Niente, nemmeno un Dio
Può il desiderio portare a esistenza qualcosa che non c’è? Attenzione, questo è diverso dal chiedersi se le cose che si desiderano possono esistere, diventare realtà. In quest’ultimo caso infatti la risposta è: «Sì, certo, possono, purché siano cose la cui esistenza sia possibile», e noi siamo in grado di capirne la differenza (il che rimanda alla preghiera/motto che invoca la serenità di accettare le cose che non si possono cambiare, il coraggio di cambiare quelle che si possono cambiare, e la saggezza per conoscere la differenza…). In ogni caso il desiderio in sé non dimostra né l’esistenza né l’inesistenza di qualcosa. Ma quando quel qualcosa che si desidera è Dio, un Dio che ti libera dalla morte e di conseguenza dalla paura della morte?
Non credo, so
«Mi piace l’idea di Dio», scrive David Baddiel in Il desiderio di Dio. Chi non vorrebbe che esistesse? (Altrecose/Iperborea, 2024, pp. 112), piccolo libro molto lodato per l’acume e l’arguzia, e che nell’edizione italiana gode anche della bella introduzione di Luca Sofri. David Baddiel, scrittore e comico britannico, sceneggiatore, autore di libri per bambini e romanzi per adulti, vi si definisce fondamentalista ateo, oltre che ebreo non religioso. Fondamentalista perché «non è che credo che Dio non esista, lo so». Però, aggiunge di sé Baddiel, non sono uno che disprezza chi crede e ha fede, anzi rispetto la religione. E aggiunge che ritiene che avere fede e bramare l’immortalità sia una condizione innata. Innata? Mi chiedo io che sospetto di ogni forma di innatismo, sostanzialismo o essenzialismo, perché condanna le persone a vivere con un imprinting del quale non potranno mai liberarsi perché, appunto, «innato».
Il bisogno di Dio e le prove della sua esistenza
Diciamo che, se non innate, sono forme di pensiero molto diffuse, questo sì. Pare comunque che ci siano popolazioni che tale bisogno non lo avvertono. Così sosteneva Remo Bodei in un libretto del 2001 che affronta il tema dell’ateismo da un punto di vista filosofico e che ho scelto per individuare meglio le posizioni dei filosofi, quelli che sul tema hanno pensato di più, nonché per lo stile pacato e rispettoso anche se non umoristico come quello di Baddiel (Remo Bodei, I senza Dio. Figure e momenti dell’ateismo, a cura di Gabriella Caramore, Brescia, Morcelliana, 2001). Baddiel peraltro non è interessato ai ragionamenti dei filosofi e nemmeno alle loro fallimentari prove dell’esistenza di Dio (la prova teleologica, quella fisica, quella fisico-teologica, quella – a mio avviso la più intrigante – ontologica). Ma non lo attirano nemmeno gli argomenti a contrario degli atei polemici, che affermano che non essendoci prove della sua esistenza, Dio non esiste.
L’argomento psicologico
I suoi argomenti – Baddiel ci tiene a precisarlo – sono di natura psicologica. L’idea di Dio gli piace, gli piacerebbe tanto che ci fosse un superpapà che sconfigge la morte, perché la morte è il suo vero e reale problema. La paura della morte è riuscita persino a renderlo insonne fin dall’infanzia, quando la mamma gli spiegò che «la morte è un lungo sonno da cui non ci si sveglia mai». Il piccolo David era un bambino ebreo quindi non poteva immaginare l’aldilà come luogo di sopravvivenza dell’anima, nella beatitudine o nei tormenti, dal momento che l’ebraismo non ha una posizione chiara sul post-mortem. Ebreo si sente ancora, l’ebraismo fa parte della sua identità. È giusto un ebreo ateo, tutto qui. Era ateo pure Benedetto Croce, che non era ebreo anzi di formazione cattolica, eppure riuscì a scrivere il celebre Perché non possiamo non dirci cristiani. Don Benedetto auspicava forme di religiosità laica, di religiosità dell’immanenza, come Gramsci – spiega Bodei – legate all’operosità e al tramandarsi degli affetti e dei ricordi attraverso le opere e l’amore, che creano consolazione senza bisogno di attendere l’altro mondo.
Baddiel vorrebbe invece tanto avere un Dio che lo consolasse, ma sa di non poterlo avere perché non c’è. Vorrebbe disperatamente un Dio che gli togliesse la paura della morte abolendo la morte vera, qui e ora, e che desse senso alla vita. E invece non c’è neanche quello, e il senso ce lo dobbiamo inventare da soli, perché il senso ci serve, ci serve il significato della vita e di quello che le accade intorno, tant’è che ci costruiamo storie per darcelo. Storie magari a lieto fine in cui la bontà è premiata e la cattiveria punita, e tutto questo offre senso.
