Elogio dello straccio e dei reietti

19 Settembre 2014

Walter Benjamin, decisivo e profetico per la comprensione della modernità, è lo spirito guida che abita il recente Memoria dei senzanome. Gianluca Solla mette insieme una raccolta di saggi limpidi e splendide divagazioni per una «breve storia dell'infimo e dell'infame» in cui trovano posto straccivendoli, rovine, sottoproletari, poveri e poverissimi, perdigiorno, banlieues, slums, plebi e clandestini, irregolarità di ogni sorta accomunati dall'eccedenza rispetto a un logos normativo e normalizzante, impotente e infastidito dalla stessa esistenza di ciò che si sottrae alla sua presa.

 

Il libro è una sorta di daydreaming, piacevolmente ricorsivo e illuminato da una scrittura spesso lirica, che si apprezza tanto nel singolo tassello quanto nel mosaico complessivo: una riflessione sulla catastrofe nella storia e al tempo stesso un involontario manifesto del bisogno di giustizia sociale e testimonianza del desiderio di felicità che anima ogni sincero lettore del lunare critico berlinese.

 

Due cose su questa filosofia della storia, una corda tesa tra il marxismo e il messianismo, la cui difficile lettura è stata disincentivata da molta esegesi, a tratti esoterica. Per Benjamin l’ottimismo progressista dello storicismo del tardo Ottocento e del primo Novecento è una delle logiche culturali profonde dell'occidente. La dichiarata razionalità della storia è inseparabile da un'apologia del presente, contrassegnato dalla mitologia e dalla giurisprudenza dei vincitori: studiare il passato significa in altri termini riconoscere la «tradizione degli oppressi» – i vinti della storia, i milioni di uomini e donne senza nome e volto macinati dalla storia – e imparare a sentire l'eco delle voci dei sommersi; la cultura è inutile se non serve a comprendere le emergenze del presente e così la critica della cultura dovrà orientarsi a vedere un presente che chiede di essere compreso, per riscattare l'umanità che lo abita. La storia è sempre legata al presente e “impossessarsi del passato” significa saperlo trasformare in atto politico.

 

Muovendo da tali premesse, questo libro, dotto e sottile nel disegno dei cerchi sovrapposti e di diverse dimensioni che lo compongono, ci ricorda «l'irreparabilità di una realtà in cui non si tratta di localizzare temporalmente la catastrofe nel futuro o nel passato, ma di riconoscere la perdita come realtà in atto». Lo straccio è il simbolo di questa disfatta e il nostro rapporto con lo straccio, quello stesso oggetto che diventa altro dopo che qualcuno lo ha recuperato dal bidone in cui lo abbiamo lasciato, significa cercare un rapporto con il rimosso e con tutte le «figure di uno scarto collettivo». Nell'«inezia rimossa dal campo visivo, stracci e spazzature, si apre l'opportunità di un altro accesso al mondo». «Così, proprio nel momento in cui un oggetto diventa obsoleto, come accade per lo straccio, proprio nell'incontro con la sua obsolescenza, che lo rende inutile, esso trova lì la sua vera destinazione. Libero dall'uso, da esso si sprigiona l'epifania di quanto era promesso ed era rimasto sinora occultato dal valore di uso».

 

Trasformare un bottone in un anello o una forchetta in un bracciale, riparare macchinari e ridestinarli ad altro uso, scambiarsi gli abiti o acquistarne di usati, sono esempi minimi da sempre diffusi di un gesto capace di contrastare, anche solo per un attimo e dal punto di vista simbolico, la religione cultuale del capitalismo. Può sembrare poco o troppo, ma gli scarti dell'esistere che vediamo nei mercati delle pulci delle nostre città (quelli non ancora addomesticati o brandizzati dal vintage e continuamente risorgenti) affascinano e permeano da sempre le culture antagoniste perché, oltre al bisogno reale, possono perturbare il pensiero strumentale tardo-moderno e suggerire vie alternative all'esistenza reificata dall'egemonia economico-produttiva.

