Contagio Iran

1 Settembre 2015

Gholamreza si alza dal divano e viene verso di me. Mi sollevo anche io, le porgo il velo o quello che ho portato qui con l’idea che potesse assolvere questa funzione: una stola di un cotone un po’ spesso, azzurro e lungo, di forma rettangolare.

Mostro, nell’intimità della loro casa, io, donna, i miei capelli.

Gholamreza prende il mio azzurro tra le mani – mi è vicinissima e la osservo: con gli occhiali, senza hijab che ha tolto poco prima sorseggiando il suo tè – lo apre per bene mentre io piego le ginocchia un po’, così che possa appoggiarmelo sulla testa; poi, con le due estremità, mi circonda il collo con rapidi gesti, riportando entrambi i lembi davanti, dopo averli sapientemente intrecciati alle mie spalle. Muovo la testa e sembra proprio che se ne stia su, incollato: le spalle, e i capelli, sono coperti, coperti per davvero. Mi volto e Mina e Mahsa hanno le mani davanti alla bocca, non appena incrociano il mio sguardo soddisfatto scoppiano in una risata: non sei affatto cool così, dicono. Sorrido, guardo Gholamreza nel tempo che Mahsa impiega a raggiungermi. La ragazzina scioglie il lavoro della madre che assiste silenziosa e con espressione divertita. Mettendosi in punta di piedi appoggia anche lei la stola alla mia testa, circonda poi il collo con un lembo soltanto, lasciando ricadere un’estremità davanti e una dietro. Sistema i miei occhiali da sole in modo che siano loro a coprire la parte dei capelli lasciata esposta. Fa un passo indietro, riprende posto sul tappeto di questa tanto grande quanto disadorna sala – i soffitti scrostati, i tappeti a ricoprire il pavimento. Mi guarda. Ridiamo, insieme. Imparare gesti di donne.

 

Siamo a Shiraz da un giorno soltanto, da poche ore conosciamo Shahrzad, il tassista che ci ha portate dall’aeroporto al centro. Nel breve tragitto verso l’albergo l’uomo, facendosi spazio nel traffico con la naturalezza folle che è il codice della strada di questo paese dove, che tu sia automobilista o pedone, la segnaletica non ha significato e il solo linguaggio in vigore è il suono ininterrotto dei clacson, ci ha proposto di guidarci nel pomeriggio alla tomba del poeta Hafez, luogo di pellegrinaggio. A poca distanza dal centro città, vicino ai giardini botanici Bagh-eEram, si trova il mausoleo dedicato al poeta che ha ispirato Goethe: ogni iraniano nella propria casa, ha, accanto al Corano, il Divan di Hafez. I suoi ghazal raccontano il futuro. È per questo che bambini e vecchi se ne stanno davanti alla sua tomba-monumento con un piccolo uccellino appoggiato al braccio e lasciano che questo, incontrandoti, peschi per te con il becco uno dei foglietti colorati che loro tengono in una scatoletta nella mano.  Quell’uccellino delle dimensioni di un pettirosso, che non se ne vola via e si lascia accarezzare, ti porge il tuo futuro. Ho il mio destino su carta verde acqua tra le pagine del mio quaderno rosso: sono felice che sia lì e felice che sia scritto in persiano e non mi è dato di sapere cosa mi riservi.

Abbiamo accolto l’invito di Shahrzad e ci siamo lasciate guidare tra le parole a loro care, lo abbiamo ascoltato leggere a voce alta l’iscrizione sulla tomba del poeta, i suoi versi, e abbiamo osservato gli astanti rimanere in silenzio ad ascoltarlo. Una donna, avvolta nel suo chador, si è coperta il viso con le mani a nascondere le lacrime.

 

 

Differenze per le strade di Yazd

 

Vestiamo quel misto di curiosità e dolcezza e ironica allegria e commozione che si ha tra cose troppo distanti. L’euforia sciocca e dolce dell’ingenuo. Sembra facile qui, qui dove la loro curiosità diventa la tua, e ti pare di poterti ricordare con precisione del tempo in cui sei stato al mondo in quel modo lì, toccando le cose per conoscerle. Non si può fare altrimenti.

Non so classificare quello che accade, non lo so tradurre, sembrano saltare molte delle nostre certezze, prima fra tutte quella che ci porta a pensare che nel detto che raccomanda di non fidarsi degli sconosciuti ci sia qualcosa di molto giusto. Fidati, sembrano dirti invece le voci e gli odori di questa terra. Ritrova nell’altro l’amico, lo scampato. Riadatta la tua lingua così che possa ospitare quell’altra incomprensibile: arrischiati a percorrere quella distanza sapendo che è destinata a restare tale, inevitabilmente sfida.

