Biogea / Michel Serres: incontri, amori

26 Dicembre 2016

Pubblichiamo un estratto della postfazione di Francesco Bellusci al nuovo libro, tradotto in italiano, di Michel Serres: Biogea. Il racconto della terra, dal 24 novembre in libreria, e un brano tratto dall’ultimo capitolo del libro intitolato: “Incontri, amori”. 

 

Improvvisamente, nel giro di meno di un secolo, dopo millenni, abbiamo eroso quel campo della Necessità che stoici ed epicurei ritenevano invalicabile. Ciò che non era in nostro potere, ora lo è, in tutto o in parte. La nascita e la morte, le minacce alla nostra salute, la vita e il suo codice genetico, la velocità delle comunicazioni e degli spostamenti, la riproducibilità dei beni, il clima. Siamo all’altezza del mondo, siamo dotati di strumenti all’altezza della sua potenza, ma ci salveremo solo se ci riconosceremo nel mondo. Il nostro futuro è in bilico tra armi di distruzione di massa e armi di costruzione di massa. Se non possono più essere quelle di Epicuro, come sosteneva accoratamente Lucrezio, agli inizi del V libro del De rerum natura, le parole di quale nuova saggezza, le parole di quale nuova filosofia, potranno dissuaderci dall’uso delle prime, farci guarire dalle paure e dall’aggressività che ciecamente le possono impugnare, e orientarci stabilmente verso le seconde?

 

Questa filosofia è quella che Michel Serres va sviluppando, da almeno un trentennio. Come le filosofie ellenistiche, segue fiduciosamente il movimento circolare che va dalla fisica all’etica, dalla scienza alla coscienza, dal sapere all’educazione (un tempo, era la “cura di sé”); ritesse nel paradigma di un pensiero complesso e nomade, prima, e nella composizione di un grande racconto unitario del mondo e dell’umanità, poi, i saperi che la modernità ha per tanto tempo segmentato e separato, lungo il solco divisorio tra scienze “esatte” e scienze “umane”, “dure” e “dolci”; profetizza, già nel 1990, la possibile nuova biforcazione di quel racconto, che potrà evitare l’autodistruzione dell’umanità conseguente alla degradazione della biosfera, aprire le porte a un nuovo umanesimo, determinare un nuovo orientamento nelle scienze accanto a una responsabilizzazione inedita della comunità scientifica: il contratto naturale.  Un contratto non  più solo sociale, non più stipulato solo tra uomini o gruppi di uomini, ma tra l’umanità e la Terra vivente, che diventa, così, a pieno titolo, soggetto di diritto. Questo contratto serve ad arginare la “violenza oggettiva”, a disinnescare l’unica “guerra mondiale” ancora in corso: la guerra degli uomini contro il Mondo.  

 

Dictis, non armis, le parole al posto delle armi: le usava Epicuro secondo Lucrezio. Così fa Serres, ma aggiungendo che si tratta di dare la parola anche alle cose, alla Vita e alla Terra, ribattezzati “Biogea”, ovvero darla a chi può prenderla in loro nome (a suo dire, scienziati laici che giurino di non servire alcun interesse militare né economico), nel seno delle nuove istituzioni internazionali, che discenderanno dal contratto naturale come suo indispensabile corollario: una ONU allargata ai rappresentanti di Aria, Acqua, Terra, Flora e Fauna, che dovranno sedersi e negoziare con i rappresentanti dei governi degli Stati e, magari, un Tribunale Penale Internazionale che giudichi non solo i “crimini di guerra” e i “crimini contro l’umanità”,  ma anche i “crimini contro il mondo”. Salvare la natura, per salvare l’umanità: la parola concessa a Biogea, riconosciuta come nuova persona giuridica, metterà a tacere definitivamente le armi che gli uomini usano nelle loro guerre, nefaste tanto per gli uomini quanto per quella natura, nella quale gli uomini e gli Stati, in concorrenza tra loro, dimenticano di abitare e da cui dimenticano di dipendere. Fare dunque la pace con il Mondo, per costringere gli uomini a fare la pace tra loro: ecco cosa suggerisce la nuova saggezza.

 

Esempio di una scrittura che ibrida il saggio e il racconto e si collega alla tradizione della filosofia in lingua francese che va da Montaigne a Voltaire, Biogea è il libro singolare e avvincente che dà voce ai fiumi, ai monti, ai mari, ai venti, ai vulcani, agli elementi della natura. Il filosofo tenace e incallito del contratto naturale diventa poeta delle scienze e non disdegna i panni del filosofo visionario, che scorge e annuncia le premesse di una pace universale: se prenderanno coscienza dei pericoli globali che corre Biogea, la loro patria comune, gli Stati e i popoli saranno “condannati” alla pace. 

