L’opera innovatrice di Catherine Malabou / Divenire forma
Se si ipotizza una “facoltà formatrice” (the formative faculty) che acquisisce e prepara il proprio materiale da se stessa, e che l’apparizione del pensiero, della volontà e anche della vita, non sono che degli eventi come gli altri nella lunga sequenza delle età della formazione della terra, allora si pone una domanda: come mai a un certo punto, tra le forme, emerge il divenire di una forma che si fa domande sul proprio stesso divenire forma e sul divenire delle forme? O, detta in altri termini, cos’è quella forma che si pone la domanda o le domande, che si trascende; e il suo divenire e la sua esistenza cosa significano? Quale senso ha una forma tra le forme che pensa se stessa, che oltre ad avere un linguaggio si parla, che si interroga e interroga, che dice “no”? Catherine Malabou ci porta in una frontiera del pensare filosofico, oggi, e lo fa non proponendosi di mettere Kant e il kantismo in soffitta, né accogliendo acriticamente le tendenze che consegnerebbero alla scienza e alle neuroscienze in particolare, le risposte sulla contingenza della vita, sulle origini del pensiero e della conoscenza, e sul trascendentale. Si propone di “negoziare con Kant” e con i risultati della ricerca scientifica sul significato di essere umani, e lo fa elaborando in particolare il rapporto tra epigenesi e razionalità.
Come scrive Salvatore Tedesco, a cui dobbiamo la conoscenza dei lavori di Malabou in Italia, nella acuta post-fazione al libro, l’autrice si propone di “esporre radicalmente il trascendentale alla fattualità della vita”.
Nel farlo non può non misurarsi con il criterio della sintesi attiva, della presunta unità egologica trascendentale del mito kantiano dell’Io penso, che consiste di se stesso, della propria sostanza, capace di unificare tutte le rappresentazioni. La sfida che pone Malabou è per molti aspetti vertiginosa. Si propone di attraversare da dentro lo scardinamento del primato riflessivo del cogito e del suo fatale narcisismo che abbiamo ritenuto senza ritorno. Si propone, inoltre, di affrontare la convinzione diffusa che l’ego non possa coincidere con la vita della coscienza, né tanto meno possa costituire il suo fondamento sintetico e unificante. Malabou ingaggia un confronto, insomma, con la convinzione diffusa che l’ego non possa che generarsi come un’alienazione della coscienza stessa.
Eppure, come tende a sostenere l’autrice, nonostante tutto, sembra comunque esprimersi costantemente un’eccedenza da quel che ci precede, ancora una possibilità di trascendersi, nonostante il vincolo originario da cui dipendiamo.
Viene in mente Wislawa Szymborska: “Morire quanto necessario, senza eccedere. / Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato”.
Di fronte a quella che si propone come una scissione fondamentale della soggettività, da cui l’ego emergerebbe, in quanto, nel tempo della sua primordiale soggettivazione, non può che cogliersi come un atto distinto da se stesso, la trascendenza sembra assumere una qualche dimensione irriducibile: “penso dove non sono, dunque sono dove non penso”, affermerà Lacan in L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud [in Scritti, Einaudi, Torino 1976; pp. 512-513].
Cercare di combinare trascendentale e fattualità della vita, nel tempo in cui qualcosa la scienza mostra, con evidenze sperimentali, di cosa possa essere la coscienza, potrebbe voler dire per la filosofia cercare di rispondere alla domanda relativa a tutti quei neuroni che ci avanzano rispetto ad altri animali che pure mostrano capacità finora insospettate. Recentemente Giorgio Vallortigara, dopo aver presentato esperimenti che mostrano la capacità delle api di distinguere un Monet da un Picasso, per riconoscere poi opere degli stessi artisti mai viste prima, pone la domanda: “Gli esseri umani certamente non sfigurano nel confronto con le api o con altre creature munite di sistemi nervosi in miniatura. Anche noi sappiamo riconoscere i volti, classificare un dipinto come un Picasso o un Monet e riconoscere l’eguale dal diverso. Però il cervello umano possiede ottantasei miliardi di neuroni: il vero mistero non è come possa riconoscere i voltio i quadri di Monet, bensì cosa se ne faccia di tutti quei neuroni che gli avanzano” [Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, Milano 2021; cfr. l’articolo di Riccardo Manzotti su doppiozero].
