Da Tolstoj a Toy Story
Dicono sòcialdemocrazia non sociàldemocrazia, questi non ne hanno la più pallida idea di dove venga quella cosa, per loro è un sòcial, un qualcosa di connesso agli altri. È un dettaglio, per carità, giusto per dare un’immagine iniziale, generica, solo per cominciare a parlare di “che cosa” siano gli studenti delle superiori del giorno d’oggi. (Diciamo comunque che per chi alla loro età sapeva bene persino la distinzione anche tra le posizioni di Kautsky e di Bernstein, è un fatto fastidioso e per certi versi ancora incomprensibile, e che il fastidio si replica uguale a se stesso ad ogni occasione.) Solo con gli anni ci si forma un’assuefazione all’idea di avere a che fare con dei meccanismi veramente sgangherati. Chi comincia oggi a insegnare, invece, non prova questo brivido per una banale questione di prossimità anagrafica e dunque di “sensibilità” nella formazione generale.
Ma il punto è un altro: si tratta di capire chi sono questi ragazzi, come sono fatti. Certi ritratti, pure molto avveduti, che qualcuno propone dei giovani studenti di oggi non aiutano granché, anzi mostrano bene la difficoltà che abbiamo a capire la loro “natura”. Ci provano, ad esempio, in modalità diverse, Marco Lodoli con Vento forte tra i banchi (Erickson 2013) e Michele Serra con Gli sdraiati (Feltrinelli 2013, qui recensito da Marco Belpoliti). L’uno, consumato romanziere (non è secondario), è direttamente coinvolto in qualità di insegnante di lungo corso, l’altro in quanto osservatore raffinato e “antico” gran fustigatore della società italiana, e genitore convinto. Il tema di Lodoli è esplicitamente quello della Scuola, per Serra invece il gioco è di sponda, la sua storia riguarda un padre e un figlio, che è anche studente. Uno aiuta l’altro, uno nomina i problemi con schiettezza e linearità, l’altro li fa agire dentro il senso di una storia.
Ma né l’uno né l’altro, mi pare, mettono le mani là dove andrebbero invece indirizzate per lavorare sui nodi sostanziali dei problemi. Nel presentare il libro di Lodoli l’editore commette un gustoso errore in una citazione dantesca: “livide, insin là dove appar vergogna/ eran l'anime dolenti ne la ghiaccia” (Inf., XXXII, 34-35), così vengono presentati i giovani studenti. In realtà Dante parla di “ombre dolenti”. Ombre non anime, due nozioni contigue, ma distanti, e in effetti gli studenti di cui parla Lodoli sono osservati come anime, sofferenti ma vive. Peccato che quello smalto pasoliniano di anime vitali purtroppo sia evidentemente svanito (“A professò, a me piace quello che piace a tutti i ragazzi de oggi, me piace solo fa’ er matto”), essi in effetti appaiono sempre più delle ombre, ombre di un mondo-altro di cui ci sfugge ancora la comprensione. È il mondo di Minkia Sabry, la perfetta bad girl ideata da Luciana Litizzetto.
Quando Lodoli descrive i suoi studenti ne vede con estrema lucidità tutti i problemi, sa raccontarne la cupezza di prospettiva di vita, ma c’è come un distacco, una lontananza, quella di una cultura “alta” che ancora non accetta, perché non può accettare, di essere addirittura la causa di tanti mali della istruzione se non della cultura italiana. Per chi sta vivendo sul proprio corpo intellettivo una metamorfosi, anzi una “demorfosi”, come i ragazzi di oggi, e in special modo quelli delle zone più rischiose della società, della lucentezza di una fulgida intellettualità esemplificata in un uomo stracolto non sanno che farsene. Perché, dice giustamente Lodoli, “fare il matto significa fregarsene di tutto e campare alla giornata, forzando ogni situazione, sfasciando ogni limite”.
Per quei ragazzi, anzi, quell’altezza intellettuale non è che la conferma della loro impossibilità di emanciparsi per via culturale, loro sanno che quell’unico tramite che gli viene offerto non porta più nulla di abbastanza significativo. Stiamo parlando delle realtà di confine, quelle delle aree metropolitane povere dove la buona volontà del vecchio saggio e coltissimo e seducente professore (un po’ Eco e un po’ Benigni) sembra essere la sola risorsa, in attesa delle armi pesanti che prima o poi, diamine, dovranno pur arrivare da uno Stato finalmente maturato e definitivamente civilizzato. Loro persi, come George Clooney nello spazio (Gravity), mentre li si “descrive”, per ingannare l’attesa chiliastica.