Un’ospitalità del tutto dimenticata a occidente.

Cosa la rende possibile? E in che relazione sta al suo rovescio, allo sguardo di rimprovero e insieme desiderio che alcune donne ci hanno riservato per le strade di Teheran, fotografandoci, guardandoci, avvicinandoci, provando a balbettare la nostra lingua e insieme ridendo di noi, dei nostri vestiti troppo colorati, della nostra differenza resa tanto evidente dalla quantità di sguardi raccolti?

 

Teheran è una città forte, decadente, caotica, ospitale e violenta insieme. È nelle strade, facendoti strada tra le colonne di taxi gialli e verdi e scansando modelli e forme di automobili che credevi fuori produzione da tempo, motociclette di bassa cilindrata che portano famiglie intere – abbracciati l’uno all’altro e senza casco –, che misuri le contraddizioni che ti accompagneranno in ogni luogo. Attraversi quartieri che mappano gli spazi delle arti e dei mestieri, orientandoti grazie alle montagne a nord, un’idea vaga che intravedi nel cielo reso opaco dall’afa e dallo smog.

Difficile essere quattro donne. Abbiamo misurato la distanza da questa gente non solo guardando agli abaya e ai niqab, a tutto quel nero, ai capelli coperti, alle sopracciglia – e alle unghie – disegnate e squadrate e curate, ai vagoni della metropolitana ‘women only’, ma anche al come del loro guardarci, sentendoci spogliate dai loro occhi: spogliate per davvero delle volte, affaticate da quegli sguardi di uomo, da quelle risate e da quelle poche volgari parole in inglese. Qualcosa di già conosciuto che tuttavia ci sorprende, lì, impreparate, senza i consueti strumenti di difesa; qualcosa che ci scopre imbarazzate, vulnerabili, nella loro terra, straniere, provando ad abitare il loro sguardo e quasi percependo il nostro corpo, mai così nascosto sotto le vesti larghe e lunghe – quarantacinque gradi e sole a picco nonostante –, come una provocazione.

 

 

Per le strade; Shiraz, Teheran

 

Shahrzad, lo sconosciuto che ascolta lezioni di inglese mentre guida il suo taxi, che indossa una camicia ben stirata, i pantaloni lunghi e i sandali sopra le calze, che studia e si prepara per essere guida turistica, oltre che autista di taxi, ci ha invitate a conoscere la sua famiglia: tè prima, un pranzo per noi – con dug e Ghorme Sabzi e montagne di riso – il giorno successivo. Così siamo arrivate nella sua casa: così Gholamreza, così Mahsa e Mina, il velo e il nostro provare a essere cool per le strade dell’Iran.

 

Mahsa ha sedici anni, non smette di osservarci, ci rivolge molte meno domande di quelle che la sua testa contiene, di quelle che il suo sguardo raccoglie, fissando ora noi ora il padre, ora le nostre labbra ora le sue mani. L’hjiab, ci risponde, le piace. I suoi occhi sorridono fieri, mentre lo dice. Indossa una tuta che non nasconde affatto le forme del suo corpo, lascia al sole i suoi capelli lunghissimi. È bella.

Il padre la guarda, innamorato: racconta che frequenta la scuola delle eccellenze. Gli sguardi che attraversano quella stanza – mentre sediamo sul tappeto con le gambe incrociate e il cibo offerto, abbondante, colorato, ad accoglierci in una festa – sono d’amore.

Il velo, ripenso alle parole di quella giovane donna, la fa sentire al sicuro, protetta.

Ma cosa contiene quella sicurezza? È pudore? È l’imbarazzo che immagina porterebbe il vestire una differenza evidente? È desiderio di riservare la sua bellezza all’intimità soltanto degli sguardi innamorati? Al sicuro da cosa? E noi come ci siamo sentite percorrendo queste strade? Guardate, fotografate, abbiamo avuto paura?

 

Bazar, Theran; ph. Giovanna Salvini

 

Non abbiamo marito, dobbiamo ripetere due volte quel ‘non’. Nessuna di noi quattro. E sì, davvero viviamo da sole e davvero le coppie stanno insieme senza sposarsi e le spese si dividono. Lo stupore con cui ci ascoltano racconta in fondo di una realtà non così distante da quella che abbiamo conosciuto dai nostri nonni, eppure, ora, tutto questo avviene mentre Roohangiz, il figlio, lascia che sullo sfondo scorrano le immagini di video musicali non iraniani, e donne in bikini guidano anche loro, donne dell’Iran, loro nascoste dietro i loro veli, nell’immaginario che segna e informa il corpo femminile occidentale.

È forse per questo che ci guardano così tanto? Siamo, ai loro occhi, quella cosa lì che hanno incontrato attraverso la televisione? È questa l’idea che hanno della nostra libertà?

