Conversazione con Anil Seth sulla coscienza
Incontrai per la prima volta Anil Seth oltre venti anni fa, credo fosse il 2003, da qualche parte in Inghilterra. Pioveva e ci riparavamo sotto il cornicione di una sala congressi. Eravamo entrambi giovani ricercatori. E scambiammo la prima di quella che poi sarebbe diventata una lunga serie di discussioni sulla natura della coscienza; da punti di vista molto diversi! Ma la diversità di opinioni non è un problema, quanto piuttosto un segno della ricchezza del dibattito scientifico e filosofico quando verte su argomenti controversi come la coscienza. Oggi la coscienza rimane uno dei grandi misteri irrisolti e, nonostante la mole di lavoro fatto, al momento non esiste alcuna teoria che spieghi la presenza della coscienza nel mondo fisico.
Chi è Anil Seth? È uno scienziato che da oltre 30 anni ha fatto della coscienza il centro dei suoi lavori. Come giovane assistente, ha lavorato con il premio Nobel Gerard Edelman negli USA per poi tornare nel Regno Unito, dove è diventato direttore del Sussex Centre for Consciousness Science. Ha pubblicato centinaia di articoli e il suo ultimo libro – un bestseller internazionale che ha vinto un’infinità di premi, appena tradotto in italiano, Come il cervello crea la nostra coscienza (Cortina, 2023) –, ha contribuito a rendere Seth una celebrità mondiale nel campo della scienza…
Ma, come dice Spider Man, da un grande potere derivano grandi responsabilità, e quindi è un’ottima occasione per mettere alla prova le sue conclusioni. Da un lato, è un vero piacere discutere con Anil Seth sulle tesi presentate nel libro. Allo stesso tempo, lo confesso, mi trovo in una posizione scomoda dato che anche per me la coscienza è la ragione ultima del mio lavoro da filosofo. Seth e io abbiamo più o meno la stessa età: lui ha 50 anni, mentre io ne ho 53. Di comune abbiamo il fatto di credere che la coscienza debba essere un fenomeno fisico. Di diverso, quasi tutto il resto. Per Seth la coscienza è generata all’interno cervello, per me è identica con gli oggetti esterni al mondo fisico. Per Seth, la percezione è un’allucinazione controllata; per me, le allucinazioni sono una percezione fuori controllo. E così via. Due mondi alla rovescia. Ma in questo campo è normale. È come nella meccanica quantistica: siamo ai confini di quello che si sa. Ma basta premesse, non vedo l’ora di cominciare a discutere con lui!
R. Ciao Anil, come stai? Ho tra le mani una copia del tuo nuovo libro, appena pubblicato ovunque e finalmente in italiano. Vedo che ha avuto un successo incredibile: libro dell’anno per Bloomberg, per il Guardian, per il Financial Times e persino per l’Economist! È davvero impressionante per uno scienziato! Qual è il segreto di questo successo secondo te?
A. Ciao Riccardo! Sto benissimo grazie! È passato molto tempo dalla nostra prima conversazione, ma uno dei grandi privilegi della vita accademica è il piacere delle conversazioni che si sviluppano nel corso di anni o addirittura, come nel nostro caso, di decenni. Sono felicissimo di avere la possibilità di continuare la nostra conversazione – e il nostro produttivo disaccordo – sulla natura della coscienza.
Ti ringrazio anche per i commenti generosi sul mio libro. Sono entusiasta quando vedo che raggiunge tanti lettori. Mentre lo scrivevo, ti confesso, non speravo che lo leggessero in tanti. Il suo successo è stata una sorpresa anche per me. Ho fatto del mio meglio per trovare un equilibrio tra rigore e leggibilità; volevo che fosse accessibile a chiunque sia curioso. E la coscienza, anche se ben nota, è affascinante per tutti. Chi non si è chiesto: ho il libero arbitrio? Perché sono io e non qualcun altro? Cosa succede quando mi addormento o mi sottopongo ad anestesia? La natura della coscienza non è solo un profondo mistero scientifico e filosofico: è un mistero che riguarda ognuno di noi, ogni momento di ogni giorno. Tutto questo mi ha aiutato. Ma in realtà devo rendere omaggio a tutti coloro che mi hanno aiutato a capire qualcosa di più sulla coscienza nel corso della mia ricerca, e a tutti coloro che hanno letto e commentato il libro durante. Anche se sulla copertina c’è solo il mio nome, non è stato un lavoro solitario.
