Conversazione con Matteo Marchesini / Tre novelle sulle false coscienze

5 Aprile 2017

Matteo Marchesini, scrittore alle soglie dei quaranta anni (è nato nel 1979 nella ricca provincia rossa tra Modena e Bologna, a Castelfranco Emilia, e vive a Bologna), sta provando a disegnare su vari fronti la commedia umana di una generazione, ambientando le sue prove narrative molto spesso in una Bologna ritratta senza fare sconti a fissazioni, stereotipi, aspirazioni mainstream travestite sotto vesti alternative, popolandole di giovani uomini che conservano qualcosa della precarietà esistenziale un po’ picaresca dello studente universitario. Così avviene nell’ultimo libro, False coscienze. Tre parabole degli anni zero, un trittico composto da tre racconti lunghi uscito di recente da Bompiani. Il titolo esemplifica uno degli impegni maggiori del Marchesini scrittore, che in campi differenti si cimenta con la ricerca e lo smontaggio delle note fasulle nelle lettere, nella vita, nell’azione pubblica. 

 

Critico con una avversione tutta particolare per quei suoi concittadini che hanno scelto la scorciatoia di consumo del poliziesco all’italiana e per gli scrittori che si divertono a fare gli epigoni bamboccianti di qualche stile che ha avuto sussulti di moda, ha una spiccata propensione alla polemica e alla risistemazione, come si arguisce dal suo studio sul Novecento Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet 2014). In quello studio, composto per ritratti e panoramiche come un polittico, si ritrae la tendenza di vari protagonisti delle patrie lettere a slittare dagli ambiti della creazione fino a trasformarsi in personaggi, in una storia che, anziché demitizzare “i canoni ricevuti da un Novecento in cui sempre più equivoca si era fatta l’influenza di media e università di massa”, tende a mitizzare il presente, “imponendo un’enfatica quanto improbabile canonizzazione di prodotti dal valore non estetico ma soltanto sociologico”. Per Marchesini la sfera critica, presieduta da numi tutelari che hanno combattuto il tartufismo intellettuale, da Chiaromonte a Garboli, da Fortini a Berardinelli, è aperta anche a un’attività giornalistica di corsivista: memorabili sono i suoi pungenti viaggi nei paesaggi urbani e culturali bolognesi, alla ricerca di vezzi, vizi, ma anche di ricchezze dimenticate, pubblicati sul “Corriere di Bologna” e poi raccolti nel volume Bologna in corsivo (Pendragon 2010). Sono aspetti dell’attività della scrittura complementari a quelli creativi, praticati come poeta e testimoniati dal recente Cronaca senza storia (Poesie 1999-2015) (Elliot 2016), come romanziere con Atti mancati (Voland 2013), finalista al premio Strega, come autore di racconti, dal volume di esordio Le donne spariscono in silenzio, (Pendragon 2005), a quest’ultimo. 

 

Lo incontro per parlare di False coscienze in un bar di via Marconi, un asse viario che a Bologna porta dal centro storico verso la stazione, e non riesco a non pensare al suo corsivo per il “Corriere” che descriveva la via: “È inutile: via Marconi non incontra il suo destino. Già negli anni trenta, quando si chiamava via Roma e un gruppo di architetti ambiziosi le cambiò la faccia, la Storia si preparava a coglierla in contropiede. Di lì a poco, le bombe sfigurarono la zona nord-ovest della città. E dopo, come un’atleta di belle speranze ridotta a scialba zitella, si ritrovò annegata in quel plumbeo autunno urbanistico che nel tratto tra Porto e Lame somiglia una malattia cronica. Questo squarcio aperto dalla modernità positivista in un guazzabuglio di canali e di tuguri continua a espiare le sue origini violente: e se fruttò un po’ di igiene e qualche capolavoro architettonico, non riuscì a offrire una vera identità al mix di razionalismo, resti umbertini e mediocrità piccolo borghese che ha sotterrato la vecchia Bologna […]”.

Bene, in uno di quei rari bar “che prendono un’aria tra pacchiana e sordida, da night o da stazione”, inizia la nostra chiacchierata. 

 

C’è un filo rosso che lega i tre racconti, oltre all’ambientazione in diversi luoghi di Bologna, la periferia, il centro storico e la cittadella universitaria, la morandiana via Fondazza?

