Abbiamo imparato abbastanza? Siamo stati felici? / Cory Taylor, Morire

14 Giugno 2019

Questo memoir comincia così: «Un paio d’anni fa ho comprato un farmaco per l’eutanasia su un sito web cinese. L’alternativa è andare in Messico o in Perù e procurarselo da un veterinario. A quanto pare, basta dire che devi abbattere un cavallo e te ne vendono quanto ne vuoi. Puoi prenderlo lì a Lima, nella tua stanza d’albergo, e allora sarà la tua famiglia a doversela sbrigare col rimpatrio della salma, oppure puoi nasconderlo in valigia per dopo. Io non volevo assumerlo subito e non ero in grado di viaggiare fino in Sudamerica, quindi ho scelto l’opzione Cina.»

Un paio d’anni prima dell’acquisto del farmaco, deve essere circa il 2013, è il periodo in cui Cory Taylor prende consapevolezza del fatto che le manca poco, non c’è speranza, il cancro la stroncherà. Ha già avuto più interventi, pesa pochissimo, si sposta dal letto al tavolo da lavoro e poi fino al divano. La sua mobilità è ridotta all’interno di un paio di stanze della sua casa australiana. La sua lucidità è, invece, sconfinata; così come lo sono le sue capacità di scrittura e di profondità. Così come lo è la sua delicatezza. La scrittrice morirà nel 2016, un paio di mesi dopo l’uscita del libro, ha sessant’anni e lascia ai lettori un libro straordinario.

 

Morire (Il Saggiatore 2019, traduzione di Andrea Libero Carbone) è stato scritto in poche settimane e non è un libro sul cancro, è una storia che ha a che fare con la morte che si avvicina, ma – soprattutto – ha a che fare con la vita. Col sentimento che pervade ogni esistenza, col momento in cui cogliamo l’essenza di ciò che è stato e di quel che mai più per noi sarà. È un memoir ed è proprio di memoria che si parla, di quella particolare parte del nostro cervello che tutto conserva e dentro la quale scegliamo, di volta in volta, per convenienza, per amore, per necessità, il frammento di cui abbiamo bisogno. L’ancora di salvezza, lo straccio da passare sul vetro dello specchio, per poi guardarci dentro e dirci quello che siamo e che siamo stati.

 

«Sì, ho dei rimpianti, ma appena cominci a riscrivere il tuo passato ti rendi conto del fatto che sono proprio i fallimenti e gli errori a definire chi sei. Tolti quelli, non sei nulla.»

Taylor (e ci verrebbe da chiamarla Cory, perché siamo commossi al punto da sentirla amica) confina la malattia nella primissima parte del libro, dove la descrive molto rapidamente, facendo un elenco dei punti in cui il male ha colpito, sta colpendo. Anche in quella manciata di frasi mantiene un tono leggero, mai privo d’ironia, un tono da grande scrittore, che si guarda e che si prepara al distacco; lo fa nell’unico modo che conosce, infilando parole una dietro l’altra. Quasi mai ci parlerà del dolore che avverte nel fisico, ma sentiremo quell’altro dolore, quello che viene dal sapere che non si vedranno più le persone care, Shin. il marito, e i figli, e poi i posti, come il Giappone, o luoghi della sconfinata Australia in cui tornare. Dolore, infine, che viene dal distacco dalla propria infanzia, dall’adolescenza, dagli anni della scuola, dai molti viaggi, dai conflitti con il padre, dalla vicinanza con la madre, da un fratello col quale non si è mai più riusciti a parlare.

 

 

Cory Taylor compie, per sé e per il lettore, un piccolo viaggio nel paesaggio pieno di dubbi e contraddizioni che è il fine vita. Uno dei grandi temi del nostro tempo, di cui forse ancora poco si dibatte e sul quale – soprattutto in Italia – non si è abbastanza informati. Il tema qui viene trattato con curiosità, voglia di approfondire, attraverso molte domande, con una grande predisposizione all’ascolto, con la diffidenza buona di chi non si accontenta della prima risposta.

