Alberto Castoldi: l’incubo e la mappa

6 Dicembre 2012

I libri di Alberto Castoldi sono ossessioni che si trasformano in parola e così diventano passioni o meglio, come direbbe Roland Barthes, “plaisir du texte”.

Sin dagli esordi l’autore accompagna il lettore in un mondo buio, nascosto, gli mostra un insieme di liasons dangereuses, in cui sono coinvolti testi e immagini apparentemente distanti, che egli riesce ad annodare grazie a uno sguardo obliquo, insolito, spiazzante. Si potrebbe dire perturbante.

Ma è nei suoi due ultimi saggi che questo insieme di ossessioni trova un’altra strada da percorrere e un approdo dagli esiti doppi: l’incubo e la mappa, l’informe e la sua razionalizzazione.

 

In Ritratto dell’artista “en cauchemar” (Sestante Edizioni, 2011) la riflessione di Castoldi ruota intorno al dipinto L’incubo di Johann Heinrich Füssli. Dall’analisi delle sue componenti – il sonno, la camera, il letto, il mostro, la connotazione sessuale dell’episodio – l’autore traccia i confini di un immaginario iconografico e semantico dell’incubo, che dal modello archetipico di Füssli migra nelle opere di moltissimi artisti fra cui Goya, Grandville, Manet, Cézanne, Rops, Gauguin, Balthus.

 

Johann Heinrich Füssli, L’incubo, 1781, olio su tela, Detroit, Detroit Institute of Arts

 

L’onirico, scrive Castoldi, rappresenta “la via di fuga per sottrarsi al predominio dei lumi, e scoprire nuovi spazi rimasti inesplorati”, per questo il dipinto di Füssli diviene emblema stesso del sogno e compimento di un desiderio.

 

Ma cosa desidera un artista? Nient’altro che mettere in scena il proprio desiderio, il vizio supremo direbbe Péladan, perfetta tautologia della pulsione incestuosa sottesa al farsi dell’arte – fra le pagine del saggio si intravede anche il mito di Pigmalione e Galatea – oltre che incubo di ogni artista, che in esso si sdoppia: “vittima (femminile) e aggressore (maschile) sintesi della violenza necessaria perché l’operazione si compia”.

 

Sino a giungere allo sguardo rivolto allo spettatore dell’Olympia di Édouard Manet (la domestica nera svolge il ruolo dell’incubo) che incarna un radicale mutamento di prospettiva, “in quanto il desiderio che informava di sé il dipinto di Füssli”, sostiene l’autore, “ora enuncia l’oggetto del desiderio”: il corpo di Olympia. Qualche anno dopo Paul Cézanne rende tutto esplicito: include se stesso nel quadro e suggerisce l’autoreferenzialità del proprio desiderio insieme al meccanismo che vi è sotteso, ovvero la sua messa a nudo che si riflette nel corpo nudo della fanciulla.

 

  Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay; Paul Cézanne, Una moderna Olympia (Une moderne Olympia), 1873, olio su tela, Parigi, Musée d’Orsay

 

Se nel Ritratto dell’artista è la linea del tempo a scandire l’andamento della narrazione, nel saggio L’immaginario delle mappe (Sestante Edizioni, 2011), la dimensione dello spazio, costituisce il perno attorno al quale ruota tutta la riflessione di Castoldi.

 

Uno spazio che a partire dalla Grecia del VI secolo a.C. viene organizzato, scritto e descritto in un modello visivo razionale e desacralizzato, che restituisce unità ma soprattutto leggibilità al mondo: la mappa. Sfogliando questo saggio si nota che la mappa esprime un nuovo modo concepire il sapere, o meglio i saperi: l’occhio ingloba una superficie piatta in grado di restituire la profondità di informazioni stratificate, raffigurate in base a precisi canoni estetici, come si può vedere nell’Atlas Major (1665) realizzato dallo stampatore e cartografo olandese Joan Blaeu, l’atlante più grande mai apparso in tutta la storia della cartografia.

 

Tuttavia l’intento dell’autore è quello di far luce sul rapporto tra testo letterario e mappa, una trasformazione grazie alla quale “la mappa nel testo diventa il testo stesso”, di cui Castoldi offre a sua volta una sorta di “mappatura”, secondo un crescente grado di astrazione: mappe allegoriche, antropomorfe, astratte.

L’archetipo della mappa allegorica è costituito dalla Carte du pays de Tendre di Madeleine de Scudéry poi inserita nel suo romanzo Clélie (1654) vero e proprio “immaginario simbolico” all’insegna delle emozioni, da cui si dirama il percorso seguito dall’autore, sino a giungere a una delle mappe più suggestive del libro: lo schizzo della camera materna fatto da Stendhal e incluso nel suo Vie de Henry Brulard (1836), luogo dell’irrapresentabile, oltre che “strumento per testimoniare ciò che la scrittura non sarebbe in grado di dire”.

 

Le mappe antropomorfe invece dialogano con la forma del corpo umano, in un interscambio tra l’idea di mappa come corpo e viceversa di corpo come mappa, del quale vengono forniti numerosi esempi letterari fra cui No Man is an Island di John Donne o La Chevelure di Charles Baudelaire, viaggio dell’amante nella “testa-paesaggio” dell’amata.

 

L’ultima tappa di questo saggio è costituita dalle mappe astratte, si potrebbe dire mappe invisibili non direttamente riconducibili ad una mimesi del mondo esterno. Basta pensare alla presenza del marmo nella pittura religiosa, analizzata da Didi-Huberman in alcuni affreschi del Beato Angelico, o alle carte marmorizzate, che si configurano come il riflesso “inquietante di uno sguardo che ha paura di perdersi nel labirinto delle tracce”, rammenta Castoldi facendo riferimento a Barbara Stafford, o meglio come accade con la piega, puro “surplus di fantastico”, che nelle sculture più celebri del Bernini divengono forma visiva del significato dell’opera, così come lo erano le pieghe delle stoffe con cui Gatian de Clérambault, prossimo alla cecità – a cui l’autore dedica un saggio nel 1994 – vestiva i propri manichini.

 

Ecco che dalla mappa dell’incubo si passa al meccanismo sotteso al farsi del testo: una mappa mentale da cui si dipano molteplici narrazioni, in un gioco di specchi, doppi e connessioni circolari, che sono fra le tematiche da cui Castoldi si lascia sedurre e con le quali riesce a sedurre il lettore, che quasi inconsapevolmente, inizia a scorgere una parte di sé e del proprio mondo, a cui non aveva mai pensato.

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