Per quali sentieri, meno astratti di quelli di Kant, Michel Serres approda sulle rive di quell’utopia concreta che ha ancora il nome di “pace perpetua”?

(…) 

 

Gettare le basi per una soluzione razionale del problema della pace universale, significa, allora, portare all’estremo Hobbes, per ribaltare ottimisticamente la profezia apocalittica di René Girard, scaturita dal portare all’estremo Clausewitz. Secondo Norberto Bobbio, solo l’ipotesi hobbesiana di uno stato di natura come guerra permanente di tutti contro tutti può spingere logicamente alla necessità di una pace di tutti con tutti, anche se Hobbes non ha perseguito quest’intuizione fino in fondo, cioè non l’ha estesa al piano internazionale, pensando a un dispositivo contrattuale adatto a far uscire dallo stato di natura ed unire gli Stati stessi e non i singoli individui. Mutatis mutandis possiamo collocare su questa scia anche la proposta del contratto naturale  di Serres, come unica via d’uscita dalla «guerra di tutti contro tutto», dalla guerra contro il Mondo, per scongiurare l’apocalisse ecologica e del terrorismo globale, e, quindi, come conseguenza di un imperativo che si può considerare l’aggiornamento della prima legge naturale, enunciata da Hobbes nel capitolo XIV del Leviatano: “Dobbiamo decidere la pace tra noi per salvaguardare il mondo e la pace con il mondo per salvaguardare noi stessi” (M. Serres, Il contratto naturale). 

 

 

La guerra come male necessario o apparente; la guerra come stimolo al progresso morale e culturale dell’umanità; la guerra come riappropriazione del senso autentico della vita: uno stuolo numeroso e insospettabile di filosofi, politici, giuristi, poeti, hanno preso parte, sinceramente o per  opportunismo, a questo panegirico abominevole della guerra, a questa teodicea pagana a favore del dio Marte. Hanno così chiuso gli occhi su quanti incommensurabili progressi l’uomo compie  nella pace e solo nella pace, come, al contrario, avevano saputo fare coraggiosamente Lucrezio e Virgilio. Carl Schmitt è giunto a dire che se finisce la lotta per la quale uno è disposto a sacrificare la vita, finisce la politica: senza guerra, non c’è nemico; senza nemico, non c’è politica. Il contratto naturale, invece, inaugura una nuova filosofia politica, una nuova politica e nuove istituzioni, a partire dalla consapevolezza che sono finiti i giochi a due e un terzo s’impone nel gioco, imponendoci la pace: la Vita e la Terra, la Biogea. Proiettati, allora, verso i lidi promettenti dell’Ominescenza, possiamo serbare in memoria uno dei più antichi manifesti del pacifismo dell’Occidente: «O Achille, nessun eroe più di te fu felice in passato, nessuno lo sarà nel futuro. Prima, da vivo, ti onoravamo come un dio, noi Argivi: ed ora che sei qui, hai un grande potere tra i defunti. Perciò non rattristarti di essere morto, o Achille – così, io parlavo. Ed egli subito mi disse: ‘Non volermi consolare della morte, glorioso Odisseo. Preferirei da vivo e sulla terra essere servo di un altro, stare presso un uomo povero e che non avesse molti mezzi, piuttosto che dominare su tutti i defunti’» (Omero, Odissea).

 

(F. Bellusci, Michel Serres: dal contratto naturale alla pace perpetua, postfazione a: M. Serres, Biogea. Il racconto della terra, Asterios editore, Trieste 2016) 

 

… Ma m’inquieta l’aggettivo durevole: nel tempo, cosa dura? Risposta attesa: le rocce molto dure. Obiezione: questo duro qui dura? Le rive della Garonna crollano; il fiume trasporta tonnellate di sabbia, atomo per atomo strappata ai massi dei Pirenei o dal Massiccio centrale. La durata, a termine, erode le montagne più resistenti, il Brahmaputra e il Gange appiattiranno l’Himalaya. Questa lunga usura può persino servire da orologio. Attaccato dalla risacca incessante delle maree, il litorale granitico della Bretagna si sgretola in cocci sfiniti fino all’ultimo granello. Affinché il duro duri un pò, le potenze di questo mondo accatastano sui loro scheletri piramidi colossali; e tuttavia, esse si sfaldano. No, il duro non dura. In linguaggio informatico; l’hard si usa e non dura. Invito a visitare i luoghi in cui si legge meglio la storia delle tecniche; cimiteri di battelli, depositi di locomotive, di gru declassate, la cui mole è vicina alle macchine da scrivere e ai computer delle prime e persino delle più recenti generazioni … Chincaglierie arrugginite buone per arricchire i ferravecchi.