Ormai il ragionamento credo vada spostato, la dimensione critica di questa realtà “demorfosizzata” costituisce un materiale nuovo, forse in sé né buono né cattivo, ma tendenzialmente pericoloso; un materiale che richiede un diverso trattamento: c’è bisogno, secondo me, innanzitutto più di un vero e proprio “sistema di accoglienza”, prima ancora che di istruzione, una nuova ambientazione che ricrei diverse e inedite condizioni di vita sociale e dunque di apprendimento. È molto bella la pagina che Lodoli dedica alla comparazione tra la domenica dei ragazzi italiani e quella dei ragazzi stranieri immigrati in Italia. Gli italiani abbandonati a se stessi, vuoti (nonostante tutto); gli stranieri completamente coinvolti nel vortice parentale, pieni (nonostante tutto). Mentre a scuola il lunedì gli parleremo ancora di “Crisi del soggetto”, Dodecafonia, Neorealismo, loro saranno, magari lì davanti a te, costantemente in rete, dove si accorderanno tra di loro, chissà, per scomparire? Che ne sarà di questa gente tra vent’anni?
Michele Serra, con i suoi Sdraiati, guarda i giovani di un altro contesto, quello dei ceti medi (relativamente) privilegiati: individui pieni di ogni attenzione pre e post-natale, ma come sfarinati dentro, e alla fine non meno incapaci e impotenti (e folli) dei loro fratelli della borgata. Neanche le simpatetiche finezze analitiche con cui Serra osserva il panorama giovanile inquieto-di lusso aiutano a tirar fuori dai casini nessuno. Il disagio picchia duro, anche nel mondo protetto. Bene ha fatto Filippo La Porta a mostrare il nesso tra questo libro e quello di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi 2013): anche nel libro di Piccolo, infatti, abbiamo la stessa visuale ottimoborghese (ottimamente acculturata), di uno che è diventato comunista “per via calcistica”, e che, come Serra negli Sdraiati, usa la postura mentale assai confortevole del cinismo, che consente di dilettarsi col mondo senza alcun rischio personale. “Dentro lo ‘stile’ che entrambi [Serra e Piccolo] si sono scelti – dice La Porta – è possibile esprimere molte cose tra il cielo e la terra ma non il tragico (che quando si affaccia nella loro pagina è solo grottesco, “fantozziano”, in fondo divertente…). Sappiamo per certo che la loro voce non sarà mai incrinata da ciò che raccontano. Può essere un limite non da poco se pensiamo che il tragico è parte dell’esistenza di tutti – sdraiati ed eretti, vecchi e giovani, di destra e di sinistra – e che se non siamo capaci o non ci va di rappresentarlo, non comunichiamo con la verità più intima di tutti” (Filippo La Porta, Sdraiati sul proprio snobismo, Il Sole 24 Ore-Domenica 1 dicembre 2013).
Qui, ormai, si tratta di “girare la sedia” per assumere una diversa visione prospettica. C’è dell’ottima tecnicalità didattica che nel tempo si è depositata in molte buone prassi della nostra scuola (la primaria innanzitutto), circolano dei manuali fantastici, ma tutto sembra andare sistematicamente a infrangersi contro il muro del quantum, della quantificazione che permea i ragionamenti e le relazioni. Per questo occorre meditare con maggiore franchezza sull’entità e la natura del cambiamento subito dai ragazzi che ci stanno di fronte tutte le mattine. Il problema, una volta per tutte, non è tecnico, ma culturale. Perché è cambiato tutto, si è passati da Tolstoj a Toy Story (avevo detto Tolstoj e una ragazza, dell’ultimo anno, disse che sì, lei conosceva bene Toy Story).
Il 57% degli italiani non legge libri (ISTAT, dicembre 2013): hai voglia di suggerire strategie di lettura e di motivare se i giovani (quelli di Toy Story per intenderci) vivono in una simile broda culturale. Leggo che solo il 9% dei ragazzi tra i 12 e i 13 anni ha ‘il migliore amico’: questo, dicono, succede perché prevale il gruppo, è “una conseguenza di una bulimia diffusa. L’ossessione per il numero, per il “tanto” e il “facile”, che è chiaramente un riflesso del mondo che circonda i ragazzi” (Maurizio Tucci, presidente del laboratorio dell’Adolescenza in L. Traldi, Che fine ha fatto l’amico del cuore?, “Repubblica-D”, 9 novembre 2013).
Volendo tentare una sintesi direi che questo è il grande ostacolo che ormai si frappone tra i nuovi ragazzi e i sistemi educativi. Se è la quantità a determinare un fenomeno, tutto subisce una estroflessione, ogni cosa sembra dover sottostare a un “principio di quantità” per cui tutto il resto viene in qualche modo abbassato a fenomeno “qualitativo”. La vita interiore di un (solo) ragazzo non ha un valore pieno in sé, ma lo assume quando sta vicina a quella dei (tanti) ragazzi. E qui i “sòcial” regnano. Tu spieghi metafore e metonimie e loro pensano alla mela morsa da Justin Bieber (una studentessa di quindici anni una volta mi ha raccontato di essere riuscita ad afferrare una mela morsa e gettata al pubblico dalla giovanissima pop-star canadese e di conservarla ancora gelosamente), e questo è condiviso da migliaia di esseri viventi e connessi. Così, allo stesso modo e con gli stessi compari si condivide questa bella conversazione, letta con i miei occhi sul tablet di una ragazzina in treno: “Mi sono incazzata perché mentre gli facevo il migliore dei pompini lui continuava a chattare con quella merda del suo amico…”.
