1960-2020 / Maradona. El niño e la palla di stracci

26 Novembre 2020

Quando nell’agosto del 1979 morì Giuseppe Meazza – il più forte calciatore della prima metà del Novecento, secondo quelli che avevano avuto la fortuna di vederlo giocare – , Gianni Brera, che giovanissimo cronista lo aveva visto “toreare” i portieri avversari all’Arena Civica di Milano, sulle colonne di “Il Giornale” intitolò il suo commiato: «Meazza era il fòlber». Ovvero il football, il calcio, però nell’idioletto lombardo che accomunava, nel profondo della loro storia e cultura, il campione Peppìn e lo scriba Gioânnbrerafucarlo.

Ieri, 25 novembre, anno di disgrazia 2020, giorno della bastarda morte di Diego Armando Maradona, un titolo simile, e un pezzo all’altezza di quel compito, l’avrebbe dovuto scrivere Osvaldo Soriano, se non se ne fosse andato ben ventitré anni prima del suo amico. «Maradona era il fútbol»: ovvero, anche qui, il football, il calcio, nella sua più pura declinazione latino-americana, passione e fantasia, pueblo y garra charrua. Ma anche il fútbol che raccontava Soriano, quello delle partite interminabili contro avversari che duravano una vita. E che della vita aveva l’insostenibile imperfezione.

Maradona è stato tante vite, tutte imperfette. El Niño indio con la palla di stracci per i barrios di Villa Fiorito. El Pibe de oro che a meno di sedici anni faceva il suo esordio in prima squadra con l’Argentinos Junior (in quegli anni Soriano scriveva a Giovanni Arpino che c’era un formidabile diciottenne, «il più grande giocatore – anche se basso di statura – degli ultimi trent’anni» che sarebbe stato la salvezza del Torino; «costa credo 5 milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Poi non dite che non vi avevo avvertito»). Quindi una chiomata minaccia in maglia albiceleste frenata, con le buone o con le cattive, dal “feroce Saladino” Gentile ai Mondiali di Spagna dell’82. E ancora, l’anno dopo, l’imprendibile, irritante folletto del Barcellona a cui un difensore basco, Andoni Goikoetxea – un nome, un rumore – spezzò una gamba con un intervento da codice penale. Fino all’apoteosi di Napoli, dove il Re scugnizzo venne incoronato, idolatrato, adulato, corrotto e poi perduto: 1984-91, sette anni di splendori e miserie, per il nuovo Masaniello che si fece simbolo consacrato del riscatto popolare di una città con le armi di un pallone.

 

Diego usava i piedi come le mani e, quando serviva, le mani come i piedi: al Mondiale del Messico, il 22 giugno del 1986, al minuto 51’, preludio al goal più spettacolare della storia del calcio – un capolavoro prestipedatorio che iniziò sessanta metri lontano dalla porta e seminò lungo quel sentiero luminoso, favolosamente, come i sassi della fiaba di Pollicino, mezza dozzina di allibiti giocatori inglesi per poi, al fin della licenza, toccare depositando irridente la palla alle spalle del portiere – arrivò con la mano laddove non poté arrivare la cabeza dei suoi scarsi 160 cm. A chi si scandalizzò per la palese ribalderia, Maradona replicava con la sfrontatezza sincera di chi sapeva di essere in missione per conto di qualcuno lassù in alto: «È stata la mano di Dio». Per inciso, quei Campionati mondiali, El Diego, li vinse quasi da solo, grazie a quella forza mesmerica che sapeva trasferire ai compagni, anche ai più mediocri o anonimi, tramutandoli in irriducibili guerrieri.

 

Gol di mano

 

Gol del secolo

 

Quindi è stata una vita tossica e maledetta. Quella che lo ha estromesso in modo brutale dal grande circo del calcio. Figura scomoda, irriducibile, esagerata e arrogante, irriverente rispetto a tutti i poteri, è stata messa al bando dall’establishment che stava alacremente lavorando a trasformare il football da bislacca e sanguigna passione popolare in prodotto preconfezionato del consumo di massa. Uno come Maradona non poteva essere previsto nel pacchetto dell’offerta commerciale: troppo ingombrante, impresentabile, scandaloso, non omologabile. Improponibile che quella macchina erogatrice di gioia non accettasse di avere un tasto on/off che altri potessero manipolare in cambio di un’anima in vendita, diritti di sfruttamento dell’immagine compresi.

 

La morte di Maradona è il De profundis di quel calcio che non esiste più e che, seppur perbenista e ipocrita, ammetteva le eccezioni, le tollerava. Cosa sarebbe oggi Maradona, che parlava la lingua della folla, che ne interpretava gli umori multiformi, che ne traeva l’energia per restituirla poi sotto forma dell’effimera magia di un tiro, necessariamente mancino, che sapeva dribblare il mortifero conformismo delle apparenze, cosa ci sarebbe stato a fare Maradona nel football contemporaneo a un passo dall’implosione o dalla sua mutazione asettica in gioco virtuale per distanziati sociali?

A pensarci bene, dire che «Maradona era il fútbol» è davvero troppo poco. Basti pensare alle decine di canzoni a lui dedicate, da Manu Chao a Pino Daniele, dai Mano Negra a O reggae ‘e Maradona di Valerio Jovine; ai film, alle fiction e ai documentari a lui ispirati, da Marco Risi a Emir Kusturica, fino al recente biopic di Asif Kapadia o alla miniserie Netflix Maradona in Mexico o al prossimo film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio, che torna a girare a Napoli dopo vent’anni dall’esordio.

 

 

 

 

Non si può, in effetti, non pensare a Napoli in queste ore, e a cosa starà accadendo per le strade della città in cui, grazie all’iconografia murale, di Maradona era già stata celebrata un’agiografia ante mortem. Corre da tempo un aneddoto, forse leggendario, sulla percezione della sua figura anche nelle generazioni per le quali El Diego non può che essere solo una memoria tramandata. Due ragazzini giocano a pallone per i vicoli e le piazzette della città. A un certo momento si fermano col pallone sotto braccio a guardare due grandi murales, uno a fianco all’altro. Uno dice all’altro: «Chill’è Maradona, ma l’altro… chi è?». L’amico, con l’aria di chi la sa lunga risponde guardando prima Che Guevara e poi l’amico: «È ‘o tatuaggio ‘e Maradona».  Poi riprendono a giocare.

Quelli come noi, che per anni sono rimasti incantati a seguire le traiettorie balistiche e umane di Diego Armando Maradona, e che poi hanno continuato, ostinatamente e nonostante tutto, a coltivare il fútbol come quotidiana riconquista dell’infanzia, oggi hanno abbassato gli occhi dal cielo e sono scesi, forse per sempre, dalla giostra.

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