Speciale
Parole per il futuro / Abitare
Parole-chiave: costruire-abitare-pensare, futuro, città, utopie/distopie, spazi, tecnologie, post-umano
Abiteremo la Terra nel futuro? e come, se le risorse naturali saranno state esaurite e il cambiamento climatico l’avrà resa inabitabile per noi umani? È il tema della miglior fantascienza distopica del XX secolo, da Dick a Lem, immortalata nei film-culto di Ridley Scott e di Andrej Tarkovskij, Blade Runner e Solaris. In quest’ultimo capolavoro soprattutto, il tema dell’abitare è pensato come interiorità, come stare a casa nel mondo. Per Kris, il protagonista, andare sulla stazione spaziale che sta in orbita sopra il pianeta Solaris significherà ‘ritrovare’ Hari, la moglie morta anni prima, ricreata dal pensiero di Kris e di nuovo viva – come una replica, una matrice – sotto forma di struggente ‘visitatrice’. “Non vogliamo altri mondi, vogliamo uno specchio” di noi stessi: questa frase di uno degli scienziati che abitano ormai da anni la stazione orbitante dice tutto. La nostra abitazione interiore, che siamo sulla Terra o sull’inquietante Oceano di Solaris, è fatta di ricordi, di umanità. E la protagonista Hari, prima di accettare l’annientamento che la farà scomparire per sempre, lo dice in modo commovente: “sto diventando umana”.
Invece il film Blade Runner sceglie di narrare l’abitare in senso esteriore: la città del futuro sarà una città a strati dove una neoplebe planetaria si addensa nei piani bassi (gli indimenticabili sottomondi abitati da asiatici, meticci, e replicanti) e l’élite nei piani alti delle torri della scienza e delle residenze di lusso. Ma anche qui il protagonista Rick Deckart, il poliziotto a caccia di androidi, si innamorerà della replicante Rachael cui sta dando la caccia e, in un finale hollywoodiano, i due usciranno dalla Los Angeles infernale verso un possibile nuovo mondo.
Anche Il nuovo mondo di Aldous Huxley immagina un futuro abitato da classi e sottoclassi geneticamente create, dal tipo alfa (il ceto dirigente) ai tipi beta, gamma, delta, epsilon (i gradini sociali inferiori) destinati a stare in sottomondi sempre più alienati, ma accettati e introiettati da tutti gli abitanti mediante un sistema di condizionamento sociale e psichico che non lascia loro scampo.
Alcune delle idee di Dick, Lem e Huxley sono state già seguite dalla realtà che abitiamo: la distopica città a strati immaginata nella Los Angeles 2019 non è molto diversa da quella odierna in cui convivono ricchezza e povertà estreme, la realtà virtuale e aumentata ha aggiunto alle nostre vite aspetti di straniamento e di isolamento che ricordano la claustrofobica stazione spaziale, i veicoli a guida autonoma in progettazione non sono ormai così lontani dai veicoli aerei della fantascienza. Soprattutto, chi guida il mondo delle tecnologie digitali – i Jeff Bezos, gli Elon Musk – ha in mente proprio quel mondo distopico, e lo sta realizzando. I due uomini più ricchi del mondo finanziano l’intelligenza artificiale che nei laboratori della Silicon Valley e negli istituti di ricerca di Oxford annunciano la superintelligenza, di umani e ibridi post-umani, destinata a colonizzare lo spazio.
L’ideologia che guida questi imprenditori e scienziati è la seguente: perché dovremmo preoccuparci del miliardo di poveri nel mondo, o del cambiamento climatico della Terra, quando i sistemi superintelligenti permetteranno di emigrare verso nuovi mondi nel giro di alcune generazioni? Nick Bostrom, il filosofo svedese che guida il Future of Humanity Institute di Oxford, lo dice nel modo più netto: con una tecnologia molto avanzata, una grande popolazione di persone che vive una vita felice potrà essere sostenuta nelle regioni accessibili dell’Universo. Per ogni anno che lo sviluppo di queste tecnologie e la colonizzazione dell’Universo sono rinviati, vi è un costo-opportunità: un potenziale positivo, vite che val la pena di vivere, non viene realizzato. In base ad assunti plausibili, questo costo è estremamente elevato. Dobbiamo noi utilitaristi, sostiene Bostrom, non tanto massimizzare la velocità dello sviluppo tecnologico, quanto massimizzare la sua sicurezza, cioè la probabilità che la colonizzazione sia infine realizzata. Non sfuggono infatti a Bostrom i rischi catastrofici globali cui siamo soggetti, e i pericoli che la stessa superintelligenza fa correre all’umanità. Il destino della nostra specie finirebbe per dipendere dalle azioni della macchina superintelligente. E controllarla con sarà facile, anche se la avremo costruita noi. Infatti una volta che una superintelligenza unfriendly, forse perfino ostile si sarà affermata, essa ci impedirà di rimpiazzarla o di modificare le sue preferenze.
Non so se Bostrom abbia mai letto “Costruire, abitare, pensare” di Martin Heidegger. In questo scritto del 1951 si spiegano l’origine e il significato stesso della parola abitare. Esso è andato perduto, ma coincideva con la parola costruire. Abitare significa aver cura, salvare la terra, soggiornare presso le cose. Vi è una quadratura intorno al concetto di abitare, i cui lati sono: salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali. Intorno a questa pienezza di significati Heidegger definisce la sua visione dell’abitare.
