Sub tegmine fagi / Lode al faggio

30 Agosto 2020

Non so voi, ma quando lo vedo mi sovviene immediato l’attacco martellante della prima ecloga virgiliana, con il fortunato Titiro, disteso sotto la grande ombra del faggio, zufolante il nome della bella Amarillide, alla faccia del misero Melibeo costretto ad abbandonare le proprie terre per un’iniqua decisione politica: Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi … Potere della poesia mandata a memoria e oggi, ahinoi, cenerentola della didattica scolastica.

 


Ben scelto da Virgilio per il rezzo della sua folta chioma globosa, il Fagus sylvatica è un’essenza importante della nostra vegetazione boschiva. Mario Rigoni Stern dice di lui che «si costruisce e conserva la foresta» perché corrobora il terreno di nutrienti, terreno che predilige fresco e sciolto. Un albero di grande impatto estetico, isolato o in gruppo, e perciò presenza certa di parchi e giardini, nelle sue molte varietà: tra queste la più diffusa è la purpurea dalle foglie rosse fin anche atre, la tricolor porta invece lamine striate di rosa, l’asplenifolia le esibisce incise e lobate, la pendula ha i rami secondari dal portamento plorante mentre la fastigiata si innalza stretta a cono.

 

Bello il faggio anche per il colore della corteccia d’un grigio liscio e pastoso, per lo slancio dei rami ascendenti e l’esuberanza delle fronde, per le lunghe gemme affusolate, le foglie ovali dal margine sinuoso d’un giovane verde erbaceo che si fa lucido e scuro a stagione inoltrata, e per le capsule dei frutti. Osservate d’estate una cupola fruttifera aperta: le quattro valve, spinosette all’esterno ma seriche nell’intimo, contengono due noci a base triangolare leggermente elicoidali (faggiole) allogate in perfetta simmetria geometrico-architettonica. Il suo nome pare sia da ricondurre alla radice indoeuropea bhak-šati (mangiare) proprio per questi suoi frutti eduli – da cui anche il termine inglese beech e il tedesco buchen – che produce in gran quantità e alimentano molti animali del bosco.

Al faggio rosso ha dedicato un componimento un bravo poeta contemporaneo, Jan Wagner, che ho scoperto da poco e mi piace assai perché usa una lingua amichevole, attenta alle minuscole del quotidiano, oltre che al mondo vegetale e animale, e per le clausole inattese. E poi, fa pure le torte!

 

 


Il faggio rosso

 

ci fu d’un tratto un tale silenzio che

sentii montare la torta, l’impasto con le uvette

nella mia cucina e in tutte le cucine

del mondo tutt’intorno, le lancette

 

ticchettare. altrimenti, nessun rumore –

eccetto il nero che lieve vibrava alla

finestra, il minuscolo allarme

in chitina della mosca, la sua campanella.

 

nessuno in dispensa, solo il barlume delle fredde

vetrate di conserve sugli scaffali;

vuoti i bagni, il salotto, le camerette

dei bambini, nel capanno degli utensili

 

uno spettro d’erba vecchia. chiusi l’uscio

e camminai lungo cinte di legno calde

di sole, raddoppiate dal profumo, uscendo

dal villaggio, accanto a campi, pascoli, laghetti,

 

per un bosco (le mie mani infarinate

ancora) e fino a quell’albero, che dal

prato s’innalzava come da un dormiente

un sogno, un taj mahal

 

di foglie e venti, una pagoda in fiamme,

uno splendore, e al suo interno poi le squillanti

risa sopra di me, le fronde stracolme,

quando guardai all’insù. e là sedevano tutti.

 

(Il faggio rosso, in Variazioni sul barile dell’acqua, trad. di F. Italiano, Einaudi 2019, p. 92-93)

 

Albero socievole, coabita felice con altre latifoglie, quali aceri, frassini, tigli, olmi montani, e conifere come abeti, larici e tassi; ma forma anche foreste pure (le faggete). Il Parco Nazionale delle foreste casentinesi contempla sia il bosco misto sia la faggeta, quella di Sasso Fratino, un lembo di «foresta vetusta», inserito tra i beni del Patrimonio dell’Umanità Unesco, dove vegetano esemplari pluricentenari. Foresta sacra: gli alti fusti colonnari dei faggi, maculati dai più chiari licheni e con i piedi allungati nell’umidore della vellutata coltre di muschio, definiscono un templum, un’area naturale dove il sacer trova la sua manifestazione più immediata, arcaica, primordiale: tant’è che San Romualdo scelse questi luoghi per meditarvi e fondarvi con i confratelli benedettini l’eremo di Camaldoli.