R. Ottimo, ma andiamo al dunque. Sono ansioso di farti qualche domanda critica e di capire perché e come arrivi alle tue conclusioni.
A. Facciamolo! Sono pronto e curioso di conoscere le tue perplessità.
R. Ok, grazie. Innanzitutto, la maggior parte delle tue ricerche si basa sull’idea che la coscienza sia generata all’interno del cervello. Il titolo italiano, Come il cervello crea la coscienza, è piuttosto chiaro al riguardo, anche più della versione inglese. Non c’è nemmeno un punto interrogativo! Come fai a essere così sicuro che la coscienza sia all’interno del cervello?
A. Come sai, raramente gli autori possono scegliere i loro titoli, soprattutto per le traduzioni – sospira. Ma non voglio evitare la tua domanda. Per me che la coscienza provenga dal cervello è un’ipotesi di partenza. Più esattamente io assumo a priori che la base fisica che costituisce la coscienza si trovi nel cervello. Perché? Secondo me ci sono tante prove: se il cervello si ferma, la coscienza scompare. Qualsiasi cambiamento nella coscienza sembra essere accompagnato da un cambiamento nell’attività cerebrale, sia che si tratti di un cambiamento globale, ad esempio come accade nell’anestesia, sia che si tratti di un cambiamento locale, come accade quando siamo consapevoli di cose diverse nel mondo (e nel sé) da un momento all’altro. La sfida, ovviamente, è spiegare perché questo accade. Questo è il compito che mi assumo, da una prospettiva particolare, nel mio lavoro e nel mio libro. Vorrei però aggiungere che, sebbene per me la coscienza è generata nel dal cervello, la natura di ciò che percepiamo dipende dal corpo e dal mondo. I nostri cervelli sono incarnati e i nostri corpi sono incorporati. L’interazione tra cervello, corpo e mondo è fondamentali per i modi in cui sperimentiamo consapevolmente il mondo e il sé. Ma tu sei più radicale di me e sostieni, se ho capito bene, che la coscienza si estende nel mondo esterno o addirittura è tutt’uno con il mondo esterno. È una tesi che mi ha sempre lasciato un po’ perplesso!
R. Ne discuteremo ancora! Ma lascia invece che ti chieda un’altra domanda molto generale. Se non sapessimo che esiste l’esperienza cosciente, guardando solo al metabolismo e all’attività neurale, ci sono risultati sperimentali che suggerirebbero la presenza di qualcos’altro (appunto, della coscienza)? Per esempio, se tu fossi una intelligenza artificiale aliena priva di coscienza che studia la fisiologia degli esseri umani, ti verrebbe in mente che, oltre al comportamento, ci sia anche la nostra esperienza soggettiva?
A. Che domanda meravigliosa! È vero che il punto di partenza della ricerca sulla coscienza, sia in ambito scientifico che filosofico, è stato la prima persona, l’introspezione. In questa prospettiva, l’idea che la coscienza sia un fenomeno da spiegare sembra innegabile. Dal momento che la tua IA aliena non ha coscienza, e non è nemmeno consapevoli del fatto che gli esseri umani parlano continuamente di coscienza, credo che sarebbe (in modo non cosciente!) perplessa di fronte a tutti gli eventi neuronali e metabolici che avvengono all’interno dei cervelli umani. Potrebbe cercare di ridurre tutto al comportamento umano senza postulare l’esistenza di stati mentali (coscienti o no). Ma non credo che la sua spiegazione sarebbe completa. Come i comportamentisti veri e propri che hanno dominato la psicologia occidentale per gran parte del XX secolo, credo che fallirebbe.
Secondo me, le esperienze coscienti svolgono importanti ruoli funzionali sia negli esseri umani che negli (altri) animali. Su quali siano questi ruoli si discute ancora molto. Una ipotesi convincente è che la coscienza serve per integrare una grande quantità di informazioni rilevanti per l’organismo in modo da permettere un comportamento adattivo e flessibile, per aiutare l’organismo a rimanere in vita. Noi sperimentiamo il mondo, e il sé, non come è, ma come è utile. Quindi, per comprendere il comportamento umano (e animale) è probabilmente necessario riconoscere che la coscienza esiste e che ha funzioni importanti. Per questo motivo è meglio non lasciare lo studio della coscienza nelle mani di una IA aliena priva di coscienza!