Ce lo siamo domandate per le strade di Teheran, sorridendo del loro chiederci una foto insieme a loro – donne, ragazze, famiglie intere – e facendo del nostro essere dive fotografate cento volte al giorno uno dei leitmotiv del viaggio.

 

Tantissime le donne, per le strade, con i segni evidenti di una recente rinoplastica, Eisfahan; ph. centochilometri

 

Gholamreza, in farsi, sussurra qualcosa a Shahrzad. Il marito spiega che la moglie ci ritiene fortunate: studiamo e poi possiamo trovare un lavoro. In Iran le cose non vanno così. Quasi viene naturale rispondere che il lavoro ora in Italia non è così immediato, ma il pensiero corre più veloce della voce, ed è facile capire come il punto non sia questo: solo il quindici per cento delle donne, lì, riesce a trovare un impiego, e le donne hanno sì la possibilità di studiare, senza che tuttavia ci sia il che cosa, dopo.

 

Eppure lo sguardo di Mahsa contiene molta più vita di quella che è assegnata alle donne del suo paese, vuole fare medicina e sarà medico, sta scritto in maniera così evidente nei suoi gesti, nella devozione e gratitudine con cui si rivolge al padre, con cui si illumina parlando delle sue tradizioni, che si mescola alla curiosità con cui vuole toccare la nostra differenza, fermarla, custodirla.

Mi domando, guardandola, per quanto ancora questa terra conserverà questa luce magica e spaventosa insieme, cosa accadrà, quale sarà il frutto di questa spinta tutta femminile che impregna le loro domande: posso scrivervi? Posso lasciarvi il mio numero? Sul diario che mi porta le scrivo che la aspetterò a Milano, lei disegna il mio quaderno rosso di parole in farsi il cui significato non ricordo, ma so che questa pagina contiene da qualche parte una preghiera per me, perché io sia al sicuro. Ritorna, questa sicurezza, questa protezione, in ogni loro augurio.

Al sicuro: Shahrzad ci guarda con lo sguardo basso, ribadisce con le parole che la sua famiglia ci ha accolto, ribadisce quello che abbiamo sentito rannicchiate sopra questo tappeto grande. Ci raccomanda, con un po’ di pudore, di non mettere alcuna fotografia delle sue figlie e della moglie sui social network: in Iran sono bloccati, anche se tutti conoscono il sistema per aggirare il blocco. La bellezza di quelle donne fermata dalle immagini, la complicità con il padre, la loro voglia di capire, la terremo per noi e con noi.

 

Nel pullman che a Teheran ci ha portato verso la Torre Azadi – la torre della libertà, simbolo della città, fatta costruire da Reza Pahlavi nel 1971 – in piedi, nel caldo, nella parte riservata alle donne, circondate da una distesa nera di chador e qualche ḥijāb colorato a coprire del tutto i capelli, a pochi metri da noi delle ragazze ci guardano. Hanno tra le mani telefonini di ultima generazione. Parlano tra loro, tornano a guardarci: i piedi, poi il volto, poi i pantaloni. Osservo, a quella distanza ravvicinata, la cura con cui sono truccate, con cui gli strati di abbigliamento che indossano si alternano gli uni sugli altri, con cui il velo è fissato alla testa. Intensi i profumi. Si voltano di nuovo verso di noi: ora ridono, ora cercano qualcosa, ora commentano. Fotografano, prima di nascosto, poi senza timori. Una tra loro si rivolge a me, in farsi, con fare sicuro. Non capisco una parola e non intendo il tono: scherno, fastidio, ammirazione. Mi guarda e poi distoglie lo sguardo. Ricambia il mio sorriso ma non so ancora cosa, il suo, contenga. Poco oltre una donna si volta, rimane agganciata al sedile per non cadere: che ci fate in Iran? E siete davvero voi soltanto? L’Iran, dice infine con tono grave, in un inglese che diventa d'improvviso sicuro, non è un paese per donne.

È un paese bellissimo, vorrei dirle. Ma so che sta dicendo qualcosa di molto diverso. Sto in silenzio e la guardo e i miei pantaloni rossi mi sembrano troppo colorati.

Non c’è libertà per le donne qui, penso.

 

Credo sia questo il pugno nello stomaco, il sentire noi stesse il nostro corpo come differente, il trovarsi a immaginare come guarderanno loro queste tue possibilità. Come in una fiaba di iniziazione. Del resto mi domando quanto sia il loro sguardo, mescolato al mio sapere sottratte alla visione le forme del mio corpo, a permettermi ora di sperimentare una qualche libertà dai miei vincoli, certo meno coercitivi. Perché è proprio tra queste strade che io, soggetta a un’altra tirannia del corpo tutta occidentale, mi riscopro così capace di guardare? Così soggetto di sguardo molto più che oggetto di visione?

