Delio Tessa. La bella Milano
A Palazzo Morando, nella Milano del quadrilatero, si può in questi giorni visitare una delle innumerevoli mostre fotografiche dedicata alla città tra le due guerre. Di solito la massima attrazione per i visitatori, e vale anche questa volta, è osservare le fotografie della Milano che non c'è più: quella dei Navigli, della Darsena, il glorioso sistema di trasporti via acqua che si fa risalire a Leonardo e che dava un tono da ville d'eau alla città. I Navigli vennero interrati tra il 1929 e il '30 e da allora aleggia un sentimento di nostalgia in fondo antitetico allo spirito milanese che, come tutte le grandi città, o che si credono tali, è sempre pronto ad abbracciare con entusiasmo il partito del nuovo.
I nostalgici dovrebbero rileggere Delio Tessa (1886-1939), ora che Quodlibet ripropone le sue prose apparse sui giornali milanesi e ticinesi tra il 1934 e la morte, avvenuta pochi giorni dopo lo scoppio della seconda guerra. “Quando c'erano i Navigli ogni anno, tra Marzo e Aprile, si andava incontro alla cosiddetta «sutta»; si toglieva cioè l'acqua per circa un mese allo scopo di pulire il fondo melmoso perché puzzasse un po' meno”. Tessa, nella tradizione del Porta, da lui giustamente idolatrato e di cui è stato l'unico vero erede, dava voce al popolo: “Al povero Cesarino – il commesso del notaio Bertoglio (quello vecchio) – e batti e batti erano riusciti a far fare un viaggetto. È andato a Venezia. Al suo ritorno dopo un paio di giorni d'assenza erano corsi incontro a chiedergli: «È inscì ? T'è piasuu ? Coss t'ee vist?» «Tutt navili!»”.
Questo breve campione di prosa è tratto da Mastro Piccone, un articolo del 1937 che ci aiuta a comprendere meglio, con l'uso espressivo del dialetto, la personalità de grande poeta e prosatore milanese per il quale la partita critica non sembra mai essere definitivamente vinta.
Autore di un solo libro in vita, L'è el dì di mort, alegher!, pubblicato da Mondadori nel 1932 con i buoni uffici dell'amico Luigi Rusca, ha dovuto aspettare le cure del grande ingegnere della letteratura lombarda, Dante Isella, prima di entrare nel canone degli scrittori del nostro XX secolo, nonostante gli apprezzamenti di Antonicelli, Pasolini, Fortini, Cases, l'inserimento nella classica e insuperata antologia della poesia del Novecento italiano di Mengaldo e una precoce segnalazione di Croce.
Eppure ogni volta si riparte dall'immagine dello scrittore che evoca la città del passato, del “l'era inscì bella ier”, un modo di dire milanese per definire chi rimpiange un po' invano il tempo che fu. Oltre che narratore della città ottocentesca che muore, l'altro topos legato a Tessa è l'antifascismo, un atteggiamento tra il morale e l'estetico, che tra le righe, si riesce a scovare in queste prose. In effetti nella mostra di cui parlavo sopra e, più in generale, quando si legge della Milano tra le due guerre, si è tutti protesi a cercare segnali di antifascismo, di cripto-opposizione politica (ah, i giovani di Corrente!), dimenticando che la città è stata fascista con convinzione, dalla nobiltà (un Visconti di Modrone fu podestà) alla piccola borghesia e a una parte della classe operaia, e che ancora nel 1944 i milanesi sottoscrissero con grande slancio un prestito di guerra della RSI. La strategia di Tessa, pur tenendo conto che scrive per un giornale straniero, è molto sottile: la sua stella polare è Arturo Toscanini di cui celebra le doti artistiche ma anche la forte personalità. Il direttore d'orchestra non dirige più in Italia, dopo l'episodio dello schiaffo di Bologna, ma un gruppo di facoltosi simpatizzanti lo raggiunge nei famosi concerti di Lucerna – la stessa cosa si è ripetuta, ma sembra una parodia, con gli “abbadiani itineranti” che hanno seguito il Maestro dopo l'“esilio” dalla Scala – anche se alla frontiera vengono diligentemente annotate le targhe delle automobili.