 

«Spesso si dice che la vita è breve. Ma la vita è anche simultanea, tutte le nostre esperienze che coesistono nello stesso momento, nella carne. Perché cosa siamo, in realtà, se non un corpo che porta a spasso una mente, tanto per fare un giro?»

Taylor compie questo viaggio, iscrivendosi a gruppi di persone che condividono la malattia e la voglia di comprendere e sostenersi. Lo compie attraverso la psicoterapia, attraverso i colloqui con i medici, che – grazie alle domande della scrittrice – diventano brillanti conversazioni, dalle quali chiunque può trattenere qualcosa per sé. Taylor non è credente, eppure ascolterà chi crede, pur non condividendone la speranza, l’al di là non c’è, almeno non come chi crede in un Dio si aspetta che sia. «Parlate con me quando me ne sarò andata, io starò ad ascoltare […] era il massimo del metafisico cui potevo spingermi».

L’altra parte del viaggio è su una macchina che va all’indietro nella storia della propria famiglia. Taylor va e ci dice dell’impeto avventuroso del padre, della determinazione della madre, del loro grande amore e della sua fine. Di un’Australia che non conosciamo attraversata in macchina. Grandi case, piccole case, scuole cambiate di anno in anno, odori e sapori. La Parigi della sua gioventù, la voglia di scappare e poi il ritorno a casa. Il Giappone che è stata la seconda casa, amatissima.

«Si è vivi finché si muore. La coscienza comincia e poi finisce. Naturalmente posso parlare soltanto per me, e le cose sono diverse per ciascuno di noi, ma morire lentamente, come sto facendo io, è come ritirarsi dalla coscienza verso l’oblio che la precede.»

 

Le due parti del viaggio, come in un tessuto colorato, sono tenute insieme da una profonda riflessione sull’esistenza. Come moriamo? Cosa decidiamo? Tutto è dipeso da come abbiamo vissuto, ma lo abbiamo fatto davvero? Le scelte che non abbiamo fatto dove ci avrebbero portati? Forse altrove o nello stesso punto, ma il giro sarebbe stato diverso. Abbiamo qualcosa di cui pentirci oppure niente? Abbiamo imparato abbastanza? Siamo stati felici? Poco, tanto, il giusto? 

Taylor si avvicina alla morte con serenità, con profonda delicatezza. A un certo punto prende per mano, con tenerezza, il poco peso che la sostiene e gli attribuisce una nuova concretezza. Con le parole del racconto mette davanti ai nostri occhi la sua vera e diversa consistenza, ci rassicura e ci conforta. Scrive una lunga lettera a se stessa, ai suoi familiari e a noi. Il nostro cuore si incrina, ci viene il fiato corto e saremmo pronti ad abbracciare il primo che passa. Morire riguarda ognuno di noi, è luminoso e coraggioso, fin dal titolo, dalla prima all’ultima parola.

L’unico modo, per Taylor, di andare oltre è quello di immaginarsi il commiato come se a descriverlo fosse il cinema, poche parole, il giusto montaggio, le immagini del passato, la colonna sonora perfetta e la dissolvenza.

 

Ci sono libri che hanno molto da insegnare, sono una sorta di rammendo per le nostre coscienze, ci mostrano un altro modo, forse migliore, di porci delle domande. Risposte non ce ne sono mai, perché, come scrive Taylor, ciò che vale per lei non vale per gli altri e viceversa. Tra la sua storia e quel viceversa c’è una linea sulla quale tutti passiamo, possiamo arrivarci di schianto, pur avendone il tempo, limitarci a vederla come un muro. Oppure possiamo immaginarci un varco e farci passare dentro più cose possibili. Se siamo fortunati avremo il tempo per lasciare qualcosa di noi, prima a noi stessi e, l’attimo dopo, a chi ci è stato accanto.

Abbiamo imparato che la morte è solo una parte della vita, ogni tanto viene qualcuno a ricordarcelo e a rendere tutta la faccenda più sopportabile.

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