Passiamo da queste ferraglie, dure come terra, ai liquidi che sgorgano, l’acqua. Ripetiamo che il tempo scorre, che, sotto il ponte di Mirabeau, scorre la Senna, e i nostri amori … Non avendo già – giammai navigato in acque dolci, il poeta, dall’alto del suo ponte e della sua ispirazione, non vede né turbini né le contro-correnti che si oppongono a volte alle chiatte che ingoiano. Più morbido del solido, ecco il liquido. L’acqua della Senna si evapora, forma delle nuvole, piove; ecco l’acqua statisticamente ritornata. Sì, contrariamente a ciò che in modo avventato ripetono alcuni, scioccamente terrestri, ci si bagna decine di volte nello stesso fiume. Questi enormi vortici, che liberano verso l’aria del cielo quelli dei piloni e dei ponti, così dolci, quanto a essi, come vapori e nugoli, così alti come le nubi, così bassi come i mari, ma così durevoli come il tempo che fa, descrivono una stabilità perenne con forti fluttuazioni. Dacché la Biogea dura, non una lacrima d’acqua vi manca. Mentre le montagne più dure si appiattiscono, granello dopo granello, sotto la forza dolce delle gocce. Sebbene più dolce del duro, l’acqua dolce dura più del duro. 

 

Il soft, allora, dura? Abbiamo mai visto, come per i rifiuti di vetture, cimiteri simili per il dolce, per i soffi e i suoni, la musica, le lettere e i codici, i segni e il senso? Immaginiamo qualche catastrofe, un aerolite che percuote la Terra: falesie, montagne, muraglie, cristalli, macchine … tutto crolla e muoiono la maggior parte delle specie viventi. Persino i dipinti dei maestri, tele e quadri, persino le braccia della Venere di Milo, persino la testa della Vittoria di Samotracia, vinta dal tempo. Abbiamo veramente bisogno d’immaginare questo scenario da fine del mondo? No, poiché i due sistemi economici conosciuti oggigiorno, non tenendo in alcun conto questo mondo, non hanno impiegato che qualche decennio, un tempo trascurabile in rapporto a quello della Biogea, per esaurire le miniere, i fiumi, l’insieme delle scorte disponibili, distruggere i mari, inquinare l’aria, saccheggiare la Terra, uccidere, a un ritmo fulminante, le specie viventi, in breve, divorare tutto il capitale terrestre, duro, accumulato, da milioni di anni, non senza annegare i resti delle culture umane sotto un diluvio di bruttezza; meglio, il summenzionato sviluppo durevole, serve loro da pubblicità menzognera per compiere il saccheggio.

Cosa resta di durevole? Sì, il dolce. L’acqua dura più della terra, l’aria più dell’acqua … il segno più del fuoco. Ecco il mio teorema al completo: il duro non dura, solo dura il dolce.

 

Obiezione, ancora: neanche questo dolce! Le gesticolazioni di tal celebre cantante non durano che tre mesi. E le vociferazioni politiche o mediatiche? Il giornale del giorno, la moda passano di moda, le notizie divengono velocemente desuete. Che resta dunque? Il più dolce. Riscopro allora il sentiero metodico lungo il quale cammino. Salgo, lentamente, dal granito verso l’acqua, dal più duro verso il più dolce, dal mare e dai fiumi alla brezza e al vento. Più e meglio, dall’hard al soft, dal supporto verso il codice. Devo allora raccontare ciò che si raccontò, tanto tempo fa e che, dunque, durò: nudo, naufrago, Ulisse approda, lamentoso e supplice, sulla spiaggia dove Nausicaa, elegante, gioca a palla con le sue compagne, nude … gli amori della principessa de Clèves … la legge di Newton, i teoremi di Poincaré … il movimento lento del Concerto 21 per piano di Mozart … il Requiem di Fauré … tutti contenuti la cui dolcezza è vicina all’eccellenza. Obiezioni, sempre: la sublime cantata non è più dolce del canto banale; i supporti in pergamena, carta, cera o silicio di tali contenuti dolcissimi spariscono a colpo sicuro per la più recente catastrofe, la cui potenza, dura, cieca al genio, non sceglie. È dunque necessario trovare del più dolce ancora. Saliamo, tentiamo la via della vetta.

 

Parlavo di Omero e di Fauré … Domanda: dove si trovano gli Études, opus 25, di Chopin? Su tal disco, interpretato da tal pianista? No, ve ne sono tanti altri, se ne incidono tutti giorni, e a decine, di questi supporti. Sulla partitura? Ma, senza interprete, essa resta muta e, a volte, s’è perduta, smarrita, lacerata, resta introvabile. Nelle nostre memorie? Ma esse sono fallibili. Dove? So il museo dove posso ammirare la Venere di Milo, dura di marmo, o La Gioconda, tesa, rigida su tela; ma dove posso trovare il Requiem di Fauré? Dove giace il suo originale? Dove? Chi può rispondere a questa vecchia domanda di luogo? L’informazione sarebbe dunque tanto più durevole, persino immortale, nella misura in cui il suo soffio, più leggero che aereo, la sua dolcezza suprema, quasi vuota, si assentarono? 

