Emarginati, balordi, ribelli 

15 Giugno 2022

Cinque vite: “emarginati, balordi, ribelli, raccontano la loro storia”. Ricapitolano la trama sfilacciata della propria esistenza, non per estrarne una qualche lezione, ma per guadagnare un punto di prospettiva su un paesaggio frastagliato, e talvolta per giustificarsi agli occhi del mondo, o forse, più semplicemente, ai propri.

Questo è Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi, reperto del tutto singolare nel Novecento letterario italiano, refrattario alla classificazione critica, indocile fioritura degli anni Sessanta (la sua prima edizione esce da Einaudi nel 1961), come lo è Milano, Corea di Francio Alasia e ancora Danilo Montaldi (con una ricca appendice di “biografie”), o L’Immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi, Operai del Nord di Edo Vallini, Inchiesta a Palermo di Danilo Dolci, e Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, di qualche anno prima. Itinerari diversi dentro geografie diverse, ma con un comune punto di tensione: raccogliere, prima che ne vengano cancellate le tracce, le “molte voci a lungo mute”.

E ascoltando quelle voci provare a sentire lo stato in cui versa il nostro Paese, che si è ormai lasciato alle spalle le rovine della guerra inoltrandosi nella “terra incognita” della modernità industriale. Capire quello che sta accadendo, e molto sta accadendo con bruciante accelerazione: l’Italia rurale si va inabissando. Capire, ma a partire dagli angoli. E capire ascoltando. Come fa Danilo Montaldi nelle Autobiografie della leggera. Non un’inchiesta, solo racconti, vite messe in parola.

Osserva David Forgacs in Margini d’Italia: “Questi testi hanno segnato l’inizio di un importante tentativo di rovesciare lo sguardo dall’alto, o la prospettiva dal centro verso i margini, che fino a quel momento aveva congelato i poveri delle realtà urbane come un gruppo anonimo e indifferenziato al suo interno, oggetto collettivo di osservazione piuttosto che soggetti individuali delle proprie narrazioni”.

Nelle Autobiografie della leggera uomini e donne prendono la parola, e con tono fermo. Sono le voci di un’altra Italia, non quella risonante e perentoria che vive nello stordente frastuono del “boom” economico, rinsaldata dall’epica televisiva, ma dei suoi resti, mondi che si vanno perdendo, vite sul punto di sciogliersi nel nulla, che, nella nuova realtà, trovano poche ragioni di essere. La modernizzazione incalza, il “miracolo” gonfia le aspettative promettendo agli italiani la definitiva uscita dal secolare stato di povertà: questo è il nuovo idolo, e appare come un miraggio a portata di mano, un Eden cui tutti possono accedere. 

Non c’è spazio per chi resiste. I “balordi” appunto, niente affatto partecipi della generale frenesia produttiva. Allergici al più diffuso sentire, restano sulla soglia, galleggiano sui tempi nuovi come residui di un altro mondo. Abitano i ribollenti sottosuoli del Paese, i suoi bassi. Lì vive la “ligera”, la variegata umanità che si nutre d’espedienti e piccoli esercizi di criminalità, elabora senza sosta tattiche di sopravvivenza, nutrite dal “commovente palpito d’ala dell’irrazionale”. Gli spazi chiusi del carcere gli sono familiari, come la casa che non posseggono.

Montaldi ama quel mondo instabile, precario, di vagabondi e malfattori di piccolo calibro, dall’etica altalenante, ma non del tutto assente. Ne conosce le finzioni e i raggiri, le credenze e le spicciole mitologie, le menzogne anche. Ma c’è vita in quel mondo, animata da un’anarchia naturale, non codificata, e da una irriducibile insofferenza per l’ordine e la disciplina. Il “balordo” non necessariamente è un ribelle, meno che mai un rivoluzionario, semplicemente non sta nei ranghi. Scalpita.

Milano Corea

Prendiamo il fabulatore Teuta (la seconda delle Autobiografie della leggera), straordinaria figura destinata a restare ben impressa in chi si trova a incrociarla. “Dovunque egli si trovi – scrive Danilo Montaldi – in prigione, sulle rive del fiume, nelle stalle o all’ospizio nasce la favola. A volte attorno a Teuta si forma un seguito di compagni, che il racconto domina. La favola per Teuta è la forma originale della comunicazione con il mondo degli uomini”. Teuta non inventa nulla, forse, qua e là, si concede all’enfatizzazione, ma è il mondo che ha le parvenze della favola. Ed è lui il primo a sorprendersene.

Ma la “favola” e la “fantasia” cui Teuta costantemente inclina non arriva ad aggirare il destino di “balordo” che lo insegue. Il suo bilancio ha toni amari: “io non dovevo più lavorare onestamente, io dovevo fare sempre il ladro finché campo”. E, sul finire della sua vita, ricoverato in un ospizio, Teuta dichiara con ironia: “Mi vien da piangere a pensare che la mia gola cantava delle canzone oscene, ed ora canto in chiesa degli inni sacri”.

Orlando P. (con la sua lunga autobiografia, “Descrizione della mia vita”, si apre il libro di Montaldi) manifesta un sentimento più aspro, che fa da epilogo al suo racconto: “Questo è il lamento di un uomo che grida vendetta alla società perché verso di me fu ingiusta e anche verso mio nonno e mio padre, loro non avevano la capacità di descriverla la sua lunga odissea della vita pensai io a metterla in luce e lasciarla in eredità alle nuove generazioni”. Orlando P. scrive obbedendo a questa sorta di obbligo morale, che lo spinge a ricomporre i frammenti della sua vita nella convinzione di essere “un uomo innocente offeso dalle leggi e dalla guerra”.

Poi i racconti di Fiu, Cicci e Bigoncia. 

Fiu, “uomo dei marciapiedi, sempre presente e lucido”, ha fatto la borsanera, ora è ladro, costantemente all’erta per cogliere qualche buona occasione. Ma la lucidità e il cinismo non lo salvano dalla “rovina”.

Cicci, la sola donna presente in Autobiografie, è una ex-prostituta che, con fatica, e la forza del “buon senso”, riesce a costruirsi una seconda vita.

“Senza conoscenza della vita reale, con un fondo d’intatta ignoranza”, Cicci è stata risucchiata dal buco nero delle case di tolleranza. Ma ne è riemersa.

Infine Bigoncia di famiglia piccolo borghese che finisce per scivolare nella “leggera” dopo aver perso il lavoro di commesso. Un particolare tratto distingue il racconto di Bigoncia dagli altri, ed è una dilaniante “autocoscienza”, che gli consente di soppesare “tutto il male che feci a me stesso e agli altri”. E per questo non vuole essere perdonato.

Curiosa l’osservazione con cui Danilo Montaldi porta a conclusione il suo lavoro: “Non si è mai dato nella società italiana che la gente avesse tante cose da dire, su di sé e il proprio ambiente, e sul proprio urto – individuale, di gruppo – con le grandi istituzioni”. 

Fonti:

Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Torino, 1961.

Franco Alasia e Danilo Montaldi, Milano, Corea, Milano, 1960.

David Forgacs, Margini d’Italia, Bari-Roma, 2015.

 

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