 

Per Benjamin la promessa di felicità incondizionata – che altro significa il desiderio di un legame con la trascendenza? – si può dare cercando di condurre la propria esistenza oltre le forme secolarizzate di “principio supremo” come il capitalismo, il progresso e la tecnocrazia: un afflato di redenzione terrena brilla in ciò che che si sottrae al potere neo-mitologico del pensiero dominante e senza questo nessuna azione politica, collettiva e organizzata sarebbe possibile. Ma mi pare che qui ci sia un passo in più rispetto a una consolatoria (e borghesissima) visione dell'arte che redime l'esistente, con cui molta sinistra intellettuale si è gingillata mentre campava con le rendite di famiglia e con il gioco di flirtare con l'inaccettabile confondendo il gusto per l'estremo con la denuncia. L'altro file rouge che solca il libro è quell'aberrazione e quell'abominio che allo stesso Marx appare come Lumpenproletariat, il proletariato straccione e plebeo, dimentico di sé e sempre pronto ad allearsi con la reazione. «“Scarto, rifiuto, feccia di tutte le classi” […] non costituisce una realtà autonoma, ma l'avvento di una cattiva storia che sopraggiunge a parassitare la buona, che è la storia delle classi e del trionfo del proletariato che tutte le classi annullerà».

 

Inconsapevole, inumano, ferino, il sottoproletariato è un «debordare dalle forme classiche della rappresentazione politica», sorto dalla «decomposizione» della massa e della classi pericolose. Rappresenta quello che il selvaggio rappresenta per il colonialismo: un'alterità con cui non si vuole fare i conti e che si include in categorie necessarie e irrevocabili. E che può servire a semplificare molte cose e a giustificare numerosi errori, il primo dei quali – che già Bakunin contestava a Marx – è la ricerca della presa del Potere e dell'imposizione militare di un Nuovo ordine.

 

I Lumpen, che sono perturbanti, siano essi senzafissadimora o clandestini o persino neet o forconi o qualsiasi categoria misteriosa che per questo chiama una designazione, alla fine dei conti risultano essere inconoscibili spettri, re-inventati come rovescio del proletariato disciplinato e organizzato: scrive Solla «sarebbero proprio questo svuoto – questo svuotarsi ­– di ogni determinazione». «Questo vuoto fa tutt'uno con l'irriducibilità dell'elemento informe della vita alle forme precostituite in cui il pensiero occidentale, e le sue forme di prassi politica, hanno sempre cercato di riportarla». Quella stessa logica, che trasforma la nascita in nazione e perverte sistematicamente il semplice venire al mondo, definisce in larghissima misura le sorti dei nascituri, spesso a partire dal caso storico o geografico. Chi in uno slum e chi in una casa calda, chi in discarica e chi con la barchetta del papà, chi sotto le bombe e chi a progettare bombardieri, chi con la terza media presa a calci in culo e chi il Phd alla Columbia.

 

Il nostro Lumpen oggi viene fuori da chissàdove, dalla disintegrazione della comunità urbana o dall'attraversamento di confini, deserti e mari. Non ci assomiglia neanche un po', non potremmo essere noi. La rovina che questo inquietante, che viene nominato solo per essere neutralizzato, porta con sé è un richiamo alla «vita irriducibile ai significati».

 

Questo non vuol dire avallare l'ipocrisia della ricchezza che si immerge nei «tesori dell'autenticità che il bohémien sospetta celato tra le pieghe della grande metropoli», l'orrore altrui eletto a oggetto dell'ennesima mostra di arte contemporanea per la commozione delle dame e per i dibattiti degli intellettuali sull'irrepresentabile. Significa provare a pensare ai conflitti nei luoghi che ignoriamo sottocasa o ancora non conosciamo, nelle forme e nei volti di chi non vogliamo vedere perché ci disturba con la sua sola esistenza. Aprire gli occhi sulle montagne di idiozie che decenni di socialdemocrazia degenerata e ipocrita, corrotta o estetizzante hanno prodotto, cancellando oltre un secolo di storia dell'emancipazione delle classi subalterne.

 

Forse venire a conoscenze delle 'profezie' di un possibile futuro diverso, materiali per l'utopia che si riaccende nel presente e capace di parlare alle comunità che verranno. Provare a trasformare questo disagio in atto politico è il compito dei prossimi anni per una sinistra che ancora possa dirsi tale.

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