 

Sono tre racconti lunghi, stratificatisi nel tempo, che, se pure non nascono come romanzo a pannelli, hanno una sorta di magnete che li tiene insieme. Descrivono situazioni diverse con personaggi simili: giovani adulti che vivono l’adolescenza prolungata di chi è cresciuto tra i due secoli. In situazioni diverse tutti narrano modi fallimentari di porsi davanti alla realtà. Il primo, Eröffnungsfeier, festa di inaugurazione, entra in una cena in una nuova casa e in una situazione di coppia in crisi, il tutto è visto attraverso l’occhio dell’io narrante, il padrone di casa che sente disgregarsi il suo ménage. Il secondo, Rapida ascesa di B. Lojacono, raccontato da un personaggio laterale, ci porta in una storia di apprendistato culturale. L’ultimo, La voce del coniglio, narrato in terza persona, presenta un personaggio avvicinabile al protagonista del primo episodio: qui un figlio torna a casa dalla madre malata e come in passato tra i due subito riprende una lotta tesa, astiosa, piena di ricatti. 

 

Perché dopo il romanzo pubblicato per Voland ritorni alla forma del racconto?

 

Mi sono reso conto che il racconto lungo, o “romanzo potenziale stenografato”, offre una dimensione e un tipo di densità che mi sono congeniali. Sono quelle di opere che sento vicine, come la raccolta di Moravia L’imbroglio, pubblicata negli anni trenta. Nel mio libro si sente molto una afosa condizione di scacco, articolata in tre diverse situazioni, la coppia, la vita culturale, il rapporto madre-figlio e più in generale le relazioni familiari. 

 

 

Le storie si sviluppano in una Bologna alquanto cupa, perfino sinistra in certi momenti…

 

Vivo a Bologna e l’ambientazione non è una cosa che si possa scegliere del tutto. Cassola si può trasferire ovunque ma nelle sue pagine senti sempre Cecina o Volterra. Il primo racconto si svolge in periferia. Nel secondo si respira una certa atmosfera culturale della città, trattata con accenti satirici. Il terzo ha i colori di via Fondazza, dove si trovava la casa-studio di Giorgio Morandi: è asfittico, pastoso, ha colori che mi sembrano insieme saturi e malinconici.

 

In Eröffnungsfeier siamo in una festa, e all’io narrante, durante la celebrazione di quel rituale di gruppo, sembra sgretolarsi la relazione affettiva nella quale vive da tempo…

 

In apparenza un gruppo di amici si ritrova per l’inaugurazione della nuova casa di una coppia. Tutto è considerato nel rimuginio dell’io narrante, che vede la festa concludersi con l’abbandono della sua compagna, che il giorno dopo partirà prendendo un aereo. Nella serata appare anche quello che il narratore vive come un possibile avversario erotico. Ma ci sono vari altri personaggi tra i trenta e i quaranta anni e il relativo chiacchiericcio salottiero. A un certo punto, appare anche una generazione diversa: il protagonista proietta la propria vita di coppia in quella diversamente solida di due vicini di casa, due bolognesi anziani, che parlano in dialetto, tipici abitanti di una periferia di ex operai specializzati.

 

Crei diversi tipi, l’amico esuberante, placidamenete mitomane, con la ragazza che gli va dietro “con la timidezza di certi cani che si fanno troppo imponenti per poter fare feste gradite agli amici dei padroni”, con l’altro amico dal linguaggio ancora pieno di stereotipi adolescenziali; poi arrivano il rivale documentarista, artistoide, seducente, e con lui l’efebica Vera. Forgi un relativo birignao che si rivela in discorsi sulla cucina, sul cinema, sull’e-comicità, sulla vita quotidiana… con vezzi linguistici standardizzati con pretesa di originalità “smart”, come certi mobili Ikea dell’appartamento… Poi introduci i due vecchi vicini, e fai irrompere con il loro cane una piccola tragedia di strada che imprimerà una svolta imprevista alla serata…

 

Credo di far parlare queste figure come nella realtà. Chiacchierano. Nella narrativa italiana di solito i personaggi si esprimono secondo i canoni di un supposto minimalismo carveriano oppure, da iper-scolarizzati, con una brillantezza coatta. Io cerco di cogliere sotto la conversazione le elusioni, il gioco degli sguardi, dei corpi, con la coscienza che ognuno dei gruppetti che si forma via via rivela tensioni. Come diceva Manzoni della Storia: “Non resta che far torto o subirlo”. E quello succede qui nei rapporti intimi, “da camera”: si disegnano campi di forze, o almeno così li percepisce l’io narrante.

 

Chi è Astolfo Bordiga, il mentore del gruppo di apprendisti intellettuali del secondo racconto? 