R. Tralasciamo questa battuta! Nel tuo libro e nelle tue conferenze, usi spesso le espressioni «dentro», «mondo interiore», «da dentro». A me fanno molto venire in mente la nozione di «interiorità». Che cosa intendi esattamente con «mondo interiore»?
A. Intendo qualcosa di piuttosto semplice. Per me esiste un mondo esterno – il mondo della realtà oggettiva, come lo descrivono i fisici. Il mondo interiore è il mondo dell’esperienza cosciente. Naturalmente, le esperienze coscienti includono esperienze del mondo, così come esperienze del sé, ma sono «interne» nel senso che dipendono dal cervello. Il mondo di cui facciamo esperienza è una costruzione attiva del cervello, non il mondo come è realmente. Sono d’accordo con Kant quando afferma che non ha senso fare esperienza diretta della realtà oggettiva. Il mondo reale è sempre, per tutte le creature coscienti, nascosto dietro un velo sensoriale. Per essere chiari: per me il mondo interiore è tutta l’esperienza, non solo le esperienze che sentiamo come interne a noi, come i pensieri e i sentimenti.
Suppongo che questo sia il punto dove le nostre strade si dividono. Per te, la coscienza implica una sorta di accesso diretto al mondo, addirittura una identità con gli oggetti del mondo. Mi chiedo come si potrebbe trovare una soluzione comune. In un certo senso, gli oggetti del mondo, così come ci appaiono, sono parte della coscienza – il che potrebbe essere vicino a ciò che dici – ma, per me, gli oggetti dell’esperienza sono distinti dagli oggetti nella realtà oggettiva.
Una conseguenza importante è che, poiché ciascuno di noi ha un cervello diverso, ognuno di noi sperimenta il mondo in modo unico. Così come siamo tutti diversi all’esterno, lo siamo anche all’interno, anche se non ce ne rendiamo conto. Uno dei miei progetti attuali è quello di mappare questo paesaggio interno e di confrontare le nostre «diversità percettive» partecipando a un progetto che abbiamo chiamato «Censimento della percezione soggettiva». In questo progetto coinvolgiamo la cittadinanza in una serie di illusioni interattive, semplici esperimenti e sondaggi progettati per misurare le differenze individuali in vari aspetti della percezione, tra cui il colore, il tempo, il suono, la musica, le emozioni e molto altro ancora. Finora hanno partecipato più di 25.000 persone da oltre 100 Paesi, ma speriamo di coinvolgerne molte di più. Ne approfitto per fare un appello a tutti i lettori che volessero provare: aiuterete il nostro progetto e imparerete di più sulla vostra percezione e quella degli altri.
R. Deve essere molto bello far partecipare così tante persone. Mi piacerebbe trovare il modo di farlo anche qui in Italia. Magari in futuro. Ma torniamo al libro. Uno dei suoi punti centrali è che la realtà che percepiamo (o meglio che crediamo di percepire) sarebbe un’allucinazione, anche se affidabile. Ma se così fosse, come faremmo a sapere che abbiamo un cervello? Non dovrebbe essere anch’esso un’allucinazione? Friedrich Nietzsche sollevò un’obiezione simile in Genealogia della morale: Se tutto ciò che percepiamo fosse creato dai nostri sensi, come potremmo sapere che esiste un corpo? Anche il corpo sarebbe un’illusione.
A. A dire il vero, nel libro una delle mie metafore preferite è quella della «allucinazione controllata», dove «controllo» è importante quanto «allucinazione». Dividiamo i due pezzi. «Allucinazione» sottolinea che le nostre esperienze percettive sono costruzioni attive, previsioni prodotte dal cervello, che provengono in gran parte dall’interno verso l’esterno, piuttosto che riflessi diretti della realtà. Invece, «controllo» sottolinea che le previsioni percettive del cervello sono costantemente calibrate dai segnali sensoriali provenienti dal mondo e dal corpo. Quindi, le nostre esperienze coscienti non sono certamente estranee a ciò che c’è là fuori, ma sono legate al mondo da criteri di utilità, non di accuratezza.
