Teatrante e scrittore / Ciao Giuliano Scabia, poeta luminoso
Se n’è andato poco prima di compiere 86 anni Giuliano Scabia, poeta luminoso, inventore di teatro fuori dai ranghi, narratore fantastico.
Il papà di Marco Cavallo, simbolo della liberazione dalle mura dei manicomi, è morto stamattina nella sua casa di Firenze, conservando, quasi fino alla fine di una lunga malattia, uno spirito divinamente fanciullesco. Qualche giorno fa mi aveva raccontato lo schema del suo quinto romanzo di Nane Oca, che rimarrà purtroppo incompiuto, la storia della Vaca Mora a Stoccolma per il Nobel, che incontra il Toro Incorna, insieme a tutti i fantastici personaggi della sua saga del Pavano Antico, Ruzante più Teofilo Folengo, alla ricerca di una stralingua padana (e poetica) e di quella della capacità di fantasticare che troppo spesso in tutti noi si assopisce.
Nato a Padova nel 1935, aveva iniziato a produrre le sue visioni immergendosi nella poesia con Padrone & Servo (1964). Aveva collaborato con Luigi Nono con testi per La fabbrica illuminata, composti ascoltando gli operai dell’Italsider di Genova. Dopo l’incontro con il regista Carlo Quartucci, aveva scritto i primi testi per il teatro, Zip-Lap-Lip-Vap-Mam-Crep-Scap-Plip-Trip-Scrap e la Grande Mam (1965), in parte creato sul palcoscenico con gli attori (tra gli altri Leo de Berardinis, Claudio Remondi, Rino Sudano). Questa pièce era stata, insieme all’azione All’improvviso, il primo tassello del ciclo del Teatro vagante, comprendente testi pubblicati, canovacci per azioni a partecipazione (li chiamava “schemi vuoti” da riempire con chi prendeva parte alle esperienze), squarci poetici per il teatro, testi non pubblicati, visioni, per un totale di 102 titoli.
A Torino, nel 1969-70, ha creato un laboratorio che girava per i quartieri periferici inventando teatro dilatato, aperto agli abitanti, radicato nello spazio degli scontri della città reduce dall’“Autunno caldo”. Il lavoro di quegli anni è documentato nel volume di Bulzoni Teatro nello spazio degli scontri, un testo nel vivo delle utopie e delle contraddizioni del post ’68.
È stato nel 1973, con Vittorio Basaglia, Stefano Stradiotto e altri artisti, il papà di Marco Cavallo, creato nell’Ospedale Psichiatrico di Trieste in un laboratorio voluto con Franco Basaglia, un gigantesco cavallo azzurro simbolo della rottura dei muri dell’esclusione. In quel Laboratorio P anche i pazienti psichiatrici che non sapevano o potevano parlare si esprimevano, come Cucù, che intonava con mugolii i suoi segni simili a virgole di diversi colori. Ripeteva in quegli anni una frase di Gombrowicz, “Colui con cui canti, modifica il tuo canto”.
Ha iniziato a insegnare al Dams di Bologna nel 1972, creando ogni volta, con i suoi studenti, azioni originali che spingevano alla ricerca dentro di sé e nell’ambiente circostante. Il frutto più noto è Il Gorilla Quadrumàno (1974-1975), portato sull’Appennino Reggiano e nei quartieri periferici delle grandi città, fino al Festival Internazionale del Teatro di Nancy. Ma il laboratorio all’Università, durato fino al 2004/2005 ha prodotto ogni anno invenzioni nuove, create con varie generazioni di studenti.
Dopo aver lasciato il Gorilla ritirarsi a nascondersi nei boschi della fantasia, per la Biennale Teatro diretta da Luca Ronconi nel 1975 ha lavorato nell’entroterra veneziano alla ricerca della “Vera storia” di Mira e del petrolchimico di Porto Marghera, trasformando gli incontri in azioni teatrali e musicali.
