Confessioni di una schizofrenica / Un Marziano nella mia mente
Capita. Può capitare a tutti di svegliarsi una mattina e di assistere, sconvolti e increduli, alla propria trasformazione. Non in un grande insetto come accade al giovane Gregor Samsa, ma nella cavia di un esperimento per studiare la specie umana. Un uomo coperto di squame violacee seduto sul vostro letto vi dà l’annuncio: sarà la vostra mente l’oggetto dell’indagine. Il viaggio nell’autre monde sta per iniziare, in compagnia di Sharp e Hinton, Sophisticated e Wimp, Dorraine e Nicky, tipi strambi, ragazzini e uomini anziani. Sono solo alcuni degli Operatori che entrano nella vostra testa spalancata come in un terreno di gioco dove scontrarsi e sfidarsi, nascondersi e provocarsi per vincere ai punti. Mentre voi vi sentite già un mostro, un fantoccio sbudellato.
“La sola cosa che vi può aiutare a quel punto è il demone al comando: la vostra stessa mente inconscia” (p.16).
Ancora oggi non si sa chi sia Barbara O’ Brien, l’autrice di Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica (trad. di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, postfazione di Michael Maccoby, Adelphi). La sua identità rimane sconosciuta, ma il suo testo, che possiede la chiarezza di un resoconto diagnostico e la briosità di un racconto autobiografico, è divertente e geniale, istruttivo per i clinici, illuminante per tutti. Apparso per la prima volta a Los Angeles nel 1958 e ripubblicato nel 1976 con l’aggiunta del capitolo La nuovissima minoranza, ricostruisce un’esperienza psicotica durata sei mesi.
“Mi devo ricordare: non sarabanda ma schizofrenia, non Operatori ma la mia mente inconscia; tutto quello che gli Operatori mi avevano detto era stato il mio inconscio a dirlo alla mia mente conscia. (…) Che strano, riflettei, che la mia mente inconscia debba definirsi un Operatore e chiami la mia mente conscia una Cosa” (p.32).
Barbara O’Brien parla di un soggetto che è diventato un oggetto, documenta le bizze del suo cervello frammentato e scomposto che dopo pochi dialoghi con uno psicoanalista, abbastanza sui generis, in ansia e spaventato, ritorna in se stesso. Una guarigione senza farmaci e una vera cura, e senza elettroshock, considerata dagli esperti rara e quasi miracolosa.
Sarà questo a spingere l’autrice a scrivere, prima un romanzo, poi Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica dove la diagnosi non sussume l’io, perché è l’io stesso che ripercorre il suo caso. Dalla normalità della competizione quotidiana in un’azienda – siamo nell’America del dopoguerra in corsa per la felicità e il successo, quella della Morte di un commesso viaggiatore –, alla dissociazione allucinatoria che la scaraventa in una dimensione fantascientifica e insonne, in mirabolanti viaggi tra gli Stati, braccata dagli ordini degli Operatori spesso in lite tra loro. Fino al ritorno a casa, alla quiete della spiaggia arida, la mente conscia, in uno stato di gratitudine e di contemplazione che quando compare lascia sbigottiti nel ritrovarsi senza le bizzarre presenze delle voci.
Per comprendere che cosa le è accaduto studia la storia della schizofrenia, legge resoconti e manuali, cita le statistiche sociologiche, le spiegazioni endocrinologiche e quelle chimico biologiche, le cure psichiatriche e farmacologiche, i diversi approcci alla cura. Le sue conclusioni non sono mai ideologiche, l’ultimo capitolo è un aggiornamento, la narrazione documentata di quanto negli anni è mutato – la persona che si comporta in modo strano e inquieta la sua vicina è un malato che ora può vivere fuori dal manicomio e ha in mano un libro dal titolo R.D. Laing and Anti-Psychiatry (probabilmente il testo di Robert Boyers uscito agli inizi degli anni Settanta).
L’ironia non l’abbandona mai, né quando ricorda l’invito dello psicoanalista a incrementare i suoi incontri sessuali, né quando riferisce degli interessi economici che segnano la ricerca psichiatrica: lei non riesce a entrare in un istituto, nel momento della crisi non risiedeva nello Stato “giusto” per poter usufruire della copertura assicurativa.
Non nega la follia, rivendica però le caratteristiche di ognuno che si mantengono intatte anche durante la crisi. In lei una certa calma e un buon autocontrollo, l’hanno aiutata quando cavalcava le montagne russe in balia di chi le leggeva nel pensiero.