La ricerca del senso
E per parlare di senso invece che a tomi filosofici che lo neghino (Sartre, Camus) o lo affermino (Agostino, Tommaso d’Aquino) mi rivolgo a un libro recente, un libro per ragazzi, un libro della scrittrice danese Janne Teller, Niente, pubblicato a Copenhagen nel 2000 e poi via via in varie traduzioni, in Italia più d’una, di cui recente quella del 2012 presso Feltrinelli da parte di Maria Valeria d’Avino. Niente è un libro crudo e sconvolgente, esecrato e censurato ma anche pluripremiato, tutto incentrato sul significato della vita. Racconta di una classe di ragazzi danesi tredici/quattordicenni, maschi e femmine, che subiva le provocazioni di un compagno. Pierre-Anthon invece di andare a scuola se ne era andato a stare su un albero di prugne, con le quali bombardava i compagni, a mo’ del barone rampante. Dall’alto dell’albero Pierre-Anthon gridava che non c’è niente che abbia senso e che non vale la pena di fare niente, e morire è facile perché la morte non ha senso, e se la morte non ha senso non ha senso la vita, come per rispondere in anticipo alle domande di Baddiel.
Per dimostrare al compagno disfattista che il senso esiste e le cose hanno significato i compagni di classe raccolgono in un capannone cose dotate di senso, oggetti, persino animali cui ognuno di loro è legato, che hanno un forte significato, per mostrarglieli un giorno e dimostrargli che il senso c’è. La raccolta però degenera e la storia prende una piega inquietante. I ragazzi si impongono a vicenda di sacrificare ciò che per loro ha valore ed è importante e il gioco, partito in maniera innocente, subisce un’escalation. Il progetto va avanti fuori controllo finché intervengono i genitori e la polizia, la notizia arriva alla stampa e alla televisione e un famoso Museo di New York chiede di acquistare la catasta dei significati per tre milioni di dollari. Non può farlo però perché il mucchio brucerà, dopo che i ragazzi si saranno brutalmente vendicati del compagno nichilista. Pierre-Anthon infatti, quando finalmente vede il mucchio lo irride, come irride chi aveva creduto nel significato delle cose, continuando a sostenere che nulla ha senso, né la vita né la morte. Il ragazzo viene linciato dai compagni pazzi di rabbia per non essere riusciti a convincerlo che il senso c’è (e forse si potrebbe qui intravvedere una morale: il senso c’è, ma i regazzi della classe 7A lo avevano cercato nei posti e negli oggetti sbagliati).
La certezza della speranza
La posizione di Pierre-Anthon conferma quella di Baddiel, il quale se la ride dei messaggi di «indubbia e sicura speranza di resurrezione», come se la speranza potesse essere indubbia e sicura, anche se è proprio in questi termini che si esprime l’Enciclica Spe salvi di Benedetto XVI del 30 novembre 2007, dove si afferma la «certezza della speranza». Insomma la paura della morte resta, né vale l’argomento di Epicuro perché la vita è molto meglio anche di una morte che non percepiamo perché quando c’è lei non ci siamo noi etc.. Non interessa a Baddiel la posizione di chi ritiene che possa anche esistere un Dio creatore per quanto indifferente agli affari delle creature; ma nemmeno quella di chi pensa che Dio non esista perché esistono la povertà, la malattia, le guerre, la sofferenza dei bambini e un Dio d’amore e bontà come il Dio cristiano non potrebbe tollerarle. Ma questa è una idea solamente cristiana, anche se di grande successo, e comunque indimostrabile, continua implacabile il fondamentalista ateo. Eppure sarebbe bello che fosse così, l’idea di un Dio d’amore e bontà gli e ci piace, ma non corrisponde ai fatti. Lo desideriamo, affermano – alcuni almeno – ma sappiamo che è così. Gli agnostici, è vero, sono più cauti: ci sono cose che non sappiamo, rispetto alla creazione più che all’amore e alla bontà divini, e che potrebbero essere Dio. Gli atei non sono cauti; Baddiel non lo è: preferirebbe che Dio ci fosse ma sa che non c’è. E forse lo sanno anche molti di coloro che si dichiarano credenti, e poi tanto la fede tende a diminuire, come l’intelligenza del resto, almeno a guardare i risultati dei test del Quoziente di Intelligenza. Che anche la diminuzione della fede sia un risultato della frequentazione eccessiva di Internet e dei Social Media?
Certo è che non viene meno il bisogno di qualcosa che sia più grande di noi, conclude Baddiel pensando alle cerimonie per la morte di Elisabetta II, riverita come una divinità e in qualche modo risorta nel passaggio di regalità da lei al figlio Carlo III: il re è morto, lunga vita al re. I re almeno non muoiono mai.