Civica, Marconcini e Daddi / La farsa e la memoria

26 Aprile 2018

C’è una rara intensità, certe volte, in quella finzione che è il teatro. Quando ti dimeni sul palco come un ossesso, e ti rendi conto di raccontare come un idiota una favola piena di furore e strepito che non significa nulla (o tutto), ed è quella della vita. Lo ha detto il grande Shakespeare e sembra certe volte – solo certe volte – di riviverlo, sempre nuovo, questo infernale meccanismo, della forma che trapela verità. 

Cosa c’è di più finto di una farsa? Azioni e parole che cercano la risata, scoperchiando certe volte i lati meno nobili – più fragili, più esposti, più grossolani – dello spettatore, abbassando ogni altezza, ogni nobiltà, ogni imprevedibile spirito vitale all’ottusità implacabile del meccanismo, per scatenare il ridicolo. Credere, in fondo, che la vita non abbia senso, o ne abbia uno molto banale, quotidiano, ripetitivo. Cosa si può opporre alla facilità della risata se non il gelo di un cinismo che prova, sotto la forma perfetta, a sventrare, a portare qualcosa che somiglia alle viscere in scena? Questo mi sembra faccia Massimiliano Civica in Belve, dichiarando di credere in un teatro che crei corrente elettrica tra attori e spettatori, che abbia come prova del nove la risata. Allo Stabile di Prato punta sulla farsa, in un progetto a lungo termine che intende recuperare lo spettatore, distratto, avvilito, abitudinario, con la grande maestria scenica, lasciando intendere, civettuolo il Civica, che il regista è quasi un di più. Lo spettacolo visto al Metastasio va su queste strade apparentemente semplici, in realtà impervie, dopo la commedia lirica (possiamo chiamarla così?) Un quaderno per l’inverno, prima di uno sprofondamento nella tragedia con una prossima Antigone (ma c’era stato prima il caso, meraviglioso, della commovente Alcesti, una tappa fondamentale in un teatro dei sentimenti, quello del Civica, di cui la farsa rappresenta l’atra faccia). E ci sarebbe dovuto essere (e non sappiamo se ci sarà, per le solite ragioni produttive) un musical, altro, ancor più arduo, viaggio nella sapienza estrema dell’attore, in un cammino nei generi come cimento antico per scoprire la necessità (le necessità, i bisogni) di un teatro che galleggiando sulla tradizione sia capace oggi di rompere gli argini.

 

Ma questo articolo non avrà unità. Potete considerarlo un diario di due giorni in Toscana, risparmiandovi un’altra uscita di quella cosa inutile, sovraffollata, gratuita o pressoché, che è oggi la critica online. Perché subito da Prato mi sposto a Pontedera, dove Roberto Bacci ha firmato Quasi una vita. Scene dal Chissàdove, omaggio a quei due attori fuori da ogni ordinario che sono Dario Marconcini e Giovanna Daddi, terrestre madre mediterranea dai colori scuri lei, lunare e metafisico lui. 

Marconcini, a volte trascurando la familiare industria manifatturiera, con Bacci e altri fondò il Centro di Pontedera, trasformando l’operosa cittadina toscana della Piaggio in una capitale della sperimentazione teatrale, come a dire del sogno e del tempo sottratto alle pratiche dell’utile. Si concentrò, con la sua compagna d’arte e vita, Giovanna dallo sguardo abissale, a Buti, in un altro teatrino, il Francesco di Bartolo, dove per anni inventò un nuovo teatro popolare, fatto di maggio drammatico, di teatro amatoriale e d’avanguardia, con Paolo Billi. Poi spinse lo straniante, brechtiano rigore di Jean-Marie Straub verso la scena e continuò, sempre, con Giovanna e senza (e Giovanna con lui e senza), a produrre suoi spettacoli. Quasi una vita è un ritorno dei due in coppia a Pontedera, ora parte (o appendice) del Teatro della Toscana, nel monumentale spazio situato in un parco intitolato a Grotowski, che Pontedera accolse per la sua estrema sperimentazione. È una biografia d’arte che si nega in quanto biografia pura e semplice e riconosce nella forma – nel teatro, ancora – l’unica possibilità narrativa, evocando la vita sotto la specie di spettacoli attraversati, di battute, citazioni, con momenti di tenerezza infinita, più affidati al ritmo del fraseggio, ai corpi ormai invecchiati dei due protagonisti, che al testo, comunque introiettato e dolcemente estroflesso. 

