Clegg & Guttmann e Fitch & Trectain / Modernismo e post
Prima grande stanza, che ci si trova spalancata davanti appena si apre la porta: grandi immagini fotografiche sono proiettate sulle pareti, si vede subito che ritraggono importanti personaggi della cultura italiana otto-novecentesca perché si riconoscono i più famosi: di fronte c’è Segantini nel suo atelier, a destra Giovanni Papini nel suo studio e i fratelli Russolo con i loro intonarumori, a sinistra Bruno de Finetti al tavolo di una conferenza, Italo Svevo al Caffè Austro-ungarico di Trieste e l’anarchica Louise Michel nella sua camera da letto. Ogni immagine ha davanti dei mobili che ricostruiscono gli ambienti, ognuno con uno o più libri del o sul personaggio rappresentato. Al centro di tutto un salottino con divano, poltrone, tavolino con altri libri e oggetti. Da ogni ambiente emana una voce che legge brani scelti, tutti a voce alta, mescolandosi con un effetto teatrale riuscitissimo: è lo schiamazzo della Storia – prendo il termine da Dario Bellini, che lo intende proprio come grumo di voci e di idee che costituisce già di per sé l’argomento. L’installazione ha come titolo Modernismo italiano.
Seconda stanza al secondo piano: silenziosissimi ritratti a figura intera, singoli o di coppia o di famiglia – Clegg & Guttmann ce ne hanno proposti su questa linea regolarmente da decenni – su fondo nero da cui spiccano opere d’arte, di diverso tipo e stile, ma mi pare tutte di artisti dopo il Modernismo, per rifarsi al tema dichiarato della prima stanza; tra essi infatti riconosciamo almeno De Dominicis e Lavier. Dunque le persone ritratte sono dei collezionisti. Il contrasto è fortissimo, a tutti i livelli.
La terza stanza, al terzo piano, è doppia: entrando ci si trova in una sorta di anticamera dove sono appese delle “nature morte” – c’è dunque un lavoro anche sui generi – di oggetti fotografati all’interno di una scatola dalle pareti di carta argentata (che fa pensare alla Factory di Warhol, ma forse l’associazione è arbitraria): ci sono dei fiori in un vaso, delle mele in una ciotola, due bottiglie di Campari accostate in modo che le etichette formano la parola Campapari. I rimandi, molto meno diretti, possono essere ai girasoli di Van Gogh, alle mele di Cézanne, al Campari di Depero, altri artisti modernisti dunque, non italiani. Da qui si accede a una stanza dove sono proiettati quattro video uno accanto all’altro sulla stessa parete, in cui vediamo quattro persone che leggono, di nuovo tutti a voce alta assommandosi in un chiasso indistinguibile: su di loro sono proiettati fotografie degli autori dei testi che stanno leggendo in modo che i volti di questi ultimi si sovrappongano ai loro volti; sono Otto Weininger, Gustav Theodor Fechner, Gertrude Stein e Franz Kafka, e allarghiamo di nuovo il Modernismo ad altri contesti.
Il Modernismo dunque è il centro dell’esposizione, in tutte le sue componenti – arte, letteratura, filosofia, scienza, politica – e contesti – italiano, francese, mitteleuropeo – con al centro il collezionismo ritratto in maniera iconograficamente ottocentesca, ma con oggetti temporalmente e culturalmente “sfasati”, post-modernisti. Forse da questo si possono dedurre due domande almeno. La prima: il Modernismo ci appare inesorabilmente dall’oggi, cioè dal post? Forse addirittura come ci appare il post, cioè più vario e sfaccettato, meno omogeneo di quanto ci si figura quando si cerca una sintesi storica e di pensiero. Lo schiamazzo, come dicevo, la sovrapposizione e l’intreccio delle voci ne sono qui, più che il risultato, la cifra stessa. La seconda: il ruolo del collezionismo, che direi di snodo, proprio come lo è espositivamente, con il suo silenzio e il rovesciamento tra modernismo e post che ho descritto.