Come facciamo a sapere che abbiamo un cervello? Solo indirettamente, ma va bene così. Non abbiamo alcuna conoscenza diretta del fatto che abbiamo un cervello, qualunque cosa questo possa significare. Che abbiamo un cervello è un’ipotesi eccellente per spiegare tutti i tipi di dati – sia quelli sensoriali, per quelli di noi che hanno avuto la fortuna di vedere, o toccare, un cervello – ma anche tutti i tipi di prove scientifiche e mediche. La vera natura del cervello umano è ancora in sospeso, così come è in sospeso la vera natura di qualsiasi cosa. Qualcosa di simile vale per il corpo. Le nostre esperienze del corpo – sia dall’esterno che dall’interno – sono costruzioni percettive, ma, come tutte le percezioni (non allucinatorie), sono limitate in modo utile dai segnali sensoriali. Una differenza importante tra il cervello e il corpo, da questo punto di vista, è che per il corpo abbiamo molti segnali sensoriali su cui basarci – che riferiscono sia del corpo dall’esterno (visione, tatto, propriocezione e così via) sia del corpo dall’interno (la cosiddetta interocezione – il senso del corpo dall’interno). Il cervello, invece, non percepisce affatto la propria attività, ma perché dovrebbe? Ecco perché esiste un contenuto percettivo vivido legato al corpo, che non esiste per il cervello.
Devo aggiungere che non mi piace il termine «illusione», perché implica l’esistenza di un modo più accurato, corretto, di percepire. La nostra esperienza del corpo non è un’illusione: è una costruzione percettiva che svolge un ruolo utile per l’organismo. Quando sento dire cose come «il sé è un’illusione» sono in parziale disaccordo. L’idea che esista una «essenza di me» immateriale – beh, è falsa, e quindi qualsiasi esperienza dell’esistenza di tale essenza è illusoria. Ma le percezioni di «essere un sé» esistono e svolgono un ruolo utile nel guidare il comportamento e nel mantenere in vita il corpo: non c’è nulla di illusorio in questo.
R. A questo punto vorrei obiettare che anche i neuroscienziati sembrano cadere in qualcosa di assurdo, almeno per il lettore medio. Sostenere che non siamo sicuri di avere un cervello è un’affermazione curiosa per un neuroscienziato. Ma avevo in mente di farti un’altra domanda, questa volta su un punto dove potremmo essere d’accordo: il rapporto tra intelligenza e coscienza. Direi che anche nel tuo libro sostieni che l’intelligenza è qualcosa di diverso dalla coscienza. Quindi potremmo avere macchine molto intelligenti con poca o nessuna coscienza... una possibilità spaventosa!
A. L’intelligenza artificiale si sta evolvendo a velocità sempre crescente, soprattutto nel campo dei modelli linguistici [ChatGPT n.d.T.]. Purtroppo noi esseri umani siamo spesso condizionati dall’antropomorfismo. Proiettiamo proprietà in altri oggetti (macchine, animali) sulla base di ciò che proveremmo noi in situazioni simili. Così, le persone attribuiscono a questi software la capacità di comprendere insieme a tutta una serie di altre competenze cognitive più specifiche e, persino, la coscienza; tutto senza avere alcuna prova. Secondo me, non ci sono motivi per pensare che, né ora né in futuro, l’intelligenza artificiale sarà cosciente.
Tornando alla tua domanda, come ho già detto, penso che la coscienza abbia la funzione di integrare grandi quantità di informazioni che sono cruciali per la sopravvivenza. Dal punto di vista dell’evoluzione, la coscienza fornisce una soluzione molto efficace del comportamento e della regolazione delle condizioni fisiologiche dell’organismo. Come dico nel libro, sperimentiamo il mondo e il sé con, attraverso e grazie ai nostri corpi.
Si noti che, affinché la coscienza abbia una funzione, non dobbiamo per forza credere abbia un potere causale al di sopra dei processi fisici all’interno del cervello e del corpo. Crederlo presupporrebbe re-introdurre un inutile dualismo, in cui l’esperienza cosciente e il mondo fisico sarebbero divisi. Il ruolo funzionale della coscienza è perfettamente compatibile con una visione del mondo non dualistica in cui le esperienze coscienti sono proprietà dei cervelli incarnati. È compatibile anche con la tua visione in cui la coscienza è tutt’uno con il mondo stesso? Immagino di sì, ma sarei curioso di sentirlo da te.