 

Due forme verrebbe da dire, farsa e biografia, che pirandellianamente contengono, fanno a pezzi, irreggimentano la vita straripante. E in molti momenti ne vengono travolti.

 

Belve, ph. Duccio Burberi.


Dietro le maschere della farsa

 

Belve è scritto da Armando Pirozzi, presente in questa stagione sui nostri palcoscenici anche con Il cielo in una stanza per i napoletani Punta Corsara. Della sua drammaturgia si potrebbe dire quello che Cechov riferiva a se stesso: “Tolstoj e Dostoevskij sono vodka, noi siamo limonata”. Ma conosciamo le virtù taumaturgiche della limonata dopo pranzi troppo abbondanti, o in caso di calori persistenti e soffocanti. La limonata rifresca dalla retorica della vodka; umilmente corrobora le vite, portandoci a una sorta di discreta resurrezione. 

Una tavola è l’unico arredo scenico di Belve, come in altri spettacoli di Civica. Luogo conviviale, di ipocrisia, a lungo andare di rivelazione, altare sacrificale. Vi si incontrano varie coppie: due fisse, una mobile, ossia con attori che interpretano in successione vari personaggi che entrano, escono, passano. Ci sono i padroni di casa: lei, Betta, un’alcolizzata casalinga che nasconde il fiasco di vino sotto la lunga tovaglia, come molte altre cose (la famosa polvere sotto il tappeto…); lui, Pippo, un giovane rampante impegnato a presidiare le Termopoli della Crisi. Sono Monica Demuru, grande voce cantante in Alcesti e in Il cielo non è un fondale di Deflorian/Tagliarini e qui perfetta nei ritmi, nei tormentoni, nei trasalimenti. Lui è Aldo Ottobrino, nervoso, survoltato, trascinante: una scoperta.

 

Gli altri due hanno caratteri ancora più spiccatamente farseschi. Sono personaggi più avanti negli anni e “arrivati”, che i giovani vorrebbero scalzare, soprattutto lui, Giocondo, proprietario di traffici vari, un magrissimo, piccolo, imbalsamato (ad arte) Salvatore Caruso, uno dei maggiori caratteristi (e non solo) napoletani di oggi. Lei, Giorgetta, debordante, oversize, svampita con i suoi controtempi, è una fantastica Alessandra De Santis. Il problema è che Giocondo dovrebbe essere morto, perché la settimana prima i giovani l’avrebbero avvelenato, per sbarazzarsene. E invece nulla. È là, a mangiare cozze. Con ingordo risucchio. A commentare, olimpicamente, inscalfibile. Poi entrano Alberto Astorri e Vincenzo Nemolato, di volta in volta un vescovo e il suo chierichetto, Luciano, un omone con baffi, poeta o dj rappante, e la figlia dei due più anziani, infine due poliziotti col cappello da sceriffo western che hanno lasciato i cavalli per strada. Succede tutto in quell’interno buñueliano, in una tesa lotta per la sopravvivenza, per guadagnare fette di mercato, perché chi ha i soldi detiene il potere. 

 

Belve, ph. Duccio Burberi.


I padroni di casa cercano di sopprimere in tutti i modi i vecchi e non ci riescono. Sembrano incantati, soprattutto lui, l’anziano indistruttibile, insensibile come un pezzo di stoccafisso ai tentativi di omicidio, come si conviene a una gerontocrazia che non si riesce in alcun modo a scalzare, e neppure a scalfire. Il trucco c’è e non mancherà neppur l’agnizione che porta la farsa dalle parti del dramma di Edipo, dopo una lotta a divorarsi da pescecani. 