 

Denis Diderot rende visita a Sophie Volland, la sua dolce amante. Lei non è lì; paziente, l’attende; lei non viene; lui deve andare, per affari. Allora, cade dalla sua penna, come lampo dal cielo immortale, la più bella lettera d’amore che mai scrisse un amante umano. Eccola, almeno quale la consegna la mia memoria, sicura, debole, turbolenta: «Sono venuto; vi ho attesa; non siete affatto tornata. Devo andare. La notte scende. Nell’ombra, non vedo ciò che scrivo, non vedo persino se scrivo. Ovunque dunque voi non vedrete niente di scritto, leggete là che io vi amo». Niente di scritto! Il dolcissimo del dolce quasi svanito, vento leggero, bruciante, piuma leggera portata leggermente dalle fiamme e dai soffi ultraleggeri di una brezza bruciante svanita come piccolo vapore. Ovunque oramai non vedrò niente di scritto, leggerò che qualcuno mi ama? Per tutta l’intera Biogea, niente è scritto, tutto resta scritto, durevole. Potrò infine qui svilupparmi?

Che cosa dura, per finire? Ciò che non ha più assolutamente corso e che si chiamava lo spirituale, di cui la lettera esprime il soffio e di cui, in tempi inobliabili, fu scritto, dalle prime parole della Genesi, che il suo soffio, in effetti, turbinava sulle acque primigenie del tohu-bohu4. Il fuoco di Dio. Allora, che dire dello sviluppo? Tutto. Poiché, proprio a partire da questo big bang, infinitamente dolce e durevole, l’Universo intero si sviluppò. 

 

Ancora e sempre un’obiezione: io vedo che, dolce, l’informazione forma il mondo, e che, non ancora scritta, durevole e senza dubbio stabile, essa sviluppa tutto. Così raggiunta puntuale la vetta, sono appena transitato dall’informazione dolcissima verso lo spirituale. Ho il diritto di passare questo limite, dal niente di senso alla sua pienezza? Non so da chi apprendere se posso passare questa soglia. Da Dante? L’amore ci muove, dice nell’ultimo verso del Paradiso, così come il Sole e le stelle. Da Diderot? Accecato, anch’egli ha visto che l’amore sa superarne la soglia. Come passare questa porta stretta, difficile e tuttavia a portata? 

 

Risposta: in silenzio. Città, strade e macchine, motori e sintonizzatori immergono in un tohu-bohu stercorario il senso vivo, intelligente, che dopo aver prodotto distruggiamo di rumore. Narcisi, ecoisti, non ascoltiamo che le lingue e i brusii umani. Stretti nei nostri rumori, ci rinchiudiamo nei nostri clamori. Sguazzando in queste sporcizie immonde del senso, ci appropriamo del mondo. Le Mal propre si applica alle nostre emissioni sonore; mi domando a volte se questa invasione invadente delle nostre voci non tuoni come un’origine del linguaggio. 

Così non amiamo che le nostre più vecchie notizie, non ci interessiamo che a noi stessi e alle nostre proprietà. Mai agli altri. Non parlo solamente degli altri noi-stessi, quelli che, risuonando di lingue dette straniere, frusciano comunque di linguaggi umani. Ma di altri altri : viventi bramanti o urlanti e cose che risuonano. Cominciamo tuttavia a decifrare i codici dei viventi – vere lingue viventi, autenticamente straniere – e delle cose inerti della Terra che, tutte e tutti, come noi, ricevono, emettono, salvano e elaborano dell’informazione. Un tempo, dei filosofi intesero che tutto cospira o consente. Sappiamo oramai che la Biogea dialoga. Sapienti o immaginati, i miei brevi racconti hanno tentato di fare intendere l’estraneità, senza dubbio ancora insensata, di queste lingue, costruendo un primo megafono per Gea: mari, fiumi, terre, ghiacciai, vulcani, venti; poi per Bio: ratti, lupi e sciacalli – fauna, meli, glicini, querce e tigli – flora; infine raccordando questi megafoni con i nostri propri incontri e le nostre grida. Turbinante, l’ascensione va dall’inferno del rumore al paradiso sempre più ridotto del detto.

Al vertice: il non-scritto o il non-detto.

 

M. Serres, Biogea. Il racconto della terra, Asterios editore, Trieste 2016.

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