Per tentare l’impresa Malabou non si risparmia in convocazioni e in rese dei conti. Il suo affondo investe la distinzione tra la realtà umana e le altre forme di esistenza e prende frontalmente l’“Io penso” kantiano come fondamento unitario. Se ci siamo dimenati tra l’ipotesi dell’umano annientamento simbolico dell’essere naturale animale, secondo la tradizione hegeliana-kojèviana che ha informato di sé l’esistenzialismo, e quello sartriano in particolare, da un lato, e l’ipotesi dell’azzeramento all’immanenza ontologica di quel che ci precede, respingendoci tout-court alla materia di cui siamo fatti, rimane pure l’evidenza che esistiamo come umani senza mai poter coincidere con noi stessi. Basterebbe richiamare la costante articolazione dinamica tra mancanza e desiderio, secondo i percorsi lacaniani, per trovarsi di fronte a quel che eccede ogni forma già costituita dell’essere, sistema del linguaggio compreso. O, per dirla con l’autrice di questo impegnativo e profondo libro, di fronte a quel che sostiene, sottende e riguarda i modi del nostro divenire forma.
Alla ricerca di una ulteriore possibilità di comprenderci e aprendo varchi e attraversamenti, Malabou produce, come in altre sue opere, un’integrazione tra scienza e filosofia di rara profondità. Da Aristotele alle neuroscienze, passando per Kant, ci troviamo di fronte a una articolata e sfidante speculazione filosofica sulla nostra modalità di conoscere, sulla nostra razionalità e sulle distinzioni evolutive che ci caratterizzano, in particolare sui processi epigenetici.
Dal greco, il prefisso epi significa “al di sopra di” e genesis significa “genesi” o “costituzione”. L’epigenesi indica, perciò, una modalità dello sviluppo embrionale con la comparsa successiva di parti, derivanti dall’accoppiamento tra organismo ed esperienza, che si formano e nascono le une dalle altre.
A impiegare il termine per la prima volta, stando a quello che ne sappiamo, è stato Aristotele, in Riproduzione degli animali.
Per fare i conti con la fatticità e la contingenza radicale, con l’antecedenza del pensiero, che sono cavalli di battaglia del realismo speculativo, e mettono in discussione ciò che in Kant garantiva la validità della conoscenza e la stabilità della natura, Malabou sceglie di dialogare in modo serrato con l’antecedenza, col preliminare di ogni “a priori”, senza però rinunciare a integrarlo con la trascendenza rivisitata alla luce dell’epigenesi. La sua ipotesi, insomma, non nega tutto quanto ci deriva da quel che ci precede e dalla sua immanenza, anzi ne accoglie la fecondità, per così dire, dal di dentro. La chiave è la combinazione tra l’epigenesi e la razionalità. Se l’epigenesi è un carattere costitutivo del vivente, ciò che è si mostra capace di andare oltre se stesso mentre esiste e apprendendo dalla sua propria esistenza ed esperienza. Letteralmente si trascende.
Il richiamo a Georges Canguilhem che, cercando le vie per passare dallo sviluppo all’evoluzione, ha sostenuto che l’epigenesi è una “formazione senza preformismo”, sostiene Malabou nel proporre la fondamentale ambiguità tra gli antecedenti evolutivi che ci fondano e l’irriducibilità del trascendentale ad ogni preformazionismo. “Se è vero che un organismo si forma trasformandosi e non dispiegandosi, è necessario ammettere che anche il trascendentale è esso stesso quindi dotato di una certa trasformabilità”, scrive l’autrice. E esplicita il proprio programma sostenendo di voler “abbordare” i tre indirizzi esegetici, il tempo, la ragione cerebrale e la contingenza, individuando nell’instabilità e nell’ambiguità un sintomo fondamentale del trascendentale, per giungere ad affrontarne le caratteristiche e la natura. In tutto questo percorso è necessario non trascurare le questioni di definizione dell’epigenesi contemporanea che afferma esattamente il ruolo ancora poco compreso delle influenze esterne nello sviluppo del vivente, anche se sappiamo che l’esperienza sollecita lo sviluppo epigenetico e svolge quindi una parte attiva in esso. Si affaccia allora l’evidenza che la conoscenza sia interamente prodotta, procedendo da una sintesi generativa e dinamica. Essa non sarebbe per nulla la copia di un ordine preesistente e appare piuttosto come la produzione di sé e della forma degli oggetti stessi. Il codice della conoscenza perde, quindi, il suo carattere di regola generale per diventare sistema di corrispondenze non più necessarie ma possibili, valido alla luce di emergenze in continua evoluzione.