Se poi chi può e sa farlo scava un po’ di più, si scoprono orizzonti più duri e complessi, nei quali, ad esempio, con la figura paterna sempre più evanescente, gli equilibri tradizionali si incrinano generando collassi educativi: noi operiamo dentro a gabbie concettuali che presuppongono un mondo che nei fatti non c’è più.
Dice Luigi Zoja (Ritorno dei padri?, Doppiozero, 2 dicembre scorso), che con lo scemare dei valori del padre “non si passa tanto a quelli della madre, quanto a quelli del maschio competitivo: l’animale, che combatte per l’accoppiamento, mentre non è cosciente della responsabilità verso i figli. […] Questa patologia del nuovo secolo riguarda i giovani maschi ben più delle femmine ed è fortemente correlata all’assenza delle figure paterne. Nei giovani uomini depressioni, tossicodipendenze, comportamenti distruttivi e autodistruttivi, vandalismi e forme di criminalità non legata a necessità economiche, sono dilagate negli ultimi decenni insieme a uno sgretolamento della identità maschile senza precedenti nella storia”.
Marco Belpoliti ricordava a sua figlia (Piccole utopie crescono, L’Espresso, 9 gennaio 2014) che mancando l’antica “forma padre”, quello ossessivo contro cui ci si ribellava, cattiveria e violenza diventano spesso nei ragazzi “una via d’uscita individuale, una rivolta contro se stessi. La furia narcisistica è terribile e pericolosa, e noi adulti siamo sguarniti contro di essa”.
Se i genitori, dice Umberto Galimberti, non dedicano una maggiore quantità di tempo ai figli, perché devono lavorare, “dobbiamo rassegnarci a avere dei figli in cui le mappe emotive e cognitive non si formano. Queste mappe però sono fondamentali perché diventano la modalità con cui si fa esperienza, se le mappe non sono formate questa esperienza avviene a caso e non viene mai del tutto elaborata” (La nostra società ad alto tasso di psicopatia non è adatta a fare figli, Wise Society, ottobre 2012).
Massimo Recalcati sottolineava che questa è l’epoca in cui il comandamento del “Perché no?”, cioè il comandamento della perversione, prevale e pervade la società (Otto e mezzo, La7, 3 gennaio 2014).
Andando ancora più a monte Piero Barbetta indica talune radici dei problemi: “Ciò che va scomparendo non è l'infanzia ma l'idea che l'infanzia sia una fase della vita da proteggere. I bambini sono diventati potenziali individui pericolosi, abitati dall'impulsività, come i bambini con ADHD, potenziali adulti improduttivi, come nei casi di autismo, potenziali emarginati, potenziali dipendenti da sostanze, ecc. Questo giustifica che la loro infanzia venga rapita dalla tecnologia” (La somparsa dell’infanzia, Doppiozero, 20 dicembre 2013).
E, in fine, a proposito del sexting, il sesso via web di cui i ragazzi sembrano ghiotti, dice la psicologa americana Catherine Steiner-Adair (autrice di The Big Disconnect – Protecting Childhood and Family Relationships in the Digital Age): “Nel momento in cui i ragazzi iniziano a mandarsi sms smettono di parlare e la conversazione perde complessità emotiva, intimità. Si è connessi con le proprie reazioni ma si perde la reazione viscerale dell’altro, che viene solo intuita. È il suono di una sola mano che applaude, per dirla con un koan zen” (“la Repubblica-D, 14 dicembre 2013).
Nel loro disordine, molto poco scientifico, questi autorevoli spizzichi e bocconi fanno abbastanza impressione. Ma è ancora più impressionante l’esercizio “clinico” della scuola: dopo più di tre decenni nelle scuole del regno so che cos’è un genitore in frantumi di fronte a un figlio “demolito” dal mondo che lo circonda. Si ricevono queste figure (anime o ombre, mi chiedo…) tramortite dall’accartocciarsi dei loro sistemi educativi che chiedono lumi a un sistema educativo che, hic et nunc, non può più assicurare futuri.
Su questi territori scricchiolanti regna il quantum, non valgono le leggi dell’antico mondo perduto: quello di Lodoli, Serra, Piccolo e di molti loro coetanei, come me, stretti parenti del fallimentare maestro Vannucchi che nella gaberiana Angeleri Giuseppe, dopo aver approntato una strategia fallimentare di famigliarità con i propri allievi, ne perde totalmente il rispetto. Un mondo nel quale roba come I soliti idioti o Fabio Volo venivano considerati fenomeni del declino dell’amore per la sapienza e non banali tipologie merceologiche. Nel regno del quantum la vita è molto dura, per grandi e piccini; ciò a cui si dovrebbe tendere è una rigenerazione di tessuti relazionali, ma abbiamo di fronte un mare di ostacoli, e di questi vorrei sentir parlare, dei guai che producono e di come affrontarli. Perché Minkia Sabry non passerà mai le domeniche, à la Lodoli, tra la sana contemplazione di quattro passi a Villa Ada, due pagine di Rilke o un libro di Emanuele Trevi, in un cosmo immaginario un po’ up e un po’ down, fatto di un sospeso, sottile, giusto equilibrio estetico che genera altezza e perfezione.