In effetti la mia idea è che di questo si tratta qui, di un gioco significativo di rovesciamenti, di rotazioni sul perno della nozione di collezione. Quello più centrale mi pare quello tra figura e fondo, diciamo così: nella prima sala lo sfondo storico è l’argomento e le figure proiettate fanno da sfondo ai mobili che dovrebbero fare da loro sfondo, emergendo invece concreti in primo piano – così la foto proiettata fa come da quadro alla parete; lo stesso vale per le parole, i discorsi, tra libri e voci, visto che queste si assommano al punto da diventare come uno sfondo, ma sono talmente alte da emergere come presenza principale della stanza.
Non è formalismo questo mio: l’idea, credo, è quella che nella nostra visione della storia, e del Modernismo qui in particolare, siamo sempre di fronte a questi rovesciamenti, che la visione, la conoscenza sono sempre retrospettive, proiettive.
Dichiarano Clegg & Guttmann, come riporta il comunicato stampa: «Cento anni dopo l’inizio del Modernismo ci ritroviamo in un profondo stato d’incertezza su quali risposte dare alle questioni più basilari di etica, estetica e politica». Cioè oggi che ci sentiamo così, vediamo anche il Modernismo così, ne siamo figli ma anche padri.
Gli stessi rovesciamenti proseguono in altre modalità nelle stanze seguenti. Nei ritratti dei collezionisti, gli oggetti sono sullo sfondo ma emergono in primo piano illuminati, anzi luminosi, illuminanti, come il cigno tenuto dalla donna o lo specchio dietro la famiglia o l’oro del quadro di De Dominicis dietro l’uomo. Nelle nature morte gli oggetti sono di nuovo in primo piano, ma la scatola argentata confonde, moltiplica ma sfocando e disfando le forme – davvero io continuo a pensare all’argento della Factory, spazio che ho sempre trovato allucinante, visivamente insostenibile. D’altro canto Warhol è per tanti versi lo snodo storico tra Modernismo e post.
Infine nella terza sala la sovrapposizione è totale e la distinzione tra sfondo e figura è annullato, indecidibile: la proiezione è la sua forma, la fusione di figura e fondo è letterale, la confusione delle voci torna a trionfare.
Per me l’idea è questa: ciò che ci abbandoniamo per pigrizia o altro a sentire come confusione va invece letta come fusione, come voce dell’insieme e come sovrapposizione delle voci del passato e del presente. Certamente quello che chiamiamo Modernismo era un insieme simultaneo di voci diverse, forse senza sintesi ma compresenti nello stesso orizzonte di possibilità, come lo chiama qualcuno; d’altro canto il presente sarà anche segnato dall’incertezza, ma la certezza che cosa è? In arte, intendo. Non è la forma? Non sta in essa la risposta a come affrontare le questioni, i problemi, gli argomenti? Collezionare è la forma, quella del rapporto tra le parti, come stanno insieme, come si connettono: in esso la dialettica tra persona e oggetto, tra sfondo e figura, tra luce e ombra, tra passato e presente, si mette in gioco operativamente, come un esercizio ermeneutico, interpretativo e insieme costruttivo di senso presente, illuminato e illuminante. In fondo anche la prima stanza e l’ultima sono delle “collezioni”, delle figure e dei rimandi scelti e messi in scena da Clegg & Guttmann.
Azzardo un’idea: in fondo questo è il pensiero delle “avanguardie”, non quelle moderniste, se per esse si intende quelle costruttive, utopiste, idealiste o produttiviste, bensì quelle, come il Dadaismo, che hanno compreso che i criteri del passato non potevano più funzionare nello stesso modo, che la contraddizione, il caso, l’inconscio, l’indeterminazione, la sovradeterminazione – la confusione, la provocazione, l’incertezza – sono parte integrante del linguaggio e del pensiero e hanno tentato forme e invenzioni che ne facessero i conti. Tra il Modernismo e il post ci stanno loro. Forse non è un caso che Clegg & Guttmann abbiano scelto quel panorama di Modernismo e in fondo l’hanno trattato e presentato avanguardisticamente più che postmodernamente. Esiste dunque un’avanguardia nel e del postmoderno?