Rispetto alla domanda di base se siano gli oggetti che ci precedono a produrre la nostra mente conoscente, o sia la mente che produce gli oggetti della conoscenza, viene avanti l’ipotesi della necessità di passare dall’armonia prestabilita all’armonizzazione progressiva.
Un affondo di particolare importanza della riflessione critica di Malabou riguarda quello che lei definisce il peso enorme, anche se assolutamente non decisivo, che i fisici da Galileo in avanti hanno dato alle cosiddette facoltà interiori e al cosiddetto impulso iniziale come fattori essenziali che avrebbero portato le loro menti verso le verità che hanno scoperto. La sintesi tra categorie e oggetti dell'esperienza, secondo Malabou, più che procedere da un'improbabile spontaneità, appare invece come il prodotto di una lunga evoluzione che la teoria darwiniana consente di spiegare. Evoluzione che rende possibile l'adattamento graduale della nostra mente agli oggetti. Le cosiddette forme “pure” della conoscenza e del pensiero sono in realtà adattatori biologici: è vero soltanto ciò che la mente può assimilare in un dato momento. Emerge qui, nell'analisi, un orientamento che richiama la costruzione delle basi materiali della significazione, secondo l'approccio di Giorgio Prodi. La recente ripubblicazione del lavoro di Prodi, Le basi materiali della significazione [Introduzione e cura di F. Cimatti e K. Kull, Mimesis, Milano-Udine 2021], consente di avere a disposizione uno dei testi più importanti per comprendere le vie attraverso le quali noi esseri umani conosciamo e significhiamo il mondo. Per Prodi la possibilità di produrre una semantica intensionale presuppone una originaria semantica estensionale, ossia una semantica in cui il piano del significato non è separabile da quello del referente: prima le cose poi i significati, prima le interazioni naturali poi quelle semiotiche.
Pensatore anti-dualista, Prodi non accettò mai la separazione dell'umano dal resto del mondo vivente, né l'esistenza di qualcosa che si spiega da sola, e formulò un nuovo modo di configurare i problemi della conoscenza. Non giustificò mai nessuna operazione che equivalesse a un tirarsi fuori dal mondo, un'operazione che riteneva impossibile tanto sul piano biologico che su quello empirico. La possibilità che abbiamo, secondo Prodi, è la nostra inserzione nella realtà come parte di essa per cercare di comprenderla: l'animale umano non è altro che una porzione di mondo che osserva lo stesso mondo di cui fa parte. Secondo un approccio filosofico basato sul principio di immanenza si va oltre il dualismo e il monismo materialista. La natura è considerata come l'insieme delle cose materiali viventi. L'aggettivo vivente in base a questo orientamento si riferisce a qualcosa di assolutamente reale collegato ma non riducibile alla materia di cui quella cosa è fatta. Per Prodi qualcosa è vivo se partecipa a relazioni significative con altre cose.
Una risonanza di non poco conto che sembra di poter rilevare con il percorso di ricerca di Malabou riguarda il fatto che secondo la prospettiva di Prodi c'è un'attualità dell'originario: quel che ci precede non precede ma è dentro i vari modi di conoscere che di fatto si sviluppano. Questo significa, appunto, che l'origine non si arresta nel suo tempo, al contrario, che è attiva sempre di nuovo nel presente. L'animale umano può descrivere il mondo perché è in fondo nient'altro che un pezzo di mondo che parla di un altro pezzo di mondo. In tal senso l’ipotesi è che Homo sapiens sia una cosa che parla di altre cose: infine è mondo che osserva se stesso.
