Cosa c’è nella testa degli assassini di Parigi?

15 Novembre 2015

Provo a mettermi nella testa di uno di quei giovani che armati di fucili d’assalto hanno ucciso quasi a sangue freddo tanti loro coetanei al Bataclan di Parigi. Non so se ci riuscirò, ma di sicuro so che se non riusciamo a immaginarci cosa possano aver pensato mentre sparavano ai ragazzi del teatro, mentre urlavano, come dice un testimone, “Allahu Akbar”, non riusciremo a capire nulla di quello che succede intorno a noi.

 

Non si tratta infatti solo di grandi ideologie, di eventi politici e militari di ampia portata, di islamismo estremista o di guerra santa, di questo certamente, ma anche di gesti individuali, personali, e insieme totalmente assoluti e assurdi, gesti che maturano nella testa di persone come noi.   

 

So bene che dicendo così – “persone come noi” – mi espongo alla riprovazione di chi pensa che gli omicidi sono assolutamente diversi da noi, che sono, appunto, degli assassini, che non appartengono per questo al genere umano. Lo negano, perciò non ne fanno parte. Così si crede. Ma non è così. Mi conforta che un testimone e uno scrittore come Primo Levi avesse capito già molti decenni fa che gli assassini industriali del Lager nazista erano uomini come noi. Ha scritto: appartengono alla nostra stessa razza umana. Qui sta il problema. Non sono troppo diversi da me, anche se io assassino non lo sono. Tuttavia, nonostante questa appartenenza comune, io non so cosa c’è nella loro testa. Come posso immaginarmi cosa pensa un kamikaze che si scaglia con la sua bomba sulla folla pacifica di una città europea o mediorientale, a Parigi come a Tel Aviv? Non è facile. Anzi forse impossibile. Vado per tentativi. Procedo per interposta persona, mi affido a chi prima di me ha provato a fare questo.

 

Il 20 marzo 1995 cinque adepti di una setta religiosa giapponese, Aum, salgono sui treni della metropolitana di Tokyo. Hanno con sé, in sacchetti di plastica, un gas potente, il sarin, creato dai tedeschi nel 1938, oggi noto come gas nervino. Con la punta dei loro ombrelli forano i sacchetti e fanno fuoriuscire il gas. Risultato: 3796 feriti, moltissimi in condizioni gravi, e 12 morti. Un gesto pazzesco. Immotivato. Non c’è a sostenerli nessuna idea di guerra santa, di affermazione di una religione sull’altra. Qualcosa di religioso è però in gioco, dato che sono membri della setta Aum guidata da un santone, Shoko Asahara. Questi tiene conferenze, afferma di praticare la levitazione, appare in televisione, crea intorno a sé una struttura militante. Ha anche scritto un testo apocalittico, Il giorno della distruzione, pubblicato sei anni prima.

 

Murakami Haruki, lo scrittore giapponese autore di libri oggi assai celebrati, si è posto il problema di capire perché quelle cinque persone l’hanno fatto. Perché hanno portato in giro quel gas terribile, forato i sacchetti e provato a uccidere migliaia di persone. Un atto irrazionale, assurdo allo stato puro. Murakami ha scritto un libro su questa vicenda, Underground (Einaudi), diviso in due parti. Sono due libri. Nel primo ha intervistato i sopravvissuti, nel secondo i membri della setta.

 

Tra gli assassini c’è un medico, un uomo stimato e stimabile, che ha salvato molte vite, il dottor Ikuto Hayashi. Non è un ragazzo, bensì un uomo maturo. Com’è possibile che l’abbia fatto? Murakami non si mette nella sua testa – cosa davvero difficile –, fa qualcosa di diverso: prova a immaginarsi di essere uno dei suoi amici. Cosa avrei potuto dirgli nel momento in cui ha preso i voti ed è entrato nella setta di Aum?, si chiede. Dirgli che sta commettendo un atto irragionevole, si risponde. Dirgli che “la realtà è qualcosa che include il disordine e le contraddizioni”, che entrambi sono “compresi nella sua struttura, e se mai venissero eliminati, non sarebbe più la realtà”? Non c’è dubbio che la scelta del medico giapponese implica la soppressione di ogni contraddizione, di ogni disordine mediante un linguaggio e una logica apparentemente coerenti; tuttavia, dice lo scrittore che di questo se ne intende, la parte soppressa prenderà la sua rivincita, aspetterà al varco ciascuno dei convertiti.

