Ama l’oggetto tuo come te stesso
Nel primo breve saggio che apre il volume L’altrui mestiere, intitolato La mia casa, Primo Levi racconta il suo appartamento in via Re Umberto a Torino. Da fuori a dentro. Elenca gli oggetti che vi si trovano, partendo dalla porta d’ingresso: il portaombrelli, dove il padre depositava il parapioggia o il bastone da passeggio; il ferro di cavallo trovato dallo zio Corrado; una grossa chiave appesa a un chiodo, di cui non si sa più l’origine; e via via altre cose, mobili o angoli dell’abitazione dove, salvo “involontarie interruzioni”, ha trascorso tutta la sua vita. Abitazione e abito hanno il medesimo etimo e origine, poiché la seconda pelle che possediamo è proprio il luogo in cui viviamo. Non a caso Hannah Arendt in Vita activa ha scritto che sono le cose del mondo a fungere da stabilizzatori della vita umana: “gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”. Detto da chi ha dovuto cambiar casa più e più volte, da Parigi a New York, per mettersi in salvo dalla bestia nazista, che invece ha inghiottito lo scrittore torinese, la cosa colpisce; ma è proprio degli esiliati avere un’affezione particolare alle cose, sia quelle perse sia quelle salvate.
A questo tema – quanto contano gli oggetti nella nostra vita – è dedicato un singolare libro di Giovanni Starace, Gli oggetti e la vita (Donzelli), in cui si legge il passo della filosofa. L’autore, uno psicoanalista che vive e lavora a Napoli, parte dalla stanza della propria figlia, Martina, di cui descrive l’evoluzione nel corso degli anni mediante l’arrivo di oggetti sempre nuovi, che scandiscono la sua vita di padre; poi passa a esaminare le storie di suoi pazienti – per lo più donne –, che ha avuto modo di ascoltare nel setting analitico sul tema delle “cose”. Gli oggetti d’affezione diventano così una sorta di termometro del benessere, o del malessere, delle persone, fonte di rassicurazione come di disagio, in una varietà di casi che Starace racconta con molta delicatezza, alternando le vicende alle sue riflessioni, e alle citazioni di filosofi, psicologi, scrittori. Ne esce un doppio ritratto degli oggetti posseduti che il “rigattiere dell’anima”, così si definisce, dispone su due piani: nel primo, le cose come pura proiezione degli uomini; nel secondo, le cose che esistono indipendentemente da noi.
Per Herbert Mead, filosofo e psicologo americano vissuto tra la fine dell’Ottocento e primi decenni del Novecento, l’oggetto materiale non si troverebbe nel mondo prima dell’atto percettivo che lo produce, ovvero prima che sia stato individuato dal soggetto; così egli pone le “cose” all’interno di una pura passività rispetto al soggetto medesimo, tesi sostenuta in modi diversi anche da altri autori: Freud, Jung, Durkheim. Si tratta di una visione che discende dal postulato cartesiano Cogito, ergo sum, che coglie solo un aspetto della nostra relazione con il mondo. Sebbene la capacità di rappresentazione della coscienza e la simbolizzazione siano fondamentali per la crescita umana, Storace mostra come gli oggetti vivano una loro vita separata da noi, mentre non possiamo far a meno di riconoscerli attraverso la categoria della “famigliarità”, di cui parla la filosofa Francesca Rigotti nel recente Nuova filosofia delle piccole cose (Interlinea).
Nel saggio di apertura di questo bellissimo libro, esempio di filosofia del quotidiano che non ha nulla da invidiare a quella dei grandi sistemi, l’autrice riprende dalla Arendt la distinzione tra pubblico e privato che sembra definire il mondo delle cose: il pubblico è grande perché è il luogo della libertà, della permanenza, dell’onore; mentre il privato è piccolo “perché ospita la necessità, la futilità e la vergogna”. E sono proprio queste tre categorie che l’autrice sviluppa in un libro sfaccettato e poliedrico, ma al tempo stesso fortemente centripeto. Il suo è innanzitutto uno sguardo di donna, cosa che salta subito agli occhi nelle pagine dedicate a “piccole cose” come il pane, la scopa, il sapone, la polvere e gli avanzi. Ma dove sono oggi le cose?, si domanda Francesca Rigotti. Oggi che la rivoluzione digitale ha reciso il legame con l’uso degli oggetti, possediamo cose che sappiamo usare, ma di cui non siamo in grado di conoscere e controllare il funzionamento. L’universo ci appare come uno schermo e un network che si frappone tra noi e la realtà. Ed ecco lo scolapasta, uno degli oggetti su cui si sofferma con più passione e intelligenza. Forse, scrive l’autrice, è il caso di prenderne in mano uno vero, di toccarlo, di vezzeggiarlo, prima che ci portino via anche questo.
E al riguardo cita il libro di Francesco Guccini dedicato alle cose scomparse, Dizionario delle cose perdute (Mondadori), libro che ha avuto un grande successo presso i lettori lo scorso anno forse proprio perché parla con nostalgia delle cose, e nostalgicamente le sembra preservare: un catalogo di cose, non smarrite, bensì perdute, della nostra vita. In definitiva, ci ricorda il libro di Storace, non a caso scritto da un uomo, sono le cose a generare quella concretezza in cui identificarci, per non essere sommersi dall’angoscia in un mondo che è sempre più privo di riferimenti.
Così si spiega anche il piccolo e grande collezionismo, infantile o adulto, che ci riguarda tutti: l’attaccamento che dimostriamo alle nostre modeste, o grandi, serie di “cose”. Walter Benjamin, collezionista di libri e di parole, ha scritto che nel collezionista non solo gli oggetti vivono in lui, ma che è anche lui a vivere in loro. Ci sono mille esempi di queste esperienze d’affezione o, al contrario, di sconcerto. Starace si sofferma su quella del trasloco delineando una sua piccola fenomenologia: come frattura rispetto al passato, con effetti malinconici o angosciosi, e come rigenerazione e rinascita: casa nuova, vita nuova. Le cose ci sopravvivono e, come dicono benissimo due versi conclusivi di una poesia di Borges, “Dureranno più in là del nostro oblio;/ non sapran mai che ce ne siamo andati”.
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