Eppure, una tradizione di non poco conto ha sostenuto posizioni diverse. Basti considerare che Frege, ad esempio, ripreso da Malabou, ha sostenuto che non bisogna confondere il “ritener vero” dal “vero”. Sostenere che il vero evolve, secondo questa posizione, equivarrebbe a fare una grande confusione. Ogni ricorso a un soggetto conoscente nella ricerca dell’origine della verità, secondo questa posizione, condurrebbe a uno psicologismo e a un relativismo. In proposito l’autrice, nel portare avanti in modo serrato il confronto, pone una domanda: “Senza strutture trascendentali, la ragione non è, semplicemente, un cervello? La genesi dell’epigenesi non si confonde a questo punto con lo sviluppo cerebrale stesso?”.
Come appare evidente, il problema è di una notevole complessità e induce ad oscillazioni che vanno dall’assunzione di un principio di verità che prescinderebbe dal soggetto conoscente, fino a riportare la conoscenza a coincidere con il sistema nervoso che concorre a produrla.
Nonostante il concetto di programma abbia dominato la genetica della seconda metà del secolo ventesimo, la critica ne ha messo in questione l'importanza, il ruolo e la funzione, e ha proposto l'abbandono dell'idea di programma genetico così come quella del trascendentale. Risulta sempre meno possibile sostenere che “tutto è genetico”. Basti pensare che il genoma umano è composto da 30.000-35.000 geni, a malapena 13.000 in più della drosofila e, come sostiene Henri Atlan, l'idea che tutto sia genetico sta cominciando seriamente a vacillare. La mappatura del genoma ha messo in evidenza che non tutto è scritto nelle sequenze di DNA, anche a livello molecolare e cellulare. Il modello che vige è più complesso e si basa sulle nozioni di interazione, sugli effetti reciproci tra la genetica, il cui ruolo centrale non deve essere negato, e l’epigenetica, di cui si scopre progressivamente l'importanza. Ad emergere è la malleabilità tra le condizioni dell'organismo e l'ambiente. Molti genetisti oramai credono che il comportamento dei geni possa essere modificato dalle esperienze della vita, tra determinismo genetico e modellamento epigenetico.
L’epigenetica studia i meccanismi che modificano la funzione dei geni attivandoli e disattivandoli. Nella misura in cui queste modificazioni non alterano mai la sequenza del DNA stesso, si dice allora che l'epigenetica lavora sulla superficie (epi), appunto, della molecola. A prodursi in sostanza sembra essere una stabilizzazione selettiva delle sinapsi attraverso l'attività neuronale combinando evoluzione e sviluppo. In generale l’esperienza si rivela un fattore essenziale nella selezione sinaptica che modula e modifica le reti e i circuiti. L’esperienza fenomenica è il risultato dell’interazione tra concetti e oggetti. Il lavoro dell'epigenetica è spesso descritto metaforicamente dagli scienziati come un’improvvisazione, una elaborazione pratica artistica, una spontaneità creativa. L'immagine che si impone con frequenza per caratterizzare appunto l'opera dell'epigenetica, infatti, è quella dell'interpretazione. A intervenire è la formazione di una singolarità che trascende il determinismo stretto e colloca l'epigenesi e lo sviluppo di ogni vivente tra biologia e storia. L'immagine dell'interpretazione testuale e musicale può aiutare a comprendere il ruolo e il valore dello stile, del modellamento individuale, delle possibilità inimmaginabili insite nella lettura o nel gioco. È evidente che il ricorso a simili analogie sembra appunto indicare il valore della dimensione ermeneutica nel cuore del biologico. Si giunge così ad una considerazione di particolare importanza in cui Malabou indica la rilevanza di ripensare la forza del trascendentale e riaffermarlo non come invarianza e predisposizione logica, ma come ampiezza ermeneutica e potenza del senso, aperte al cuore del biologico. La comprensione del trascendentale, a questo punto, come dimensione storico-critica della razionalità, accompagna come sua ombra necessaria l’oggettività.
A questo punto si pone quella che forse è la questione fondamentale: come si può determinare l’eccedenza che contraddistingue l’individuo che pensa se stesso?
In primo luogo, per fare i conti con questa domanda, è importante mettere in discussione critica l’assillo della sorgente, o la natura della cosiddetta radice di noi stessi e delle nostre distinzioni. Forse uno dei principali ostacoli a comprendere noi stessi.