 

Quando ho letto per la prima volta queste frasi non ho potuto fare a meno di pensare a dei miei coetanei conosciuti molti anni fa, altrettanto onesti e per bene come il dottor Haysaki; questi giovani erano decisi a creare le basi per una rivoluzione in Italia: far sì che la classe operaia fosse il cardine di un nuovo sistema sociale e politico, infinitamente più giusto di quello dell’epoca. Sono diventati tutti, o quasi, degli assassini. Hanno ucciso a sangue freddo altri uomini, magari più adulti o anziani di loro, in nome del nuovo ordine da creare, contro il disordine del capitalismo e delle multinazionali. Nessuno avrebbe convinto il medico giapponese o i ragazzi delle Brigate Rosse a deviare il loro percorso d’iniziati. Il linguaggio e la logica non realistica sono molto più forti e non tengono conto di quella che chiamiamo “realtà”. Si oppongo alla realtà, la vogliono rovesciare, eliminare, in nome di un’altra realtà più reale ai loro occhi. Nessuno è al riparo da tutto questo, dice Murakami, poiché il muro che si erge “tra la nostra vita quotidiana e il culto religioso è molto più sottile di quello che immaginiamo”.

 

Domenico Tosini, un sociologo, si è interrogato sul perché giovani del mondo arabo sono spinti a suicidarsi facendo deflagrare una bomba in mezzo alla folla, o entrare armi alla mano in un posto per uccidere più persone possibili, restando verosimilmente uccisi a loro volta. Perché i martiri? Tosini non entra nella testa di questi giovani assassini che si assassinano; dice ugualmente cose molto interessanti. Cita una frase di Ali Shariati, uno degli ispiratori della lotta contro lo Scià, teorico del martirio islamico, che suona così: “per un essere umano morire equivale a garantire la vita della comunità. Il suo martirio è un mezzo per conservare la fede”.

 

Questo teologo, se così possiamo chiamarlo, ha ispirato la campagna suicida degli Hezbollah negli anni Ottanta del XX secolo. La fede diventa un elemento fondamentale, un elemento decisivo nella decisione di trasformarsi in un martire per infondere sangue nuovo nelle vene della fede religiosa. “Il martirio equivale alla trasfusione del sangue in una società umana particolare, soprattutto in una società che soffre di anemia. È il martirio che infonde sangue fresco nelle vene di una tale società”. Così scrive il pensatore sciita Murtada Morahhari nel 1979.

 

Nella testa dei ragazzi che hanno ucciso a Parigi c’è questo: un’incontrollabile irrazionalità cui la fede religiosa estremista di uomini più maturi di loro ha dato un ordine e una struttura coerente. Nessuno può facilmente estirpare queste idee dal cervello di chi le ha sentite ripetere incessantemente e con la forza che deriva da un’autorità religiosa, o ritenuta tale.

 

Murakami ha provato a seguire una traccia più sottile per capire Ikuo Hayashi: questo medico, questo uomo dall’istinto umanitario, bravo medico e amico sincero, ha rinunciato a pensare con la sua testa. Si è affidato una volta per tutte al santone di Aum. Ha smesso di arrovellarsi su qualsiasi questione, e in particolare quella del controllo sul suo Io. Sono temi che chi ha un po’ di consuetudine con la letteratura psicoanalitica conosce. Erich Fromm ha scritto un libro oggi dimenticato, eppure molto esplicito: Fuga dalla libertà. Il medico giapponese si è identificato con l’Io di Asahara, il santone Aum, più grande del suo. Come seguace ha raggiunto così la propria autonomia nella assoluta dipendenza.

