello sfinimento. “Dopo otto ore, arriviamo a casa rotte”, dice una delle donne intervistate. Si sveglia, racconta, alle 4.30 per essere in fabbrica alle 6, da dove esce alle 14, facendo ritorno a casa alle 15.30, dopo 8.700 saldature nell’arco di una giornata lavorativa, tallonata dal marcatempo, che incombe alle sue spalle, cronometro alla mano, per tagliare ancora i tempi. Ancora. “Siamo al limite, non c’è più margine”, protesta inutilmente la donna. Ma i tempi devono essere tagliati. Le saldature vanno aumentate.

Un’altra operaia racconta gli incontri scarni con il marito: lei lavora di giorno, lui fa il turno di notte, quando lei rientra, poco dopo il marito esce, e quando, a fine turno, lui rincasa, lei va al lavoro. Così si consuma la vita delle donne che hanno avuto la fortuna di trovare un lavoro in fabbrica. 

Torniamo a quel 1958 che segna l’esordio di Cecilia Mangini. È il produttore Fulvio Lucisano (nei decenni a venire la sua casa produrrà centinaia di film e documentari) a darle la possibilità di girare il suo primo documentario. Lucisano ha fiducia in quella donna magra e minuta, dall’apparenza fragile, ma assolutamente determinata. Forse ha visto le fotografie scattate nel viaggio alle isole Eolie fatto con il marito Lino Del Fra (che diventerà uno dei più importanti documentaristi italiani) nell’estate del 1952. Straordinarie quelle foto: il biancore accecante delle cave di pomice di Lipari, la luce che avviluppa i corpi dei minatori mettendo in risalto la loro fatica. Lucisano capisce la capacità che ha Cecilia Mangini di accogliere la realtà, e di vibrare con essa. “La Realtà è una divinità elargita a chiunque sappia afferrarla”, dice. 

Così, nel 1958, prende vita il primo documentario: Ignoti alla città, sulla strada aperta da Ragazzi di vita di Pierpaolo Pasolini. Cecilia lo vorrebbe coinvolgere, chiedergli il testo che quasi sempre accompagna le immagini. Teme che, toccato dal successo del suo romanzo, Pasolini possa non essere interessato a un genere povero come il documentario. E poi non sa come contattarlo. Sarà sull’elenco telefonico? C’è: Cecilia dunque gli parla, e lo convince a visionare le immagini. Scriverà il testo che accompagna Ignoti alla città. La partecipazione di Pasolini si allagherà ai due documentari successivi: Il canto della maran”, che è del 1961, e Stendalì. Suonano ancora, del 1960, sulle ritualità funebri della Grecia salentina “per alleviare la mancanza e il vuoto della morte”. Soltanto tre anni separano i due documentari del ’60-‘61 da Essere donne del 1964. Ma è un salto, due Italie: l’imperativa razionalità della fabbrica e la “notte oscura” di una religiosità estranea a ogni modernità, “sopravvissuta alla mutazione antropologica che stava cambiando il volto del paese”. Cecilia Mangini le tiene insieme, passa dall’una all’altra, percorrendo una sorta di “crocevia temporale”.

Fonti:

Cecilia Mangini, Ignoti alla città, documentario, 1958.
Cecilia Mangini, Stendalì, documentario, 1961.
Cecilia Mangini, Essere donne, documentario, 1964.
“Cinema e identità italiana”, a cura di Stefania Parigi, Christian Liva, Vito Zagarrio, Roma, 2019.

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