R. Ti rispondo al volo, per non portare via spazio. Per me il potere causale non è del cervello, ma del mondo che ognuno di noi incarna. Il cervello fa quello che dico io, anche se io non sono un’anima, ma un mondo che trova nel mio cervello e grazie al mio corpo la porta per produrre effetti. Ma capisco che possa suonare strano e ho ancora alcune domande che non vorrei rimanessero senza voce.
Lasciami continuare … oggi è dedicato al tuo libro. La prossima domanda è sui colori. In base alla tua posizione e quella di altri neuroscienziati, i colori non esisterebbero nel mondo fisico, ma sarebbero creati dal cervello. Non capisco! Come può il cervello, che fa parte del mondo fisico, creare i colori che hai detto non sono fisici? Si potrebbe rispondere che il cervello non ha colori, ma che il cervello vede i colori. Ma questo mi sembra ancora più confuso. Come può il cervello vedere proprietà che non fanno parte del mondo fisico? Come può il cervello vedere qualcosa? Il cervello è una cosa che vede? Non vedo come.
A. Il grande pittore francese Paul Cézanne amava dire che «il colore è il luogo in cui cervello e universo si incontrano» e aveva ragione. Quando sperimentiamo il colore, da un lato sperimentiamo meno di quello che c’è realmente, dall’altro lato sperimentiamo più di quello che c’è realmente. Meno, perché i nostri occhi sono sensibili solo a tre lunghezze d’onda di uno spettro di energia (incolore) che va dalle onde radio ai raggi X e oltre. Di più, perché da queste tre lunghezze d’onda il cervello evoca una tavolozza di milioni di colori distinguibili. Perché lo fa? Si scopre che la creazione di percezioni di colore è un modo utile per il cervello di tracciare le proprietà di riflettenza di diverse superfici, soprattutto in condizioni di illuminazione variabili. Anche in questo caso, il punto è che non vediamo le cose come sono, ma in modi che l’evoluzione ha stabilito essere utili per noi.
Nel mio libro faccio l’esempio di una sedia rossa. In questo esempio, il rosso che percepisco dipende sia dalle proprietà della sedia sia dalle proprietà del mio cervello; corrisponde al contenuto di un insieme di previsioni percettive sul modo in cui uno specifico tipo di superficie riflette la luce. Il rosso in quanto tale non esiste né nel mondo né nel cervello. Come diceva Cézanne, il rosso avviene dove le due cose si incontrano.
R. Non sono del tutto convinto. Dire che il cervello evoca i colori è poetico, ma mi rimane oscuro, almeno in senso fisico. Provo con un’altra domanda. Un punto chiave del libro è la nozione di previsione, che è un altro punto in comune tra noi due. Questo è un altro punto su cui siamo d’accordo. Il cervello è una macchina per predire il futuro, simile ai recenti progressi dell’intelligenza artificiale. Questa idea è in circolazione del tempo dei grandi fisiologi dell’ottocento come Hermann von Helmholtz. Hai appena detto che la percezione, ad esempio del colore rosso, è la migliore ipotesi del cervello sulle proprietà di riflessione delle superfici. Ma perché le ipotesi dovrebbero essere colorate?
A. Una domanda difficile! Che ci pone di fronte a quello che si chiama, dal libro di David Chalmers, l’Hard Problem della coscienza [Il problema difficile]: Qual è l’ingrediente speciale che trasforma un meccanismo nella esperienza cosciente? Non credo che sia una domanda posta bene. Nel mio approccio preferito, che chiamo il «problema vero della coscienza», l’obiettivo è spiegare, prevedere e controllare le proprietà della coscienza in termini di cose che accadono nei cervelli (e nei corpi e nei mondi). Il breve esempio del rosso è un esempio del mio metodo anche se, ovviamente, nel mio libro c’è molto di più. La mia strategia generale è quella di spiegare ogni tipo di esperienza cosciente come una forma di previsione percettiva. Alla fine di questo percorso, la mia speranza è che il «problema difficile» scompaia in una nuvola di fumo metafisico. Puf!
R. Dissento educatamente e provo a insistere. In un mondo fisico, di che cosa sono fatte le allucinazioni? Non vedo di cosa possano essere fatte le allucinazioni, a meno che non si parta già dal presupposto che ci si trovi in un mondo allucinatorio. Non è forse una sorta di dualismo mascherato?