 

Molte delle forme di estremismo che vigono nella nostra società contemporanea, non solo quelle religione, ma anche altre, differenti forme, persino a-ideologiche, sono il risultato di una rinuncia di questo genere. Murakami dice a proposito dei seguaci della setta: sono passivi, anche quando uccidono con il sarin, perché l’unico vero combattente è Asahara, gli altri sono semplicemente inghiottiti e amalgamati nell’Io del capo assetato di battaglia. I ragazzi che hanno ucciso a sangue freddo altri ragazzi a Parigi, urlando frasi insensate dal presunto significato religioso, tendono a una purezza che è stata predicata loro. Una purezza che non trovano nella società occidentale. Questa purezza li ha fatti agire come in preda a un incubo.

 

Avevano nella loro testa, presumo, l’idea di un ideale incrollabile di superiorità (sto parafrasando cose che Murakami scrive dei fedeli Aum da lui intervistati dopo il processo e la condanna). Contro questo convincimento non è facile agire. Non si smonta l’irrazionale con il razionale. Non c’è ragionamento che tenga. L’estremismo è solo un effetto di questa visione pura e incrollabile che opera nello loro teste. Un furore che non si ferma neppure davanti al sangue versato, anzi se ne eccita, ne trae follemente lo stimolo per uccidere ancora. Conferma della fede.

 

Qualcuno cercherà di spiegare il loro gesto con la condizione di emarginazione sociale ed economica in cui sono tenuti nelle periferie parigine questi giovani; cercherà, detto altrimenti, una spiegazione sociologica. C’è, non lo nego, tuttavia non c’è solo o soltanto questo. Ci sono esempi di follia suicida presso altri popoli e in altre classi sociali che ci confermano che la spiegazione ideologica o politica o sociale non basta.

 

Nell’ottobre del 1944 25.000 studenti di leva furono portati in corteo nel cortile esterno del tempio Meji di Tokyo. Erano tra i migliori allievi dell’università, i più preparati, i più intelligenti. Dopo essere stati arringati dal Ministro della Istruzione e da militari, molti di loro scelsero di arruolarsi nel corpo del “Vento divino”, tra i suicidi. Nessuno dei militari di carriera chiamati a far parte dei kamikaze fece qualcosa di simile, eppure erano dei soldati, avevano a che fare con la morte, davano la morte. Quei ragazzi erano l’élite intellettuale del paese. Certo, dietro a queste scelte c’è una antica tradizione giapponese per cui “la vita del samurai si svela nella morte”. Ma non bastava a indurre questi ragazzi a offrirsi volontari. Alla fine saranno 2000 i giovani martiri che volano con i loro pesanti aerei contro le navi americane. “Più ne morivano, più i sopravvissuti, vergognandosi della loro istintiva voglia di vivere, erano ansiosi di seguirli” (Maurice Pinguet). La forza della vergogna, un sentimento che alberga in molti aspiranti martiri, li ha portati all’azione estrema. Negli ultimi messaggi per i loro genitori i ragazzi mostrano l’orgoglio e la repulsa della vergogna come sentimenti principali.

 

Per quanto in questi anni abbia letto numerosi saggi o articoli, di cui riferisco in un libro, L’età dell’estremismo, da cui traggo parte di questo materiale esemplificativo, non ho trovato ancora una spiegazione sufficiente ad argomentare perché un giovane arabo, un iraniano, uno scita, un giovane musulmano delle periferie di Londra o Parigi, decida di dedicarsi a una missione suicida, di assaltare mitragliatore alla mano una caserma, un locale, un teatro, una scuola, massacrando a sangue freddo chi vi si trova. Ci sono molti profili sociali e psicologici. Alcuni psicologi parlano di personalità impulsivo-instabili. Di certo su molte persone che somigliano in qualche modo al dottore giapponese, che rinunciano a pensare in proprio, che sono fragili o deboli psicologicamente, agisce efficacemente la predicazione estremistica. Ma una spiegazione definita non c’è, e forse non può neppure esserci.

