Il Bel Paese dove il dì suona / Un giorno di Dante che dirvi non so

22 Gennaio 2020

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

(Giorgio Gaber)

 

«Dì» è parola dantesca, dall’«ultimo dì» che Capaneo ricorda nel XIV canto dell’Inferno (v. 54: «onde l’ultimo dì percosso fui») al «sol dì» di un ipotetico miracoloso mese invernale nel XXV canto del Paradiso (v. 102: «l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì»). Sembra più che legittimo allora intitolare a Dante un dì, come ha fatto il Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini, proclamando il 25 marzo Dantedì, in coincidenza con quella che sembra la data più probabile per l’inizio del viaggio dantesco nell’aldilà. Di «dì» aggiunti a cose e nomi in funzione celebrativa e commerciale, esemplati sull’ovvio modello dei giorni della settimana (lunedì, martedì, mercoledì, ecc.), l’italiano ne ha già in verità alcuni, fino ai recenti Soledì, orologio meccanico da parete con ingranaggio a vista, il cui nome significa “giorno di sole” per suggerire «che ogni giorno è un giorno di sole e di speranza», come si legge nella pubblicità su amazon, e Caffedì, il caffè del lunedì secondo McDonald’s. Ma l’appropriazione a fini di branding, come si dice ora, di parole col suffisso in –dì non è certo nuova, a cominciare dal famosissimo e buonissimo Buondì Motta (il «Buondì mio», che «me lo merito, me lo merito io!»). L’inglese naturalmente aiuta sempre, perché il Dantedì sarebbe un Dante Day, con eco di quel D-Day che ha segnato lo sbarco in Normandia e l’inizio della liberazione dell’Europa dall’occupazione nazista. Un nuovo D-Day nel nome di Dante potrebbe far liberare chissà quali potenzialità represse degli studenti italiani e portare a un’improvvisa esplosione di fantasia poetica. 

 

La mancanza di creatività linguistica dei politici italiani non sorprende (nonostante l’autorevole sostegno dell’Accademia della Crusca e della Società Dante Alighieri), ma sorprende la loro straordinaria abilità nell’uso carnevalesco della cultura. Essendo il carnevale, come ha dimostrato il più grande interprete del carnevale nella cultura occidentale, il filosofo e filologo russo Michail Bachtin, un giorno di eccezione anziché normalità, in cui l’eccezione serve proprio a ribadire e rifondare la regola, i politici si rivelerebbero straordinariamente sapienti nell’applicazione dell’aureo motto populista panem et circenses: re per un giorno, il festeggiato ritornerà suddito per il resto dell’anno. Dante celebrato il 25 marzo potrà essere legittimamente dimenticato a partire dal giorno dopo e fino al 24 marzo dell’anno successivo: non sarà mica tutti i giorni, la sua festa? 

 

Che una giornata dantesca possa avvicinare giovani e meno giovani alla lettura della Divina Commedia è naturalmente solo auspicabile, ma le giornate di questo tipo, one-off, servono di solito, lo ha spiegato Daniele Giglioli qualche anno fa a proposito della ben più seria giornata della memoria, a trasformare quella che dovrebbe essere un’operazione quotidiana (il ricordo della Shoah o, in questo caso e con le dovute proporzioni, la lettura della Commedia) in un evento spettacolarizzato e salvifico, che esonera dalla pratica quotidiana proprio in virtù della partecipazione all’evento stesso. Succede insomma che basta dire di aver partecipato alla giornata della memoria o al Dantedì per sentirsi esentati dal pensare alla Shoah o dal leggere la Commedia. Il rischio è dunque più forte dell’auspicio. 

Con l’invito a celebrare piuttosto che capire attraverso la lettura paziente e la faticosa interpretazione, la storia si riduce a lezioncina morale e il passato si appiattisce sull'attualità: «non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo», ammoniva Giglioli di fronte alla diffusa «tentazione», sempre più frequente anche tra gli accademici, «di piegarsi a una storiografia da beccamorti, ossessivamente intenta ai cadaveri, ai corpi dilaniati, alle mummie, alle reliquie, come se non ci fosse più vita da raccontare». Dante rischia di venire ancora una volta monumentalizzato e mummificato, come è avvenuto con le tante statue che gli furono dedicate subito dopo il Risorgimento, durante il primo periodo unitario e poi il ventennio fascista. 

 

 

La lezione è comunque chiara: non contano l’esperienza, la dedizione, lo sforzo e il lavoro, ma la capacità di cogliere l’occasione al volo, la prontezza e l’opportunismo, perché ciò che importa, in linea con le caratteristiche della società dello spettacolo come l’ha descritta Guy Debord fin dal 1967, è esserci anziché studiare, farsi vedere anziché meditare e approfondire, approfittare della festa anziché crescere emotivamente e intellettualmente. In tal modo, Dante sarà un ulteriore strumento dell’infantilizzazione di massa cui la società capitalistica sottopone i suoi sudditi devoti da quando dispone dei grandi mezzi di comunicazione mediatica. Leggiamo Dante sarebbe slogan più eticamente responsabilizzante e politicamente rilevante del Dantedì; ma forse meno efficace mediaticamente e meno invitante per lo show business