Niente di originale, se volete. E neppure, almeno la sera in cui l’ho visto io, capace di scatenare quelle grandi risate. Il sentimento dominante era una lama di gelo tagliente, squarciante, rivelante, sotto la cornice formale della farsa. Un nascondersi dietro la risata, solo evocata, non sempre scatenata, per tagliare meglio i bubboni, per affondar i denti, col risucchio, nelle carni (nelle cozze) del sogno di ascesa sociale, che si infrange contro una realtà bloccata come da un Angelo Sterminatore. Che non arriverà mai, perché qui il potere si autoalimenta e non si distrugge. Tutto torna a posto: dopo aver sognato – soltanto sognato – di poter infrangere per via farsesca e surreale l’ordine del discorso, trionfa il discorso dell’ordine. E tutti sembrano guadagnarci.

Il protagonista, il giovane rampante Pippo, è un orfano, che alla fine ritroverà i genitori, nella più classica delle agnizioni. E otterrà, per via ereditaria, per privilegio di nascita, tutto quello che altrimenti, con la semplice abilità, anche criminale, non avrebbe mai potuto avere, come più rassicuranti favole. C’è lo stesso senso di rivalsa dei drammi pre Rivoluzione francese, come in Diderot, Beaumarchais o Mozart. Qui tutto è avvelenato, già visto, giocato non contro una classe stantia per conquistare un mondo più giusto: nelle Belve vince e diventa forza metafisica il privilegio, che tutto domina.

 

Belve, ph. Duccio Burberi.


L’esperimento farsa chiama lo spettatore a rompere la quarta parete, a diventare complice. A guardarsi in uno specchio deformante. Lo fa con una fiducia totale e forse addirittura anacronistica nei poteri rivelatori e dissacratori del teatro. Come se mettere in forma la vita che ci circonda la illuminasse diversamente nelle sue finzioni, lasciando una scia di godimento anche all’orrore, al trash, all’esibita, esuberante violenza dell’avere contro l’essere. Gli attori sono fantastici, il testo è efficace, ma quello che risalta e dà un ordine superiore al tutto è la mano in cerca di senso di un regista, Civica, che sta cercando la strada per arrivare dritto alle emozioni, le più varie, attraverso il ripensamento vivo della tradizione (da leggere le sue citazioni da attori, registi, e i suoi commenti sul teatro sul profilo Facebook). Ripercorrendo i generi sembra voglia reinventare la stessa regia come costruzione di un discorso politico e critico sulla società e i sentimenti, dichiarando che l’essenziale sono gli attori il testo eccetera non la sua mano tessitrice. Schernendosi, sostanzialmente. Buttando il sasso, con la mano della necessità di un pensiero non debole ben nascosta.

Da quest’anno il disegno è ancora più articolato e complesso, perché Civica è anche consulente artistico del Metastasio. Ha iniziato questa nuova attività con un bando per giovani registi: ne sceglierà tre e affiderà a ognuno una produzione all’anno per il prossimo triennio. Belve, che ha fatto solo sei repliche – troppo poche per calibrare una farsa con il pubblico – si rivedrà nei festival di Castiglioncello e a Kilowatt, per poi approdare, nella prossima stagione, a Bologna, a Lugano e in altri centri. Produzioni e coproduzioni dell’anno prossimo saranno una sfilata dei nomi più belli della nuova scena italiana, da Deflorian/Tagliarini agli Anagoor, da Babilonia Teatri a Timpano/Frosini, da Latella a De Summa e oltre. Con il progetto di portare Claudio Morganti a produrre, finalmente, il suo tanto corteggiato Woyzeck con una lunga residenza al Fabbricone, e vari nomi internazionali.

 

Quasi una vita, ph. Roberto Palermo.