 

Dina, in metropolitana, in uno di quei vagoni ‘women only’ pieni di ambulanti che vendono dalle calze ai veli, dai trucchi ai gioielli, in sole quattro fermate non ci ha solo domandato se davvero fossimo quattro donne sole e se non avessimo paura, ma ci ha guardate con infinita ammirazione: donne avventurose, ci ha chiamate. Quando ormai si annunciava la nostra fermata Emam Khomeyni, Dina, quasi sottovoce, ha concluso che avrebbe voluto che non scendessimo: ci avrebbe perso di vista. Quattro fermate di metropolitana per lasciarci il numero di telefono e un pezzo di cuore. Quattro fermate di metropolitana e mi ritrovo qui, ora, a scriverle.

 

 

Fotografate tra Shiraz e Persepoli; ph. Alessandra De Piante

 

L’enigma dell’innocenza e dello stupore. Credo sia questo tra queste vie a far germinare qualcosa che sembra una nuova possibilità. Rappresentiamo l’occidente. L’altro.

Chiunque conosca anche solo una parola in inglese chiede se possa esserci utile, e non è solo quel gesto di gentilezza a sorprenderci, lo scarto culturale è nel numero di persone che attorno a questo gesto si raccolgono. Il marciapiede si ferma. Noi, le nostre vesti colorate, i capelli che ricadono sulle spalle, la cartina in mano, uno di loro che indica gesticola traduce e mette in campo tutta la sua disponibilità. E gli altri, tanti altri, attorno. Il tramite, colui che conosce il codice per parlare con noi, può raccontare loro qualcosa, può capire, svelare il segreto che ci portiamo addosso. Ogni sguardo è desiderio, tiene insieme l’ammirazione e la paura, la voglia, il contagio, la difesa, l’aggressività.

Eppure gli occhi, forse, danno più di quel che rubano, sempre.

 

Non è un paese per donne, l’Iran.

Eppure è un paese dove la curiosità, l’accoglienza e la gratitudine autentica, regalano speranza, nonostante le aberrazioni culturali che lo attraversano.

È il paese di Masume, l’Iran. Una donna con il suo chador nero, solo una striscia di verde nella fascia attorno al volto, la cui voce ci ha guidato nella bellezza di Shah Ceragh, la tomba dei figli di Musa al-Kazimd, settimo imam sciita, luogo di preghiera.

 

Donne che pregano a Shah Ceragh, Shiraz; ph. Francesca Ledda

 

Masume ci racconta che ama il suo chador: la sorella più piccola ha scelto di non indossarlo ma lei sente di essere anche questa veste, questa devozione di cui parlano i suoi luoghi. Studia perché ha un test importante da passare – anche lei vuole essere medico, nonostante abbia alle spalle un percorso differente –, e tuttavia qualche ora al giorno accompagna i turisti tra queste vetrate colorate e questi mosaici. Masume, che i suoi familiari chiamano Maria – siamo allora tutti da qualche parte la stessa storia – ci segue al di fuori delle porte azzurre di questo santuario che toglie il fiato, percorre le strade della sua città a ridosso del muro, per stare in ombra, e ci accompagna per la moschea e i bagni di Vakil. Ci chiede di noi, del nostro lavoro. Ci si rivolge chiamandoci amiche, e domanda se crediamo in Dio: saremo sempre le benvenute, anche senza alcuna religione. Figlie della stessa umanità. Le sue parole danno consistenza a quell'altro mondo né sensibile né concettuale - al di là dell'Essere e del Conoscere - di cui scrive Corbin. Ci saluta, Masume Maria, lasciando nella mano di ognuna di noi delle parole su un foglio di carta e il quadrato di argilla, turbah, su cui i credenti appoggiano la testa – prosternarsi su terra pura – per pregare Allah. Argilla siamo e argilla torneremo; argilla di Kerbala, in Iraq, città santa sciita dove è avvenuto il martirio del Imam Al-Husayn.

 

Sheikh Lotfollah mosque, Esfahan; ph. centochilometri

 

Per le strade della nostra città il volto insopportabile della condizione femminile che fa da sfondo a tutto quello che abbiamo incontrato, lontano dalla fascinazione per la differenza, si fa più evidente e violento. Resta addosso il ritmo che ci ha condotto tra gli intarsi che compongono quelle esplosioni di luce e bellezza che abbiamo sfiorato con le dita.

 

Torniamo con il nostro piccolo quadrato di argilla: la testa nella mano, il corpo che guarda.

 

@aminuscolo

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