La perplessità più grande riguarda tuttavia il carattere assolutamente passivo ed epigonale dell’operazione, che s’ispira al nome di Dante nella convinzione che Dante sia un patrimonio nazionale da salvaguardare e promuovere, un po’ come la pizza DOP e i vini IGT. Questa propaganda ha aiutato gli italiani a trovare una casa comune nella letteratura prima che nello Stato al tempo in cui uno Stato unitario non esisteva, ma in seguito ha costruito un’idea vuota e retorica dell’Italia e dell’italianità, come se essere figli di Dante fosse di per sé sufficiente ad assolverci da disunità strutturali, colpe storiche e responsabilità politiche. Protestava contro Dante, «tedescofilo seccante», già un poeta pur fascista e nazionalista come Massimo Bontempelli, proprio sotto il fascismo, individuando nel mito di Dante costruito tra fine Ottocento e inizio Novecento, la subordinazione della cultura italiana a modelli di pensiero e di civiltà costruiti fuori d’Italia, perché Dante era stato usato strumentalmente per aderire ai miti anti-italiani della Riforma mancata e del ritardo italiano rispetto alla modernità. 

 

Facciamo un solo esempio qui di quest’«Italia di Dante» costruita dallo sguardo straniero. Giuseppe Gazzino, il primo traduttore italiano del Childe-Harold di Byron, preponeva alla sua traduzione (1836) un sonetto in cui il Bardo britannico, poeta serio, veniva programmaticamente contrapposto ai poeti italiani dediti al canto di favole ed amori, che si apriva con questa quartina:

 

Terra di Dante! È ben ragion se abbomini

Il pervicace stupido cantor,

Che d’esser cote a tua virtù dimentico,

Sol di fole ti assonna e turpi amor.

 

Tutti tranne uno, l’italiano eccezionale che era più simile agli inglesi che agli italiani. Dante sarebbe stato l’unico poeta della tradizione letteraria italiana a evitare di essere un «pervicace stupido cantor», un ostinato e cretino devoto del bel canto, mentre tutti gli altri, dimenticando di stimolare la virtù (la cote è una pietra per affilare, quindi equivale a «sprone»), si sarebbero dedicati solo a favole noiose e storie d’amore più o meno lascive. L’opposizione tra virtù e canto suggerisce un’opposizione tra etica ed estetica che porta all’identificazione tra Dante e la virtù, da un lato, e tra la letteratura e la stupidità, dall’altro lato. Non più poeta, ma maestro di etica civile all’inglese, Dante potrà quindi essere usato politicamente, con l’auspicio che l’Italia si riconosca con la «terra di Dante» anziché di quelle fole e quegli amori che ne popolavano la letteratura da Petrarca in poi. Se si pensa che la parola «fole» è associata già da Dante, poi anche da Petrarca, ai romanzi, l’allusione si riferirà soprattutto alla tradizione cavalleresca, a quegli Ariosto e Tasso che al tempo erano percepiti, in endiadi, come cantori di «turpi amor». Dante, insomma, è modello etico anziché estetico, funzione ideologica della costruzione di un’identità nazionale moderna e laica, esemplata sulla lezione dei grandi pensatori europei della modernità borghese: in opposizione, soprattutto, alla tradizione letteraria italiana.

 

 

L’Italia di Dante, come ha spiegato Amedeo Quondam in un libro davvero importante di qualche anno fa, è infatti l’Italia di una parte politica progressista e borghese, che ha fatto di Dante il campione dei propri valori, l’individualismo, l’operosità, la coerenza morale, l’iniziativa imprenditoriale, la competitività di mercato, la polemica contro l’ingerenza della Chiesa negli affari terreni, secondo una linea di lettura moralistica che va da De Sanctis fino all’ancora diffusa didattica scolastica della Divina Commedia. Ma Dante è, per fortuna, anche altro, perché è un poeta-filosofo (e teologo) che conosce il valore della contraddizione come strumento conoscitivo ed esplora le potenzialità della parola a fini intellettivi. Senza tenerne conto, chi ha proclamato l’identità tra Dante e l’Italia ha pensato insomma a una sola Italia, come se altre ipotesi alternative non avessero più ragion d’essere nel nome di una ragione prima, identificata archetipicamente con Dante, che diventa la logica stessa di fondazione dello Stato borghese. Ora, che all’Italia di Dante si debba contrapporre l’Italia di Petrarca, come suggeriva un po’ manicheisticamente Quondam, col corollario che la prima sarebbe stata, ideologicamente, laica e liberale e la seconda, implicitamente, più comunitaria, includendo con ciò potenzialmente tanto un’impostazione cattolica quanto una comunista, obietterei che non è di garanti o santini che abbiamo bisogno, ma di pratiche condivise che allarghino il discorso e promuovano condivisione, contrapponendo all’Italia di Dante l’Italia di tutta la letteratura italiana – un’Italia senza eroi, che si distingua per la capacità di creare spazi di dialogo e confronto anziché continuare a ricorrere a simboli salvifici.