L’invenzione della memoria

 

Quasi una vita si svolge con gli spettatori disposti su tre lati. In scena c’è solo una porta con due cornici: di volta in volta aperta e chiusa, una soglia che sbarra o favorisce il transito. Bacci firma regia e spazio scenico e la drammaturgia con Stefano Geraci. Porta come coro, per raccontare la storia di Marconcini e Daddi, alcuni dei suoi attori, Elisa Cuppini, Francesco Puleo, Tazio Torrini, Silvia Pasello, con gli interventi sonori di Ares Tavolazzi. Siamo in una landa metafisica, che assomiglia a un teatro, o a un varco tra la vita e la non vita (o viceversa). Oppure semplicemente in una stanza della memoria dove passato e presente, realtà e finzione, amore, fatti quotidiani e personaggi incarnati in scena si sovrappongono, come in qualche intricato testo di Pinter, come in un sogno shakespeariano, come in un patto con qualche Mefistofele alter ego, in una scommessa a riempire la vita di un senso, ossia di una forma, che di vita può essere sinonimo, non solo letto di Procuste, una liberazione di energie. Dario è lento, intenso, tra i movimenti a scatti o danzanti degli altri, tra gli sprazzi testuali dei più giovani compagni. Giovanna lo accompagna, attenta, avvolgente, affettuosa, tenera, pronta a ricordare, a rivivere, a proiettare in qualche altrove, chissadove, i frammenti biografici. Un abbraccio e un bacio alla Via col vento, un patto con l’insinuante diavolo dell’arte, firmato con regolare penna d’oca e con invisibile sangue, un discorde ricordo concorde quanto a temperatura d’affetto – su un ponte? in un prato? il primo bacio, tra loro. Un senso di tempo che passa e che vorrebbe far svanire, e di una lotta ad aprire nelle varie dimensioni, nelle varie direzioni, quella porta, dipinto Dario come un ascetico incerto clown bianco e riportato al volto, puliti la biacca e il rossetto, in una casa sull’oceano dopo essersi amati tutta la vita.

La parola mostruosa non è vietata, invecchiare, quando si continua a sentire l’altro, sulla scena, attraverso il teatro, e nella temperatura dell’abbraccio, nel ricordo che diventa intensità presente e sbilanciamento dell’immagine giovanile in una precarietà fisica commossa che rallenta ma non immobilizza. “Tu mi parli dell’invecchiare, dei segni dell’età, del trascorrere inevitabile degli anni, del sentirsi, dopotutto, giovani dentro. Dio mio! Che immagine mostruosa! Una macchina di carne che si disfa tenuta in piedi da quel povero giovane imprigionato!”.

 

Quasi una vita, ph. Roberto Palermo.


Attraverso la porta e l’altra sua cornice, avanti e indietro nel tempo e nella memoria, appaiono piaceri e rimpianti, lotte e tremori, parenti, madri malferme. Ritorna il primo incontro, continuamente. Qualcosa si sposta sempre, come nei ricordi, per rivivere in questa presenza non rassegnata, desiderosa ancora di vita, di esperienze, forse solo di un senso continuamente abbandonato nello slancio dell’affetto.

Il testo qualche volta si perde in poeticismi, in farraginose riprese del tema teatro-vita. Eppure la tensione, la dolcezza, la sapienza delle presenze rende questo spettacolo affascinante, commovente, energetico come pochi altri. Ancora il teatro, mascherandoli, rivela i suoi inganni: trasporta altrove, sembrando altro. Crea intensità nell’abbandono, della debolezza, nella riflessione sull’invecchiamento. Falsa le prospettive rendendosi più vero del vero per lontananze, vuoti, paradossi, assenze. Con due interpreti di intensità fredda e rovente, misurata e commovente. Due artisti di testura e umanità meravigliosa, che negli anni hanno tessuto e ritessuto incanti.

 

Si replica al teatro Mila Pieralli di Scandicci dall’11 al 13 maggio nell’ambito di Fabbrica Europa.

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