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Allarmismi / Coronavirus: una rete di senso

3 Febbraio 2020

Mediaticamente, l’epidemia è una manna. Una notizia ghiotta che attira l’attenzione del pubblico blasé, moltiplica l’audience e va avanti – ben più del suo oggetto – per contagio velocissimo: tutti la vogliono, tutti la cercano. Per quale motivo? Presto detto: perché è imprudente smentirne la portata. Chi si arrischia a gettare acqua sul fuoco quando, anche se per una percentuale bassissima, ci potrebbe scappare il morto a catena?

 

A bocce ferme, sappiamo tutti qual è il contesto in cui una notizia del genere – poniamo, il coronavirus cinese – si diffonde: quello di una società del rischio, come l’ha chiamata Ulrich Beck una trentina d’anni fa, nella quale nulla deve essere lasciato al caso, tutto deve avere una ragione, e ci deve essere sempre un capro espiatorio. Più si va avanti nella razionalizzazione tecnologica del mondo, nel controllo capillare di uomini e cose, più l’alea si trasforma in destino: più si va, cioè, verso le società tradizionali descritte dagli antropologi, dove non c’è evento del mondo che non abbia, invece che una causa, un significato.

Oggi, per nulla paradossalmente, il massimo della precauzione porta a una moltiplicazione dei disastri, i quali non finiscono di stupire coloro i quali – cioè tutti – pensano che una buona polizza di assicurazione possa coprire qualsiasi incidente capiti loro. Ex post è tutto chiaro: i media trasformano l’allarme in allarmismo, generano ansie incontrollate, scatenano il panico. Hanno gioco facile: nessuno osa smentirli, nella recondita eventualità che, per una volta, possano aver ragione. E a nulla vale citare le decine di casi precedenti, quando si sono paventati disastri inenarrabili – e tuttavia narrati – che non hanno poi avuto luogo. Per fortuna, si dirà: una fortuna però assai facilmente prevedibile e tuttavia, come di prammatica, mai prevista.

 

Basterebbe mettere in fila un po’ di numeri e di statistiche per rasserenare gli animi: quanti son stati i morti nelle precedenti influenze? quante sono le vittime annuali di un raffreddore, di una botta di caldo, di un incidente stradale, di un tifone improvviso, di un’incauta manovra dell’elettricista, degli strafatti che pigiano a tavoletta l’acceleratore dopo una nottata in discoteca? Tantissimi, se confrontati a quelli dell’epidemia in corso, dove le vittime possono ancora contarsi una a una. Ma nessuno lo fa, nella paura che questa volta la paura sia giustificata o giustificabile: e se invece, questa volta, fosse diverso?

L’indeterminatezza cognitiva genera continui scoppi passionali: meno si sa di questo virus, della sua provenienza, dei ritmi della sua diffusione, per non parlare delle soluzioni per arginarlo, più si assommano le preoccupazioni. Tutto diviene sospetto, tutto potrebbe essere infetto e perciò contagioso. I monatti sono tra noi. Così, a dispetto di medici e operatori sanitari, che invitano alla calma e alla ragionevolezza offrendo timidi argomenti e qualche rapido calcolo delle vaghe probabilità, giornali e televisioni, blog e social vomitano pagine su pagine, trasmissioni su trasmissioni, post su post, amplificando angosce e speranze, timori e tremori, aumentando a dismisura lettori e spettatori. Quando ti ricapita?

Ma i media, in fondo, non hanno mica tutti i torti. Sanno benissimo che se le mascherine vanno a ruba a un ennesimo scoppio di tosse d’un cinese in gondola, una qualche ragione, per quanto incongrua, ci deve pure essere. E non è detto che essi siano gli unici responsabili dell’allarmismo generalizzato. Troppo facile, ammettiamolo, dare loro tutte le colpe, anche perché, facendolo, siamo ancora dentro la logica – antropologicamente spiegabile, ma razionalmente insensata – della responsabilità a tutti i costi, del peccato secolarizzato, della catena di ragioni che indietreggia sino a scovare il destino crudele. E lì la storia qualche insegnamento dovrà pur avercelo consegnato.