Con il maestro Aldo Sisillo ha girato per campagne e metropoli con la Commedia dell’Angelo e del suo Diavolo, dal casentino fino a Parigi, passando per la Biennale di Venezia.
Poi ha scoperto una vena felicissima di narratore fantastico, che ha prodotto il ciclo di Lorenzo e Cecilia, (Ciclo dell’eterno andare) e quello di Nane Oca, popolato di esseri fantastici e di avventure che facevano guardare il nostro mondo reale da un altro punto di vista, quello dell’immaginazione che tutto trasforma e promette di mutare. I suoi libri non li scriveva soltanto, li andava a recitare a filò, in teatri, in case, da amici, in biblioteche, all’università.
Ma la poesia è stata sempre l’asse portante del suo operare, volto a indagare, con il “piede”, con il ritmo del corpo, con Orfeo e con Dioniso, il nostro stare sulla terra, l’interrogarci sulle grandi questioni della vita e della morte, con un sorriso, un cavallo di cartapesta, con molta delicata ironia che conosce le seduzioni del mondo e delle ideologie e cerca di tenersi attaccata, nei suoi meravigliosi voli, alla terra e alle persone. Con un cavallo o un albero fiorito di cartapesta ogni anno portava un’inedita Operina dell’Anno Nuovo ai suoi amici, sull’Appennino Reggiano e in altri luoghi segreti, con suoni, vino e chiacchiere.
L’insieme della sua opera poetica è raccolta nel Canzoniere mio.
L’ultimo testo pubblicato, Commedia Olimpica, che riporta le pièce di due spettacoli realizzati al Teatro Olimpico di Vicenza (e precedentemente uno di questi al Festival Armunia) si chiudeva con un grande squarcio sul mondo e sull’amore, che dà il senso della grandezza dolce di questo poeta:
LUMACA IMÈGA
O gente che corre – umanità – sentite
andando piano e meditando
e molto ascoltando
che pensieri mi sono venuti in mente.
Mentre ero brucando di foglia in foglia
accanto a bellissimi fiori erti e orgogliosi
ho pensato:
Chi è un fiore?
Uno che sboccia, fiorisce e sfiorisce.
Per chi fiorisce?
Per sé – per essere fiore.
E Fiore lo spazzino
lui sì vero re del mondo
per chi canta?
Per sé canta – per la gioia di sé.
O gente che corre
inseguita dall’ansia:
cos’è il bene per un fiore?
Fiorire.
E per voi dinosauri?
E per noi del Pavano Antico
cos’è il bene?
Essere in fiore.
Far sì che il difficile
attraversamento della vita
sia un teatro in fiore –
il teatro della nostra vita
in fiore – anche accanto alla morte:
godendo del fiorire di noi e di tutti, perfino
dentro il lato oscuro che ci spaventa
e ci nutre.
CORO
Noi siamo il Fiore
e il Leviatano
e con l’amore
e andando piano
la sapiente umanità
forse che sì forse che no
forse forse si salverà.
Si salverà?
E la via troverà?
Mah!
Ma sì – troverà.
EPILOGO
NANE OCA
Tremita l’aria quando sorge amore
e un vuoto si forma – dentro cui va il vento:
vento noi siamo – vento con parole –
vento che nasce quando le ali d’oro,
molto grandiose, amore muove,
ali del tempo estese – lo so, son Nane Oca –
fin dove il vento/luce sa.
Roberto De Monticelli, arrivato con una grande Mercedes con autista e fotografo come inviato del “Corriere della Sera” a Talada, un paesino senza strada asfaltata sui monti di Reggio Emilia, per vedere Il Gorilla Quadrumàno, l’aveva definito “angelico viandante”. E così lo saluto, in attesa di riflessioni meno rotte dall’emozione per una perdita immensa, abbracciando le sue Cristina e Aurora:
Ciao, Angelico Viandante, a rivederci di notte su qualche monte, sotto il cielo stellato, a cavallare.
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