A. Assolutamente no! Il mio principio di lavoro è il materialismo pragmatico. Insisto! Esploro fino a che punto possiamo arrivare ipotizzando che le esperienze coscienti siano proprietà della materia. Le domande che mi interessano presuppongono che la coscienza esista e si interrogano su come possa essere spiegata in termini di processi che si svolgono nei cervelli, nei corpi e nei mondi. Non chiedo e non rispondo alla domanda metafisica su cosa sia «fatta» la coscienza. Ma se me lo continui a chiedere rispondo che è fatta della stessa materia di cui sono fatti i cervelli e i corpi.
R. Coerente con il tuo internalismo! Ma non sono convinto. Visto che la metafisica non ti appassiona, lascia che ti ponga una domanda molto empirica allora. Come mai il contenuto di cui sono fatti allucinazioni e sogni è, quasi sempre, sorprendentemente quotidiano. Perché non abbiamo allucinazioni di colori completamente alieni o geometrie completamente ultraterrene? Persino le descrizioni fatte dai soggetti che fanno uso di droghe psichedeliche sono spesso ordinarie. Come mai?
A. Credo che tu abbia ragione solo in parte. Certo, molti sogni e allucinazioni sembrano essere combinazioni della percezione quotidiana. E questo è perfettamente comprensibile, dal momento che le percezioni, i sogni e le allucinazioni dipendono tutti dallo stesso meccanismo neurale. Ma ci sono alcuni casi di allucinazione che modificano questo meccanismo neurale in modo tale che possono verificarsi esperienze molto strane. Alcune sostanze, come la DMT, annullano l’esperienza del tempo e dello spazio, in uno modo totalmente diverso dall’esperienza quotidiana. In un esempio meno drammatico, abbiamo scoperto che le allucinazioni indotte da una luce brillante tremolante su occhi chiusi – come accade usando la nostra Dreamachine – le persone fanno esperienza di colori che hanno una profondità e una vivacità mai viste. Colori alieni, si potrebbe dire. E questo è vero anche per i daltonici e gli ipovedenti, che trovano la Dreamachine estremamente emozionante. La scorsa estate abbiamo fatto provare la Dreamachine a circa 40.000 persone, in quattro città del Regno Unito, e la stragrande maggioranza ha detto di averne ricavato un interesse rinnovato per la filosofia e le neuroscienze. Perché il mistero della coscienza è davvero un mistero che riguarda ognuno di noi, per tutta la vita.
Il dialogo potrebbe continuare all’infinito – nulla può impedire a un filosofo e a un neuroscienziato di discutere per ore il problema che si trova al naturale punto di incontro tra scienza e filosofia: la nostra stessa esistenza, cioè la coscienza. Ma dobbiamo fermarci, siamo andati oltre ogni limite ragionevole. Mentre saluto e ringrazio Anil Seth, mi preme aggiungere un paio di osservazioni.
Innanzitutto, devo sottolineare l’onestà intellettuale e la solidità scientifica delle risposte di Anil Seth e l’interesse del nostro dialogo pur muovendosi da conclusioni opposte. È stata una conversazione che, credo, dimostra come gli studiosi possano essere uniti nella loro diversità di opinioni.
In secondo luogo, e sorprendentemente, il nostro dialogo mi ha fatto riconsiderare l’apparente distanza tra i nostri punti di vista. Dopo aver riflettuto sulle risposte di Seth, ho avuto l’impressione che, sorprendentemente, ci sia un terreno comune. Come nella bellissima citazione di Cézanne, "il rosso avviene quando il cervello e il mondo si incontrano". Ma dove? Per Anil Seth, che è un neuroscienziato, è naturale che il rosso accada grazie ai meccanismi all’interno del cervello. Per me, che posso permettermi l’audacia del filosofo, il rosso accade negli oggetti esterni – anzi è tutt’uno con una proprietà dell’oggetto esterno. Da un punto di vista di empirico, c’è qualcosa che impedisce ai nostri punti di vista di fondersi e completarsi a vicenda? Me lo continuo a chiedere e la risposta è ... forse no. Ma non rispondo ora. Ci saranno altre occasioni, come ha detto Seth, per continuare «conversazioni che si sono protratte nel corso di anni o addirittura, come nel nostro caso, di decenni». Questa è la gioia della ricerca scientifica e della riflessione filosofica.