 

Dante coinciderebbe allora col peggio della tradizione nazionale: un’Italia moralistica e ipocrita, borghesemente operosa, ma in fondo chiusa e classista; quella della «congiura del Buon Senso, del perbenismo nazionale», contro cui polemizzava Ruggiero Jacobbi; quella della «coda di paglia», per dirla con Antonio Delfini; quella «retorica e letteraria», che Cesare Garboli disprezzava, associandola proprio a Petrarca e Dante. Tutti gli altri con Dante, ovvero tutti sul carrozzone nazionale, tutti per un’Italia sostanzialmente mediocre e materialista, tutti italiani brava gente dai buoni sentimenti. «Dai suoi poeti più unificatori di suolo e raccoglitori d’anime, dal suo tesoro figurativo e di pensiero, dalle sue rivolte e guerre passate […] l’italiano moderno (un’astrazione, ma non so come evitarla) non ha avuto in consegna che una patria simbolica e semiceleste, un regno dell’aria, per il quale non alzerebbe un dito, perché l’uomo non sente che la forza della terra, e quando combatte è l’alito di madre a spingerlo e a ubriacarlo», ammoniva più tardi, invero un po’ retoricamente, sia pure dalla parte opposta a quella della propaganda nazionalistica attraverso la letteratura, Guido Ceronetti. 

 

Certo, la politica ha bisogno di simboli, che aiutino a identificarsi collettivamente e che veicolino le passioni condivise, come ci ha ricordato magistralmente Gustavo Zagrebelsky in un aureo libretto di qualche anno fa. Ma i simboli dovrebbero nascere dall’esperienza comune anziché venire calati dall’alto. Se leggendo Dante gl’italiani trovassero nelle sue parole una fonte d’identificazione collettiva tale da farne un simbolo delle loro lotte e dei loro ideali, come successe durante il Risorgimento, ben venga; ma se Dante dovesse essere ancora una volta lo strumento di una negazione della letteratura, con la sua complessità, nel nome di una retorica politica unificante e semplificante, allora la sconfitta dell’Italia e della sua cultura sarà sotto gli occhi di tutti. Andrebbe riletto, alla vigilia dell’anno di celebrazioni dantesche che si prospetta, l’intervento che Benedetto Croce, in qualità di Ministro dell’Istruzione Pubblica dell’ultimo gabinetto Giolitti, tenne a Ravenna il 15 settembre 1920 proprio per inaugurare quello che sarebbe stato il sesto centenario della morte di Dante:

 

È probabile che, durante quest’anno dantesco, molti celebreranno in Dante il più ispirato apostolo della nazionalità italiana, o il maestro della vita morale e politica; così come per il passato egli fu variamente adoperato a insegna e sussidio delle pratiche lotte, ora per esaltare la grandezza della religione cattolica, ora per combattere la chiesa di Roma e il cattivo clero, ora per favorir l’idea di una ghibellina unità d’Italia, or quella di una sua guelfa federazione, ora per asserire con ardente fermezza il diritto all’indipendenza del popolo che aveva prodotto un tanto genio ed era in certo senso suo figliuolo, da lui generato o rigenerato e provvisto da lui di un viatico nei secoli. 

 

Questo Dante, diceva Croce, non era Dante, ma il Dante simbolo: perché agli uomini sommi tocca di diventare simboli e venire idealizzati. A nessun uomo, però, ammoniva Croce, si può chiedere di simbolizzare un ideale, «per la ragione che l’ideale non si rinserra nei limiti di nessun individuo, per grande che egli sia». Svincolato dalle strumentalizzazioni di parte, ma soprattutto liberato dalla responsabilità di essere politico e filosofo, Dante poteva tornare a essere solo uomo e poeta: il più alto e vero modo di onorare Dante è anche il più semplice: leggerlo e rileggerlo, cantarlo e ricantarlo, tra noi e noi, per la nostra letizia, per il nostro spirituale elevamento, per quell’interiore educazione che ci tocca fare e rifare e restaurare ogni giorno, se vogliamo “seguir virtute e conoscenza”, se vogliamo vivere non da bruti, ma da uomini.

 

Comprensibilmente il Dantedì piacerà agli stranieri che si occupano di Italia, i quali hanno ormai completamente introiettato l’idea che la cultura sia una merce in vendita e da vendere, soprattutto se insegnano lingua e letteratura italiana a scuola e all’università: come strumento promozionale e commerciale funzionerà, ne siamo convinti. Non vorremmo ritrovarci però, in pieno XXI secolo, nella condizione che Byron descriveva due secoli fa alla fine del suo The Prophecy of Dante: «the Italians, with a pardonable nationality, are particularly jealous of all that is left them as a nation – their literature», come se davvero non ci fosse che la letteratura a tenerci uniti. Se ci restasse solo Dante, non ci resterebbe che piangere. Ce lo ha ricordato più di recente, con grazia e umorismo, un grande poeta, Giorgio Caproni, che di Dante capiva certamente qualcosa di più dei politici che oggi ci governano: 

 

Ahimè

Fra le disgrazie tante

che mi son capitate,

ahi quella d’esser nato

nella «terra di Dante».

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