Si imbatte in un articolo di Jung e viene folgorata dall’affermazione che attribuisce a una “tensione emotiva superiore alla portata delle cellule cerebrali” una delle possibili cause dell’esordio psicotico. Rilegge le conversazioni degli Operatori e nota che “Il significato di alcuni termini simbolici era chiaro e inconfondibile. Il significato di reticolo, (atteggiamenti nei confronti dell’ambiente dato, costruiti nel corso del tempo), il significato di Operatore (la mente inconscia) e di Cosa (la mente conscia), il significato di àncora (una protezione emotiva, comune tra quegli schizofrenici che si mettono in un angolino a fissare la parete), il significato di Operatore dell’Uncino, il significato di cavallo domato e cavallo da rodeo” (p.155). E sempre più si convince che l’inconscio sia un amico, se non considerato può far impazzire, se ascoltato può far guarire: è “un incredibile meccanismo pensante”, funziona come un “immenso cervello elettronico” (p.187), con un’infinità di byte di memoria. Insomma, un computer personale.
Dalla ricostruzione dello scisma mentale che l’ha travolta emerge una strutturazione della psiche vicina all’idea junghiana di una personalità A e di una personalità B, per lei sono Burt e Hinton, il primo l’ha aiutata nell’adattamento, il secondo a preservare il suo sguardo divergente e la sua diversità.
Ma è proprio questo equilibrio che è saltato. Mentre procede nell’investigazione Barbara si accorge, esterrefatta, dell’analogia: gli Operatori dell’Uncino che l’avevano tartassata durante la schizofrenia erano gli stessi che l’avevano preoccupata negli ultimi mesi del suo lavoro. Ogni volta che ci pensava vedeva “l’immagine di un uomo con un uncino conficcato nella schiena. L’uncino è attaccato a una corda e la corda pende dal soffitto. All’estremità della corda, incapace di appoggiare i piedi a terra, l’uomo oscilla nell’aria” (p.33). Come nei quadri di Bacon con le carcasse di carni squarciate crocefisse.
In ambito lavorativo, dove la competizione è “tecnica di vita essenziale”, le operazioni con l’Uncino sono professionali e perfettamente legali; l’Operatore dell’Uncino sente l’odore, ha un fiuto speciale per scoprire la fragilità dell’uomo di potere, “un segreto senso di insicurezza” di chi soffre, diremmo noi oggi, della sindrome dell’impostore.
Lo schema si replica: il triangolo prevede una vittima, un uomo in ascesa e un Operatore dell’uncino che trasforma la vittima nel capro espiatorio dell’uomo di potere. Compare la paura. Chi non regge la tensione di un copione che va in scena, chi non ce la fa più mette in atto, come accade in 1984 di George Orwell, un “programma di autoinganno”: se ne va dall’azienda con un uncino conficcato nella schiena, se lo strappa per vedere com’è fatto, come in una profezia che si autoavvera. Combatti o scappa, lo stress “ti terrorizza, perché si verifica in un posto che non puoi abbandonare” (p.207).
Così ha fatto lei, un cavallo da rodeo che non voleva essere domato, dopo aver assistito per mesi alla lotta tra la figura dell’Operatore, “essere umano dotato di una conformazione cerebrale che gli permette di esplorare e influenzare la mente altrui” e la Cosa, “essere umano sprovvisto dell’attrezzatura mentale degli Operatori” (p.239).
“Personalmente credo che lo schizofrenico rappresenti l’uomo che sta cedendo” (p. 197) arriva a concludere Barbara. Che torna con il ricordo all’esperienza in azienda. Di tutto il resto, infanzia relazioni famiglia, con buona pace di tutti gli psi, non racconta nulla.
La schizofrenia rimane un concetto misterioso, non c’è una cura precisa in vista – “La capacità della schizofrenia di non svelare il proprio segreto è straordinaria” (p.234). Forse, suggerisce l’autrice, della normalità, come della follia, ognuno è chiamato a trovare un proprio senso.
Lei lo ha trovato nella scoperta dell’esistenza di un rapporto dialettico tra conscio e inconscio, tra mondo esterno e mondo interno. La consapevolezza di vivere in un Mondo senza Dio dove “gli Operatori avevano circondato la terra con un campo di raggi d’acciaio cosi potente che nemmeno Dio poteva attraversarlo” (p.179), l’accompagnerà nel futuro. Cambierà molti posti di lavoro, evita di fare carriera, ormai si conosce, riparte sempre dal basso per tenere lontani gli Operatori dell’Uncino. È il suo modo di sopravvivere senza subire un meccanismo “in cui essere realisti significa catturare, cucinare e mangiarti il prossimo” (p. 221).
La scelta di uno pseudonimo contribuisce alla verosimiglianza di un racconto personale che diventa tipico. Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica è un livre de chevet da leggere e rileggere. Ogni mattina. Prima di recarsi al lavoro.