 

Il tono di questo episodio è satirico, ironico, umoristico ma anche, ai miei occhi, particolarmente cupo. È una storia di apprendistato culturale, letterario, in un cenacolo dominato da un professore, e qui puoi leggerci Bologna con i suoi clan intellettuali. Astolfo Bordiga è una reincarnazione del Tartufo di Molière, nel senso in cui lo rilegge Cesare Garboli: un individuo che mette il suo progetto di potere al riparo della cultura. Vuole avere tutti gli onori e i tributi dovuti al padre, mantenendo l’irresponsabilità del figlio.

 

Si chiama Astolfo come il fantastico paladino ariostesco che vola sulla luna a recuperare il senno di Orlando e Bordiga come il capo della frazione settaria del Pci delle origini?

 

Proprio così. È un nome che ritorna nelle mie cose dalla presistoria. A quindici anni feci leggere a Roberto Roversi un raccontino, La lepre, in cui già compariva un personaggio che si chiamava così. Bordiga è fintamente ariostesco, ma in realtà è un mandarino. Però poi succede che chi come lui ha progettato una forma di dominio sulla realtà sia messo in crisi, doppiato, battuto dalla realtà, da una realtà sempre più avanti di chi crede di controllarla. Lui ha sempre fatto finta di educare i suoi giovani allievi, di stimolarli… In realtà vuole coltivare intorno a sé ciò che è innocuo. Ma uno dei suoi protetti, il più stolido, B. Lojacono (Marchesini non lo gratifica neppure di un nome, ndr), gli sfuggirà, lo scalzerà con un inaspettato successo editoriale.

 

Possiamo riconoscere qualcuno dietro questa figura, magari qualche luminare della città universitaria?

 

In lui, maestro traditore e furbescamente schizofrenico, credo di aver condensato vari atteggiamenti diffusi. Riprendendo un brano dai diari di Guido Morselli possiamo dire: “Vogliono essere Catoni e allo stesso tempo enfants terribles”. Con lui siamo nel massimo di falsa coscienza. Noi siamo circondati dagli Astolfo Bordiga: stanno in agguato dentro qualunque lavoro culturale, compreso il nostro. Poi, certo, il racconto si può leggere anche come una piccola radiografia dell’ambiente bolognese.

 

Nell’ultima storia, quella che mi sembra la più dolorosa, siamo ancora, in altro modo, in quell’ambiente universitario. Il protagonista, Piero, è un ricercatore precario con una storia di depressione. Si è trasferito da Bologna a Milano, forse anche per scappare dalla madre e dai fantasmi familiari. Tornato a trovare la donna, ricomincia il ciclo dei ricatti materni e delle fughe filiali, che si scatenano in un vero e proprio atto di violenza finale, con la partenza improvvisa di Piero verso una meta ignota, casuale….

 

È letteralmente un corpo a corpo tra un figlio e una madre malata in cui viene fuori la storia dei rapporti trascorsi, la reciproca incapacità di sopportarsi nella durata che coincide con una sopportazione vischiosa, estrema.

 

In sintesi, cosa sono queste “tre parabole degli anni zero”?

 

Le storie di tre adolescenze prolungate, circondate da un mare nebbioso di irrealtà che si prosciuga solo attraverso il fallimento, il trauma. 

 

Come mai come scrittore alterni attività critica, poesia, narrativa?

 

È come una sorta di rotazione agricola naturale. Scrivo poesie quando ne sento la necessità, non cerco i versi. Con i racconti ingaggio quasi una lotta fisica: quando mi infesta una situazione o un personaggio, ho bisogno di fare tutta una tirata e di terminarli. Magari li lascio riposare dopo. Alla fine della scrittura mi sento come un attore che ha recitato in uno spettacolo lunghissimo. L’attività critica la metto sullo stesso piano delle altre: un critico (ammesso che io lo sia) è uno scrittore che, magari momentaneamente, descrive la realtà attraverso i libri. 

 

Ma tu riesci a vivere di letteratura?

 

Nell’ultimo decennio abbastanza, tra libri, editoria scolastica, testi su commissione e collaborazioni a giornali (“Il foglio”, il Domenicale del “Sole 24 Ore”, per anni il “Corriere di Bologna” ndr). Da qualche mese sono anche direttore tecnico della Università della terza età e del tempo libero Primo Levi, qui a Bologna. Mi piace l’ambiente, è ricco di stimoli, bello: le persone si iscrivono ai corsi perché ne hanno voglia, non c’è nessun secondo fine scolastico o astolfobordighista. Si viene per conoscere e discutere, cose che ormai si fanno poco. Il clima comunitario ricorda a volte quello di certe serate alla Bottega dell’Elefante, l’associazione fondata da Bollini al Pratello e poi purtroppo chiusa da qualche anno. 

 

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