Armi da guerra / Caccia e altre disarmonie
“Venatoriamente parlando, il 300 Winchester Magnum è una cartuccia da caccia grossa, adatta a tutti gli animali pesanti americani e africani, esclusi i big five, per motivi prudenziali”.
È sostanzialmente con questo che pochi giorni fa, durante una battuta al cinghiale in un bosco di Apricale in provincia di Imperia, un ragazzo di 19 anni ha perso la vita. Un ragazzo di 29 anni l’uccisore, ora indagato per omicidio colposo.
Quella sopra in corsivo è una delle tante descrizioni reperibili in rete, verità banale per gli amatori del genere. Dunque una munizione (e un’arma ad essa adeguata) da caccia grossa, quasi da guerra se l’abbattimento dei big five (in gergo venatorio bufalo, elefante, ippopotamo, leone e leopardo) è escluso per motivi solo prudenziali.
Eppure viene difficile parlare di “incidente” e di disgrazia quando il gioco (perché sostanzialmente di questo si tratta, da quando la caccia ha perso ogni legame con la sussistenza) si fa con armi e munizioni buone per la guerra.
Se la caccia sia attività che possa essere ancora tollerata nelle società moderne è questione che si pone ormai da decenni, almeno da quando i profondi mutamenti sociali successivi al boom economico hanno velocemente separato elementi tra loro prima legati quasi indissolubilmente: la manualità dal lavoro, l’esperienza dalla conoscenza... ma soprattutto il cibo dalla sopravvivenza e il sesso dalla riproduzione. Sono questi i veri elementi della rivoluzione sociale e della modernità di cui tuttora godiamo, ben prima della tecnologia che ognuno di noi si porta in tasca.
Da quando dunque il cibo è diventato soprattutto libertà e piacere, l’atavico legame con la “necessità della caccia” è stato tranciato per un’epoca di lunga transizione, ancora in corso: a caccia e a pesca non si va più per mangiare, per nutrirsi, tanto meno per sfamare i figli. E a poco poi varrebbe richiamarsi all’istinto “scritto” nei geni che centinaia di migliaia di anni di vita come cacciatori raccoglitori (prima dell’invenzione dell’agricoltura diecimila anni fa) avrebbero selezionato. Perché, comunque sia, oggi si è liberi di andare a caccia e se la si sceglie è sempre per qualcosa di vicino al divertimento, punto e a capo.
Ne sarebbe prova indiretta la pesca dove la pratica no kill è in rapida espansione, l’amo privo di ardiglione e il conflitto è risolto; il pesce catturato viene slamato con poco danno e alla libertà e al piacere di pescare si associa la libertà (e il piacere) di restituire la vita all’animale...
Con la caccia è impossibile... tanto meno quella con il fucile, tanto meno con un “fucile da guerra”, perché quando spari, spari sempre per uccidere...
Appartengo a una generazione e al caso della nascita dove cacciare e pescare era esperienza e gioco di bambino e adolescente. La pesca nei torrenti di montagna e la caccia con il vischio o le tagliole, la ricerca dei nidi, persino la caccia con il fucile a pallini di piombo (allora libera, erano poco più che giocattoli) le ho praticate e quindi so di quei piaceri... so di quelle sensazioni così lontane dalla riflessione o dalla parola. So anche che arriva un giorno in cui alla consapevolezza di quel “piacere selvatico” si associa la consapevolezza dell’uccisione deliberata di altri esseri viventi. Se si arriva a quel punto, quello è un punto di non ritorno. O si smette o se si continua a cacciare, si deve essere consapevoli che non si è più adolescenti in formazione e che quel piacere, tutto o in parte, deriva o ha come conseguenza l’uccisione di un’altra creatura, punto e basta.
Una società che tollera la caccia e i cacciatori senza alcuna riflessione e che li blandisce elettoralmente è una società che non può piacere. Ma anche quella stessa società che esalta il benessere degli animali domestici, umanizzandoli e facendoli protagonisti assoluti di affetti succedanei e di egoismi consumistici, è una società che non può piacere. Questa è un’apparente schizofrenia che non può essere trascurata e che deve essere risolta nella ricerca di un equilibrio che ancora non si intravede.
È impossibile oggi, per chi vive in Liguria o tanto più a Genova, passare vicino ai monconi del ponte Morandi senza pensare all’uso che abbiamo fatto del territorio, senza pensare allo stesso concetto di ambiente in cui vivere e voler vivere: è la riscoperta involontaria di una sensibilità etica che va aldilà di ogni urgenza di ricostruzione, aldilà di ogni emergenza economica, abitativa, sociale e che abbraccia in qualche modo la storia che non abbiamo vissuto e le origini di quello che siamo oggi...
Tragedie (questa parola a differenza di incidente o disgrazia forse può essere ancora usata) come quella di Apricale, salvate dal pulviscolo mediatico quotidiano in cui viviamo, dovrebbero servire per riflettere sul nostro rapporto con l’ambiente, con gli altri esseri viventi e soprattutto far riflettere su tutte le declinazioni voluttuarie (piaccia o non piaccia è di piacere che alla fine si tratta) che derivano dal ruolo che diamo agli animali nelle nostre collettività.
Nella società moderna e in quella del benessere, dove tutti i consumi sono non di necessità ma sono soprattutto voluttuari, sembra aggirarsi un fantasma etico, quello di un rapporto con gli animali che non sappiamo guardare, che forse non vogliamo guardare fino in fondo.