 

Immaginare cosa c’è nella testa del giovane terrorista è fuori dalla mia portata, per quanto somigli a me, come me un essere umano, è difficile pensare come lui. Solo lui pensa così. Eppure una questione che possiamo capire c’è, o almeno seguire fino a un certo punto. La offre non la psicologia, la psichiatria, la sociologia, ma piuttosto la letteratura. Si tratta di una storia che racconta Salman Rushdie e che si avvicina alla storia degli adepti di Aum, ai ragazzi assassini di Parigi, ai martiri kamikaze del Medio Oriente.

 

Nel romanzo I versi satanici Salman Rushdie racconta la storia di Ayesha, una giovane bellissima, che si trasforma in una santa mistica e visionaria dell’Islam. Convince gli abitanti del suo villaggio a raggiungere a piedi La Mecca attraversando le acque del Mar Arabico. Dice ai suoi fedeli: si apriranno davanti a noi. Il villaggio si mette in marcia e attraversa le strade polverose dell’India lasciando dietro di sé una scia di morti: anziani e malati. Un solo uomo, il maggiorente del villaggio, si oppone alla ragazza che ha sedotto la gente del villaggio. Li segue su un’auto, a distanza, anche perché la moglie, malata di cancro, spera di ricevere una guarigione miracolosa dalla ragazza. Alla fine arrivano davanti al mare. Ayesha entra nelle acque e con lei i seguaci. Scompaiono tutti alla vista. L’uomo si tuffa nel mare cercando di raggiungere i compaesani, ma esausto sviene. Quando riprende i sensi è in una corsia d’ospedale. Accanto a lui un poliziotto che lo interroga su quello che è successo. C’è anche un testimone, un altro del villaggio, e persino un ragazzo. Dichiarano entrambi che le acque si sono aperte e hanno scorto la ragazza camminare lì in mezzo. I poliziotti intimano a entrambi di non dire stronzate. La gente sulla riva non ha visto nulla del genere. Ci sono i cadaveri degli annegati sulla riva gonfi e fetidi, e se non la smettono, li porteranno là a vedere. Al che l’uomo dice: “Potete mostrarmi quello che volete, ma io ho visto quello che ho visto”. La spiegazione la fornisce l’uomo sopravvissuto, che ha visto le acque aprirsi: la nostra vergogna è che non siamo stati degni di accompagnare gli altri nel viaggio, davanti a noi le acque si sono chiuse e ci sono state sbattute in faccia le porte del Paradiso.

 

Ecco cosa c’è nella testa di quei giovani omicidi con il fucile mitragliatore: le immagini del Paradiso, quello che agli altri è negato, e che nessuna prova di realtà riuscirà a convincere che non c’è, che è tutta un’illusione, una truffa dei predicatori che vogliono solo la loro morte, che la strumentalizzeranno il giorno dopo per i loro fini di potere. Non crederebbero alle nostre parole, semmai potessimo pronunciarle nel momento della loro decisione folle. Noi che diciamo così siamo degli infedeli, spergiuri, bestemmiatori, per questo noi stessi degni di morte.

 

Non ho risposte davanti a questo interrogativo: non so cosa c’è nella loro testa? Non ho nessuna rassicurazione e nessuna consolazione. Posso solo trascrivere un’osservazione di Adam Phillips. Ogni volta che la rileggo mi fa pensare: “i fanatici sono persone che hanno dovuto aspettare troppo a lungo qualcosa che potrebbe non esistere”. Per questo uccidono, per questa non esistenza. Cosa possiamo opporre noi occidentali a tutto questo? Un’altra non esistenza? Difficile dirlo.

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