Tessa ne descrive la casa vuota di Milano, le semplici abitudini, lo stile antiretorico, quindi antifascista. Quando invece scrive per «L'Ambrosiano», quotidiano milanese con una notevole terza pagina (ci scrive, tra gli altri, Gadda), l'antifascismo fisiologico di Tessa utilizza il rimpianto per il passato, il sentimento per la civiltà dell'Ottocento, il pedale in sordina dell'umorismo – un solo esempio: parlando del vecchio Teatro Gerolamo ricorda come “le scene sono così poco mutate che qui seduto ti par quasi impossibile che di fuori l'Ala Littoria solchi il cielo coi suoi apparecchi” – lo stesso uso del dialetto, per abbassare il suo sguardo alla descrizione dell'umanità semplice fatta di portinai e servette, piccoli impiegati, lavoratori dei quartieri popolari che scompaiono sotto i colpi del «piccone risanatore».
La predilezione per gli scorci crepuscolari – “nebbioni come quelli oggi non se ne vedono più” – qualche sapiente tocco di patetico, un sospetto, di tanto in tanto, di “prosa d'arte” o di “stampe dell'Ottocento”, hanno offuscato la vera novità del Tessa, la sua straordinaria modernità, per la quale si possono invece spendere senza esitazione i nomi dei grandi espressionisti tedeschi (Döblin, Toller), di Dos Passos per il montaggio sincopato (che nel nostro si risolve nell'uso 'nervoso' della punteggiatura), di Benjamin per la riflessione sull'incipiente modernità e il suo intrinseco rapporto con la metropoli, o risalire alle pagine autobiografiche di Canetti in cui la città è un ossessivo ma entusiasmante caleidoscopio di facce, ognuna con un proprio destino.
All'origine di tutto c'è Baudelaire, come scrive lo stesso Tessa accostandogli Porta: “E poi in Baudelaire si sente l'odore della folla, si vede la sua Parigi che egli amò di un amore che sembra avere le radici nell'odio”. L'irruzione della modernità è testimoniata dagli articoli su Chaplin (paragonato alla maschera milanese del Tecoppa), su Disney di cui viene dissezionata la geniale meccanicità ritmica che dà il tono alla narrazione, pur rilevando che “i sentimenti si fabbricano ormai come le automobili”. Il poeta, oltre che essere un grande appassionato di cinema (il celebre finale de La mort della Gussona con l'evocazione delle stelle del firmamento hollywoodiano a confronto con una vecchia puttana che muore) è autore di sceneggiature che, naturalmente, non hanno mai trovato la via dello schermo.
Tessa, come ha rilevato Mengaldo, è l'unico poeta dialettale che ha fatto rifluire le novità delle avanguardie (il sogno surrealista) nei suoi componimenti. Non starò ad elencare tutti i meriti per quello che per me, si è capito, è un genio del nostro Novecento, oltre che una persona che si sarebbe voluto conoscere e sostenere in un isolamento che in qualche momento gli sarà sembrato assoluto.
A rileggerlo a più di venticinque anni di distanza dalle prose di Color Manzoni (Scheiwiller, 1987) misuro anche la mia nostalgia per le espressioni di un milanese italianizzato che ho ritrovato nelle pagine di questo libro. Così, alla rinfusa, “Santa pace!, bisa bosa, comprendonio”. Oppure “mi rincresce, se crede, è un peccato, che peccato!”. E altre ancora, e così rivedo le care facce di chi le pronunciava e non c'è più.
Per finire m'immagino Tessa che visita l'EXPO del 2015 e la sua curiosità attratta dai padiglioni dei paesi più stravaganti, quelli di cui nessuno ha mai neanche sentito parlare, e che incomincia, come per caso, a discorrere: “Ma lì da voi fa caldo tutto l'anno? Perché, non creda, anche a Milano ci possono essere certi caldoni...”.