 

 


Bello e buono il faggio. Buono per il legno dai molti impieghi (ne parla con contezza Rigoni Stern), e per le virtù toniche e digestive delle foglie in decotti e infusi. Dai fenoli della corteccia si ricava poi il creosoto, dalla preziosa azione antisettica e disinfettante.

 

Qualora ve ne fosse bisogno, un’altra utile ragione per avere un faggio in giardino sono le foglie: quando cadono, forniscono un’eccellente pacciamatura. Ma abbiamo ancora l’autunno davanti a noi, da godere con i suoi colori: il faggio si vestirà di un giallo caldo e di un gaio marrone, i giovani esemplari si terranno a lungo strette le foglie sui rami per proteggere i germogli per poi, al momento giusto, abbandonarle per le nuove. È questo il momento preciso, e raro, colto dalla penna di Hermann Hesse. Ecco la pagina che vi darà modo, il prossimo inverno, di esercitare più a fondo lo sguardo, e con esso il pensiero:

 


 



«Mi ha sempre rallegrato e impressionato la tenacia con cui il mio piccolo faggio tiene strette le sue foglie. Quando tutto è spoglio da un pezzo, lui indossa ancora il suo manto appassito; per tutto dicembre, gennaio e l’intero febbraio gli si scaglia contro la tempesta, gli cade addosso la neve che poi si scioglie goccia dopo goccia. Le foglie rinsecchite, dapprima d’un color bruno cupo, diventano sempre più chiare, più sottili e setose, ma l’albero non le cede, devono coprire i giovani germogli. Poi, in primavera, ogni anno più tardi di quanto ci si aspetti, un giorno l’albero si trasforma, perde il vecchio manto e al suo posto mette i nuovi, teneri germogli con le gemme umide. […]

E oggi, mentre me ne stavo al mio fuoco a spaccar legna e regnava una lieve e tiepida bonaccia, vidi che accadeva: si levò un leggero e mite alito di vento, un respiro soltanto, e a centinaia, a migliaia le foglie così a lungo serbate furono soffiate via, in silenzio, leggere, docili, stanche della loro tenacia, stanche della loro caparbietà e del loro valore. Ciò che per cinque, sei mesi aveva opposto una strenua resistenza, soccombette in pochi minuti a un nulla, a un alito, perché era giunta la sua ora, perché l’amara tenacia non era più necessaria. Il fogliame si disperse di colpo, svolazzando, sorridendo, pronto, senza lotta. Il venticello era troppo debole per portare lontano le piccole foglie così leggere e sottili, esse caddero come una pioggerella fine e coprirono il sentiero e l’erba ai piedi dell’albero, che aveva già dischiuso alcuni verdi germogli. Che cosa mi si era rivelato con questo misterioso e commovente spettacolo? Era la morte, la morte del manto invernale che si era compiuta lievemente, con arrendevolezza? Era la vita, l’incalzante ed esultante giovinezza dei germogli, che si era fatta strada con una volontà ridestatasi all’improvviso? Era triste, era rasserenante? Era un monito a me, il vecchio, a lasciarmi sollevare dal vento e cadere, un monito, poiché forse sottraevo lo spazio a chi era più giovane e più forte di me? O era un’esortazione a tener duro come il manto del faggio, a stare saldo sulle mie gambe con tenacia fin tanto che fosse possibile, a oppormi e a difendermi, perché poi, al momento giusto, l’addio sarebbe stato lieve e sereno? No, era, come ogni visione, un’epifania dell’immenso e dell’eterno, della coincidenza degli opposti, del loro fondersi nel fuoco della realtà. Non significava nulla, non esortava a nulla, anzi significava tutto, significava il segreto dell’essere, ed era bello, era felicità, era senso, era per lo spettatore un dono e una scoperta, come lo è un orecchio colmo di Bach, un occhio colmo di Cézanne» (Il faggio, in Il canto degli alberi, trad. di M. G. Galli, Guanda 1992, pp. 11-14).

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