Un libro di Laura Forti / Forse mio padre
Le storie familiari hanno un notevole successo nella narrativa dei nostri anni; e ciò vale sia per quelle che possiamo chiamare saghe, le storie del succedersi di più generazioni, sia per le vicende più private, non di rado ristrette al rapporto con uno dei due genitori. Ed essendo la famiglia la cellula prima della compagine sociale, è lecito pensare che questo doppio binario seguiterà ad avere fortuna, ovviamente declinandosi secondo l’evoluzione e le esigenze dei tempi. C’è stata un’epoca in cui, in certi ambienti almeno, l’espansione demografica si traduceva nell’esistenza di una società dei bambini, o dei ragazzini, all’interno della quale, crescendo, si imparava a stare al mondo. Oggi questa circostanza è sempre più rara: crescere significa soprattutto fare i conti con la generazione precedente, più che con i coetanei, in un’assiduità di contatto impensabile in passato. Così, è verosimile che le saghe familiari del futuro, se ce ne saranno, graviteranno sempre più intorno a famiglie allargate, complicate da separazioni e matrimoni plurimi, mentre nell’ambito delle famiglie nucleari potrebbe definitivamente prevalere il rapporto diretto tra figlio unico e un unico genitore.
Certo è che in Italia, quest’anno, il modello del postumo tête-à-tête con un genitore registra emergenze significative. Dopo la vicenda autobiografica sceneggiata da Maria Grazia Calandrone, di cui si è parlato in altra occasione, abbiamo avuto una storia altrettanto degna di essere raccontata, Forse mio padre di Laura Forti. La mossa d’apertura è la rivelazione, ricevuta dalla madre in punto di morte, che il vero padre della protagonista, il padre biologico, non è quello che lei ha sempre ritenuto tale (e che peraltro non ha mai molto amato). Di qui la postuma ricerca dell’identità di un padre ipotetico, in apparenza destinato a rimanere una sorta di fantasma, o una fumosa congettura. Inevitabilmente, la narrazione risale nel passato ripercorrendo la storia di una vita intera, anzi, di più vite: la sua s’innesta su quelle della madre certa e dell’incerto padre, nel loro controverso intrecciarsi. Non è una storia felice. Laura è cresciuta in una famiglia difficile e divisa: l’intesa fra i genitori si era guastata presto, e la convivenza si era alimentata, paradossalmente, del rancore reciproco, giacché entrambi cercavano nel rapporto con il coniuge una rivalsa contro il genitore di sesso opposto, lei contro un padre debole e sfuggente, lui contro una madre opprimente e dispotica.
Gradualmente, la verità emerge: il padre vero, il forse padre, è un uomo con cui la madre aveva avuto una relazione durante la Resistenza, e con il quale poi aveva mantenuto un sottile, clandestino contatto. Ma il finale registra una sorpresa; e sono forse le pagine migliori del libro. A un certo punto Laura ricorda di avere desiderato, da bambina, un cane. Quando si trova a subire un piccolo intervento chirurgico, le viene promesso che di ritorno dall’ospedale avrebbe trovato un cagnolino; ma, con sua infinita delusione, si trattava di un cane di pezza.
In quel frangente si verifica uno strano episodio: il casuale incontro insieme alla nonna materna, poco dopo, con un signore che le lascia un cagnolino vero. I genitori oppongono un rifiuto insuperabile, e il cagnolino finirà «da gente di campagna», dove – così essi garantiscono – starà molto meglio che in città. A posteriori, Laura capisce che l’incontro era combinato, e che il signore del cane era il suo rimosso padre: il quale, almeno in quella circostanza, era stato suo padre davvero. «Non potendo starmi accanto, avevi cercato di accontentare il mio desiderio più grande.
Il cane sarebbe stato il nostro legame, il nostro oggetto affettivo, transizionale, che avrebbe permesso a tutti e due di alleggerire l’angoscia. // Quello fu il tuo tentativo unico e estremo di trasgredire alla legge del silenzio imposta da mia madre, di esistere, di darmi un segno che c’eri». E infatti il libro si chiude, una pagina dopo, sul suo nome – Ghigo – taciuto fino a quel punto (mentre la madre, per nome, non è chiamata mai).
Un aspetto interessante del libro di Laura Forti, entrato nella terna dei vincitori del Mondello insieme a Giulio Mozzi (Le ripetizioni, Marsilio) e Alessio Torino (Al centro del mondo, Mondadori) riguarda la dimensione stilistica. L’autrice, da sempre attiva in campo drammaturgico, ha concepito questa sofferta autobiografia familiare come un discorso declinato alla seconda persona: spesso e volentieri, specie nei momenti di maggiore emozione, si rivolge a un «voi» o a un «tu», assumendo una postura quasi scenica. Valga, ad esempio, l’incipit: «Pensarti mi procura un dolore sordo. La tua presenza è come una malattia strisciante: ho paura che si insinui dentro, che si ricavi uno spazio scavandolo nei miei organi vitai. Non sono sicura di volertelo concedere, di volerti ospitare nei miei geni o di aprirti la strada del mio cuore. È tardi, mi dice una voce. Tardi per riannodare i fili. Lascialo andare».
Senza dubbio la familiarità con il teatro ha agevolato l’adozione di un linguaggio semplice e diretto, sintatticamente agile, di facile e immediata presa (a mio modesto avviso, la Forti ha già il SuperMondello in tasca). Ora, Forse mio padre è senza dubbio una storia che meritava di essere narrata, e che è stata narrata nell’unico modo, forse, in cui la protagonista-narratrice poteva narrarla: cioè dando libero corso a una sequenza abbastanza turbinosa di moti dell’animo. Non di meno, all’estensore di queste note rimane un’impressione contraddittoria. La scioltezza espressiva, il fraseggiato breve, la schietta spontaneità della comunicazione con i lettori e le lettrici non sono piccola conquista in una tradizione letteraria come la nostra, troppo a lungo aduggiata da un’ipoteca aulica che equivaleva a un programmatico rifiuto della popolarità. Ma lo spazio di una ricerca anche formale rimane aperto – anzi, scoperto. Se c’è spazio per la narrativa sentimentale, dove prevalgono i registri lirico-patetici, alla letteratura è lecito continuare a chiedere qualcosa di diverso. Nel frattempo, registriamo le prove comunque apprezzabili e interessanti: confessioni sincere, narrazioni di qualità, che si possono leggere con piacere, ma che difficilmente si rileggeranno.