Prendiamo un’altra esposizione milanese. Alla Fondazione Prada un’altra coppia di artisti, Lizzie Fitch & Ryan Trecartin, ha realizzato una mostra davvero particolare. Si intitola Whether Line, titolo dai mille possibili significati, io qui inventerei quello di “Linea del se”, inteso proprio come congiunzione: se fosse così, se…
L’atmosfera è completamente diversa da quella della mostra di Clegg & Guttmann, quasi opposta, fin dall’inizio, ma solo in apparenza. Si entra nella prima grande stanza del corpo centrale della Fondazione, dove è costruito un percorso obbligato da pareti di rete metallica. Al suo esterno sono disposti diversi altoparlanti da cui escono voci non ad alto volume ma che descrivono un chiacchiericcio quasi indecifrabile di cui si riescono a cogliere solo dei frammenti. Da qui si accede, attraversando il cortile sempre tra le barriere, all’altro grande spazio, all’interno del quale è ricostruita una casa, di forma essenziale, quasi un hangar, dalla struttura di legno e le pareti di metallo. All’interno si arriva a una stanza dove è proiettato un film, quindi a una parte centrale dove delle scale portano a un terrazzo, da cui non si gode la vista sperata, dato che siamo al chiuso, e poi a un’altra stanza, dove sono proiettati altri video a quattro canali.
La casa è la ricostruzione semplificata di quella che i due artisti si sono costruiti in un terreno in Ohio dove hanno voluto tentare un esperimento di vita in comune e farne il set del loro lavoro artistico: vita e film si sovrappongono, il luogo non è una location ma un “mondo”, un mondo altro. Questa è l’atmosfera che si vive anche nel primo video. Intitolato Plot Front, è un film di quelli girati in apparenza in modo dilettantesco e manuale, con scene slegate, recitazione inappropriata, insomma antinarrativo e grottesco, che si rifà ai reality o a film di serie B, C, D o da social. I personaggi discutono sconclusionatamente dei grandi temi: l’identità, il territorio, l’idea di proprietà, di stato, di nazione, di territorio, di comunità, di famiglia. In particolare il personaggio interpretato da Trecartin, detto Neighbour Girl e che incarna la figura del vicino di casa che finge bonarietà ma è al tempo stesso inquietante e minaccioso, è di quelli che dicono la loro su tutto. L’altra installazione video è quasi l’opposto: intitolata Property Bath, mostra il paesaggio naturale in diverse stagioni, silenzioso e quasi idilliaco, se non fosse per l’apparizione ogni tanto della Neighbour Girl che lo attraversa.
Quando si esce dalla stanza, fuori nel cortile, a mostra finita, si è frastornati e insieme sollevati di esserne usciti, lo dico in senso assolutamente positivo, cioè usciti non tanto da qualcosa di ansiogeno, che getta “incertezza”, per riprendere le parole di Clegg & Guttmann, ma da qualcosa di non certo, nel senso di dato, preciso, apodittico, ma anche di non piacevole, non accomodante, non consolatorio, e invece provocante, denunciante, linguisticamente e stilisticamente misto e con-fuso, ma al tempo stesso aperto, in tutti i sensi della parola, come lo era-è l’avanguardia.
Certo, sono avanguardie blasonate da ricche gallerie e fondazioni, diranno i maliziosi scafati, ma noi preferiamo pensare che siano i front-artist, le punte emergenti di situazioni sparse e vive attorno a loro, e comunque che i loro linguaggi e le loro opere siano le forme e i modi su cui riflettere.