Speciale

Il raid nella Grande Guerra

25 Settembre 2011

 

La grande guerra ha quel carattere tecnologico che la rende il primo conflitto vicino all’idea contemporanea di guerra; in più era stata configurata dai generali tedeschi, perlomeno nei confronti della Francia, come un unico blitz. La velocità e la sorpresa sono condivisi dunque con il raid finora considerato ma è altrettanto noto quanto i piani iniziali tedeschi si volsero di segno, trasformando il conflitto lampo di conquista in una logorante guerra di posizione. Il numero dei caduti nella prima guerra mondiale evidenzia poi, insieme alla lunghezza dei fronti, la necessità di un esercito di massa che, sottoposto ad una dura disciplina, bloccato nelle trincee e subordinato alla tecnologia bellica, sembra del tutto spersonalizzato e lontano dalla mobilità, pericolosa ma entusiasmante del raid. Si compie allora la parabola fin qui percorsa di un esercito immaginato come perfetta, autosufficiente, efficientissima macchina. Eppure nel testo che abbiamo scelto per l’analisi (La mano mozza, resoconto pubblicato da Blaise Cendrars durante il secondo conflitto mondiale), come del resto sarebbe stato possibile trovare analogamente sul fronte opposto (Junger, per esempio), viene in rilievo proprio un’insopprimibile tendenza all’aggregazione da parte degli irregolari al fine di ritagliarsi, anche in quella tipologia apparentemente avversa di guerra, lo spazio e il tempo per il raid secondo la rivalutazione operata dal Romanticismo.

 

Durante la notte di Natale del 1914 Cendrars e i suoi pensano di piazzare tra i reticolati tedeschi del monte Calvario un grammofono che allo scoccare della mezzanotte, intoni La Marsigliese in mezzo ai canti di festa nemici. Vengono collegate al grammofono due bombe a mano e quattro petardi. Elenchiamo ora alcune caratteristiche di questo raid che lo stesso narratore riferisce in ordine sparso. In primo luogo l’idea che sorge come un’illuminazione creativa e stimola, per la sua particolarità e stranezza, la natura eccentrica degli eroi. Dopo tale primo momento inventivo segue però una meticolosa osservazione del territorio circostante (“Avevo studiato accuratamente l’itinerario da seguire”) e delle linee nemiche ed una misurazione attenta dei tempi (“Avevo calcolato che a noi sarebbero occorse due ore per percorrere i quattrocento metri che ci separavano dal Calvario e per collocare il grammofono”) affinché l’idea si possa concretizzare in un successo pieno e con il minor margine di rischio possibile. All’osservazione e allo studio del campo corrisponde la preparazione del mezzo per il danneggiamento, in cui la creatività surrealista dell’oggetto si combina con la precisione tecnica del manufatto. La “macchina infernale” è una creazione di gruppo: “era stato Sawo lo zingaro, un apolide, ad aver avuto per primo l’idea, Garnéro ad essersi assunto la responsabilità del buon funzionamento, io ad aver scelto il disco”. Si assiste quindi alla sua realizzazione artigianale ma anche pericolosa e quasi miracolistica:

 

Garnéro era affaccendato intorno al grammofono. Sawo stava innescando le micce. Griffith succhiava il suo pipone covando con gli occhi due bombe di melinite e quattro grossi petardi. Due palette con vanghette e quattro tascapani pieni di bombe a mano erano accanto a lui, sistemati su un sedile. Garnéro sollevò il capo: - Penso che funzionerà, - disse riponendo il cacciavite nella borsa degli arnesi.

 

Tutta l’azione dalla preparazione al compimento, avviene sempre per iniziativa esclusiva del gruppo e richiede quindi “la massima segretezza”. Cendrars ci tiene a sottolineare che il raid è un parto comune che cementa tra loro gli eroi ed esclude gli altri, soldati normali e soprattutto superiori (“il segreto era stato perfettamente mantenuto e nessuno sospettava di nulla”). Ciò anche perché naturalmente appare necessario l’elemento della sorpresa (“una bella improvvisata ai boches”. Il momento del raid deve essere inoltre eccezionale allo stesso modo di tutti gli altri elementi della missione, di qui la scelta della “mezzanotte in punto” durante la veglia di Natale.

 

Altrettanto importante risulta l’aspetto ludico di questo raid. Il danneggiamento appare in fondo secondario (“non so quali danni possiamo aver recato al presidio del Calvario”); si assiste così all’accensione della miccia, con la piccola scintilla che va a zigzag nell’erba, mentre il gruppo si allontana a rotta di collo. L’esplosione delle bombe poste sotto l’apparato fonografico si perde nel bailamme creato precedentemente dall’attacco di aux armès citoyens! che scatena tra i tedeschi corse, urla, timori di un attacco di massa e, per contro, fucilate e raffiche di mitragliatrice anche dalle trincee francesi. La beffa che provoca il pandemonio resta in primo piano fino in fondo a questo raid anarchico e simbolico, figlio della noia, della creatività e dell’indipendenza. Presi tra i due fuochi, e appunto come estranei alla follia delle due linee contrapposte, i quattro eroi sembrano ritagliarsi una dimensione a parte: “ci rannicchiammo allora nei solchi, felici e sgomenti insieme, rincantucciati gli uni contro gli altri”. Il gruppo si trova alla vista da ogni parte perché, tra gli scambi dell’artiglieria, s’erano oltretutto appiccati vari incendi nel villaggio tenuto dai francesi, ma nello stesso tempo è l’unico, per una volta, a possedere la chiave del finimondo della battaglia (“Lassù il baccano era al colmo, e i nostri sparavano come matti, giacché nessuno, nei due campi opposti, credo sapesse che cosa stava accadendo”). L’inedito protagonismo in una guerra fangosa e anonima, la paura e l’esaltazione provate, nonché l’impresa ludica e fine a se stessa sono i caratteri paradossali che spingono questi combattenti alla ricerca del raid, cui si consegnano alla fine da spettatori lievemente allucinati: “Io non riuscivo a parlare. Un risolino mi contraeva le labbra. Un fenomeno nervoso. Ma, in fondo, ero contento. Strinsi la mano a Sawo. In fondo, ce la spassavamo tutti e quattro”.

 

Cendrars, via via che continua la narrazione, appare sempre più consapevole del suo status: approfittava con la sua squadra del nuovo settore in cui si era trovato a combattere, la Frise, circa quindici chilometri “al confine estremo del mondo, dove le trincee terminavano, unico punto del fronte in cui esse venivano interrotte dagli acquitrini e dai meandri della Somme”, per moltiplicare i raid. A posteriori ci sarà la valutazione schizofrenica da parte delle alte gerarchie (“un’impresa che portò la rivoluzione fra gli stati maggiori”), che da un lato non possono non valorizzare il raid che mette a disposizione importanti incartamenti (“valse ai miei cinque pirati la Croce di guerra”), ma dall’altro ugualmente non possono non sanzionare il responsabile dell’irregolarità con “un sacco di grane, d’inchieste, d’interrogatori, di accuse, di denunzie e tanti e tali sospetti a mio carico che per poco non andai a finire i miei giorni in Africa…”. Il diretto superiore Jacottet, con cui Cendrars ha intrattenuto cordiali rapporti, gli dice: “Sei un tipo stupefacente […] Ciò che hai fatto è stupefacente”. Il riconoscimento equivale però ad un tentativo di promozione e di separazione dalla squadra, che il narratore rifiuta, e comunque alla cessazione della scorribande nelle paludi. Il compimento perfetto che suggella il raid porta quindi sempre con sé la malinconia della fine e dell’irripetibilità. 

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