Solo un luogo (Ort) può accordare un posto (Stätte), lo spazio (Raum) si ordina e si dispone grazie al luogo. È la più ferma difesa del concetto di luogo che la filosofia abbia mai prodotto, proprio alle soglie dell’epoca globale che ha invece delocalizzato ogni cosa e vorrebbe ora sradicarci dalla Terra stessa. Ma che ne è dell’abitare nella nostra epoca preoccupante? si chiede Heidegger. E conclude: gli uomini devono imparare ad abitare, riflettere sulla propria sradicatezza.
Che è quanto anche altri pensatori di tutt’affatto diverso orizzonte, come la filosofa ‘mistica’ Simone Weil, avevano già posto al centro della propria riflessione sull’uomo. “In verità l’albero è radicato nel cielo” scriveva Simone negli ultimi mesi di vita (1943). Solo quello che proviene dall’alto ha l’energia di mettere in terra possenti radici, e questo sono le tre parole giustizia, verità, bellezza. Esse “abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime. Ed è questo ambito a essere sacro”. È un richiamo estremo a “essere radicati nell’assenza di luogo” rivolto al mondo d’oggi. Che invece ha scelto di essere sradicato. Sradicatezza perfino teorizzata dall’attuale epoca della globalizzazione, e infine spinta alle estreme conseguenze dagli ideologi dell’artificiale che ci invitano ad abbandonare la Terra.
Potremo invece abitare nel futuro società glocali intelligenti? In cui ogni sistema locale sia radicato, rispettato, e aperto al resto del mondo? E abbia pari dignità e riconoscimento, e sia in grado di veder circolare al proprio interno beni superiori come la giustizia, la verità, la bellezza? Che sfugga al privilegio che è sempre impari, anche quando si ammanta di intelligenza superiore e di innovazione?
Finora il progresso tecnologico-scientifico ha spinto verso la conquista di nuovi spazi (coloniali, marittimi, aerei) che hanno incrementato il Pil mondiale in modo estremamente squilibrato. Nel millennio appena concluso (1000-2001), il reddito procapite è aumentato di 18 volte di più in Occidente che nel resto del mondo. Questa crescita ha consumato risorse e concentrato popolazione in modo non più sostenibile. Nel 2001 il consumo procapite di energia primaria (tonnellate metriche di petrolio) era di 8 tonnellate negli Stati Uniti, 4 in Gran Bretagna e Giappone, 0.8 in Cina e 0.5 in India, 0.6 in Africa. Il modello urbano e automobilistico americano prevalente, sobborghi+commuting, ha consumato più risorse di ogni altro al mondo. La crescita dei paesi emergenti che sarà esplosiva comporterà l’assoluta necessità di cambiare il modello di sviluppo, di vita e di abitazione in Occidente come in Oriente, nelle metropoli ricche e nelle periferie povere del pianeta.
Da dove cominciare? Il fondatore di Songhai, Father Godfrey Nzamujo, ha creato trent’anni fa nel Benin un’impresa sociale che sviluppa agricoltura sostenibile (irrigazione che alimenta sia i campi che gli allevamenti, i residui di questi ultimi sono usati da fertilizzanti per i primi, etc.). Dice che bisogna creare un nuovo habitat. “Noi esportiamo ricchezza e importiamo povertà” egli denuncia, e questo è inaccettabile, ma è ancora oggi la regola in Africa e nei Sud del mondo. Il caso di Songhai, un deserto che è diventato in trent’anni un’isola di sviluppo sostenibile e di sicurezza alimentare e sociale, mostra la strada da seguire all’intera umanità.
Abiteremo quindi isole come questa? Isole sono anche quelle che nel finale del film Solaris sorgono nell’Oceano del lontano pianeta, dove il protagonista Kris incontrerà il padre nella dacia della sua infanzia. Sono proiezioni, utopie. Da sempre abitiamo queste isole, da quando Platone immaginò la mitica Atlantide, e poi Thomas More scrisse Utopia ambientandola nell’isola meravigliosa fatta di 54 città in rete. Abiteremo città fatte così, decentralizzate e decongestionate, solo debolmente connesse e capaci di autonomia, città-Quartiere e città-Isola: come era quella che gruppi immobiliari rapaci hanno trasformato a Milano in una ennesima speculazione edilizia.
Il deserto cresce, ammoniva Nietzsche. Abiteremo ancora le coste, che da deserti sabbiosi inospitali sono divenute (in Europa, in America, in Cina, ovunque nel mondo) le nuove città lineari, uno strato urbano che si vede dal mare senza quasi soluzione di continuità? O il mare sommergerà presto queste città, come ammoniscono gli esperti del cambiamento climatico? Ci ritireremo allora nell’hinterland, o sulle alture creando un misto di montagna urbanizzata, di industrie rurali, di luoghi botanici di costruzione, di architetture metereologiche che ci proteggano dalle ondate di calore e dalla siccità crescente. Abiteremo isole nel deserto, coltiveremo oasi strappate al deserto che cresce. È la strada indicata da Hannah Arendt, l’allieva di Heidegger, il cui pensiero politico si rivela oggi come il più importante nel secolo appena iniziato.