 

 

Innanzitutto va ricordato il ruolo basilare del nostro immaginario pop, o se si vuole della cultura globalizzata che surrettiziamente ci permea. Il virus, abbiamo appreso con un certo gusto dell’esotico, ha preso piede in un mercato cinese di animali vivi, e con buona probabilità s’è propagato attraverso alcune condotte di areazione. L’orientalismo evergreen si sposa con le centinaia di thriller blockbuster che hanno deliziato le nostre serate invernali. In più, sappiamo delle curiose abitudini alimentari diffuse in Cina, dove – si vocifera – quelli che per noi sono amabili pet finiscono regolarmente in pentola, senza manco un controllo igienico circa la loro provenienza. Per non parlare della notoria disaffezione che i cinesi hanno verso l’ambiente: lì le polvere sottili sono ai massimi. Inoltre, è noto che da tempo il regime comunista, pur cedendo al capitalismo, non ha rinunciato alla dittatura, e dunque alla censura: chi ci dice che le notizie che arrivano da Xi Jinping non siano filtrate in senso ottimistico? E se i trecento e rotti morti fossero molti di più? La realtà fa corpo con la fantasia, divenendo tutt’uno con essa: da cui la ulteriore rinascita del razzismo, che porta gli esercenti dei bar a vietare l’ingresso agli asiatici e i leghisti a invocare ancora la chiusura delle frontiere. Tutto fa brodo.

L’immaginario popolare ha però conseguenze tangibilissime: quasi tutte d’ordine economico. I viaggiatori scarseggiano, gli aerei non partono, le merci restano nei magazzini, le borse crollano. Ci stavamo appena abituando alle colonne di cinesi a cui spiegare l’Ultima Cena o il Colosseo, e a cui servire Aperol spritz e maccheroni alla gricia, ed ecco che quest’insperato introito turistico si assottiglia. Avevamo imparato a esportare vino, olio e altri manicaretti italici nei ristoranti di Pechino e di Shangai, quand’ecco che ci ritroviamo con milioni di bottiglie in cantina. Per non parlare della finanza, che prosperava grazie alle transazioni coi cinesi e che adesso ha il fiato corto. Perfino le università avevano cominciato ad assumere i nostri cervelli in fuga, assorbendo gran parte della manodopera intellettuale in sovrappiù, ma sembra che la maggior parte di questi ragazzi stia tornando a casa.

Ecco allora la politica, condannata a decidere suo malgrado quale strada seguire: se dare ascolto al panico della gente o ai portafogli degli operatori turistici, commerciali e finanziari. Sapendo che qualsiasi scelta sarà parziale, perciò sbagliata, ma comunque urgente e necessaria. Il famigerato principio di precauzione, tanto invocato da filosofi e sociologi, parla chiaro: occorre decidere anziché temporeggiare, osare piuttosto che temere, prendersi – rischiando – delle precise responsabilità. Per gli uomini politici non è facile, certo: ma mica si chiamano decisori per caso. Qualcosa dovranno pur fare, dove anche il non far nulla è una scelta: per quanto tempo mantenere l’allarme? dove e quando costringere la gente in quarantena? quando si riapriranno i mercati? quando ripartiranno gli aerei? quando ricomincerà il turismo. Come dire che la gravità del virus è faccenda, più che sanitaria, politica. Il fatto che ogni governo nel mondo, rispetto ai medesimi fatti, sta reagendo in modo diverso ne è l’ulteriore dimostrazione.

La catena delle cause si trasforma in una rete di senso, dove, come nelle lingue e nelle culture, tutto si tiene e tutto si trasforma. La metafora del contagio che i mediologi hanno da tempo utilizzato nelle loro raffinate analisi ritrova insomma la sua lettera, se ne nutre a sazietà, per tornare a funzionare a più non posso. E poi dicono che la retorica non serve a niente.

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