La nostra fatticità si confonde con il divenire: “questo divenire è il punto di coincidenza tra l’epigenesi del soggetto della conoscenza, l'autonomia del soggetto pratico e la creatività della vita” [p. 160]. Rimane da comprendere come la nostra vita ecceda la storia dei concetti biologici e in proposito l’epigenesi diventa un concetto che si situa esattamente al crocevia tra conoscenza, libertà e vita. Il fatto che la vita sia l’osservanza di un modello specifico non impedisce che essa sia anche un’invenzione di forme, una scrittura non predestinata che si configura, in fondo, come un’interpretazione. C’è storia perché il senso non è dato, ma si costruisce e si genera, diviene, a partire da un vuoto.
Convocando Michel Foucault, e in particolare Che cos’è l’illuminismo [in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, Archivio III. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1988; pp. 253-261], Malabou, avvia la verifica della trascendenza come costituzione del soggetto: “Il motivo dell’epigenesi si legge qui in un duplice senso: sia biologico che temporale, il passaggio dalla minorità alla maggiorità, lo sviluppo differenziato, preludio di una nuova nascita” [pp. 169-170].
Questa prospettiva oltre a dare alla storia la dimensione di un processo di crescita, trascende il semplice paradigma evenemenziale. Come scrive Foucault, l'uomo è egli stesso responsabile del suo stato di minorità. L'accesso alla verità richiede una trasformazione del soggetto e il rapporto fra soggetto e oggetto è lo spazio del dispiegamento possibile. Quello spazio si situa al crocevia di ciò che non è né assolutamente oggettivo né radicalmente soggettivo e, in quanto luogo dell'autointerpretazione del senso, distrugge la visione dell'incontro neutro, atemporale e astorico del soggetto e dell'oggetto. Tale incontro è ogni volta possibile secondo certe condizioni materiali che impegnano la verità nella sua avventura nel presente. Il presente si configura, quindi, come il punto di congiunzione tra la permanenza strutturale e la puntualità storica della possibilità di trascendersi attraverso la malleabilità epigenetica. Ancora una volta è la mancanza di fondazione, il vuoto, ad essere concepito come una risorsa e non un difetto. Perciò, come sostiene Foucault, la genealogia non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile, frammenta quello che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che si immaginava conforme a se stesso. Nel praticarla noi ci portiamo ai limiti di noi stessi, cogliendo nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare più e di non pensare più quello che siamo. Emerge in tal modo un orizzonte dei possibili e diveniamo forma, forma che anticipa, secondo Foucault, a partire da una dimensione originaria di irriducibilità. In tal modo, però, se l’irriducibile è tale, per definizione non può cambiare. E siamo di nuovo di fronte ad un’incompatibilità con l’epigenesi.
Il confronto portato avanti da Malibou continua, stringente e articolato, per giungere a domandarsi, allora, se non sia la biologia l’unica in grado di offrire alla ragione un concetto plausibile di contingenza delle leggi della natura. L'attività cerebrale è una concezione naturale immateriale della natura della materia, la continenza della sua epigenesi coinvolge concretamente anche la contingenza del mondo. Il cervello non è un soggetto più di quanto il mondo sia un oggetto. Lo sviluppo epigenetico del cervello interessa la totalità del reale. Come emerge dal dialogo riportato tra Changeux e Ricoeur l'epigenesi implica diverse stratificazioni evolutive che sono incastrate le une nelle altre. Emerge quindi un altro significato del tempo. Il tempo cessa di essere un puro dato somatico per divenire progressivamente, attraverso la rammemorazione, il tempo del pensiero. La coscienza, scriverà Edelman, è un presente ricordato. A farci difetto è una filosofia epigenetica capace di combinare le conoscenze neuroscientifiche con le domande essenziali che scaturiscono in rapporto a quelle conoscenze. Un approdo possibile e necessario di ulteriori approfondimenti, di quelle domande, si situa tra l’imprescindibile matrice biologica di ogni nostra espressione e la modificabilità epigenetica da cui scaturiscono realtà che non possono esistere “in nessun’altra parte che nel pensiero” [Kant, CRP, A141, p. 141]. Il legame tra lo sviluppo epigenetico soggiacente e la storia individuale del soggetto umano diventa più evidente, “al punto forse da non comprendere più cosa realmente li ha separati per così tanto tempo” [Malabou, p. 290].