Antropocene / Il superorganismo stupido
Saul Bass, illustratore americano, inventore di geniali poster cinematografici e di inconfondibili titoli di testa per Preminger, Wilder, Hitchcock e Kubrik, diresse tra il 1973 e il 1974 il suo unico lungometraggio, all’origine di un mio indelebile trauma infantile e forse della predilezione per certi temi che avrei sviluppato quarant’anni dopo. Il film si intitola Phase IV, in italiano Fase quarta: distruzione Terra. Leggendo Il superorganismo di Bert Hölldobler e Edward Wilson (vedi su doppiozero l’articolo di Marco Belpoliti, Le origini profonde delle società umane) e avendo lottato durante il lockdown contro un’inquietante invasione di formiche, convinto poi che la vera apocalisse sarà guidata dagli insetti, per la prima volta da allora ho deciso di rivedere questa pellicola straordinaria. Al botteghino fu un fiasco, la critica la massacrò, solo molto dopo fu rivalutata da una nicchia di cinefili e oggi, ma forse esagero, va considerata una pietra miliare di quella che potremmo definire “archeologia dell’Antropocene”. Non perderò tempo a riassumere la trama o a farne l’analisi perché secondo me dovete proprio vederlo, mi limito a dire che la diegesi alterna il punto di vista di formiche senzienti che innescano uno squilibrio biologico apocalittico e quello di umani abbandonati sull’orlo inesorabile dell’estinzione, con riprese in close up degli insetti, angoscianti e bellissime, realizzate dal documentarista Ken Middleham.
Phase IV mi terrorizzò da bambino e anche adesso mi inquieta seriamente per la dimensione claustrofobica del formicaio, per la perfetta resa in immagini dello sciame deleuziano, per l’ineluttabilità del crollo della ragione tecnologica. Verso la fine viene offerta la chiave di lettura: gli umani pensano di osservare le formiche e di fare test su di esse ma in realtà sono le formiche a fare esprimenti sugli umani. Nell’effetto specchio capiamo che l’estinzione provocata dagli insetti è metafora del processo distruttivo innescato dall’uomo, ma la metafora zoppica, si inceppa, e quello che passa è qualcosa di completamente diverso: una resa cognitiva di fronte all’inevitabile. Qualunque cosa sia, da qualunque parte provenga.
In teoria dovrebbe funzionare così: c’è una colonia composta da gruppi specializzati all’interno dei quali il ruolo dell’individuo è rigidamente definito. La programmazione inflessibile riguarda compiti, spazi, funzioni di ciascuno e il principio collaborativo porta invariabilmente a sacrificare l’individuo in nome del gruppo. Nella colonia-organismo tutto si regge grazie a pochi algoritmi comportamentali che tendono a un’organizzazione spontanea e ottimizzata della collettività. In questo modo non c’è bisogno di un sistema centrale, di un cervello, di un capo, ma si agisce in base a una sorta di intelligenza diffusa depositata non nella testa degli individui, troppo limitata per processare la complessità, ma in trend di comportamento che si definiscono con aggiustamenti migliorativi. Tutto questo può avvenire grazie a un sistema di comunicazione decentralizzato dove un semplice individuo lascia localmente un messaggio che, se utile al gruppo e funzionale al sistema, viene rafforzato da altri individui fino a farlo diventare un pattern cognitivo-comportamentale. Questa intelligenza da sciame non ha bisogno né di messaggi veri e propri né tantomeno di messaggi intelligenti, semplicemente consiste in una modificazione dell’ambiente che è in grado di stimolare il comportamento di altri individui, come ad esempio la scorciatoia obliqua in un’aiuola per evitare di fare l’angolo: la ripetizione di passaggi individuali stimolati da una vaga traccia nell’erba incoraggia e sancisce un comportamento collettivo che produce un vero e proprio sentiero.
In teoria dovrebbe funzionare così, e infatti così funziona nei formicai, nei termitai, negli alveari, nei banchi di sardine e negli stormi di uccelli che volano in modo sincronizzato. Ma se applichiamo il modello agli umani, al web e alla sociologia politica, il Golem si affloscia subito. Certo, anche la società globale è fatta di individui di scarsa intelligenza e di scarsa importanza che a livello collettivo, grazie al supporto della rete e delle relazioni sociali, sviluppano comportamenti organizzati. Al contrario di quanto avviene “in natura”, però, questi comportamenti collaborativi raggiungono un livello sistemico che è più stupido (e pericoloso) di quello dei singoli individui. Non è una boutade misantropica: negazionismo climatico, negazionismo pandemico, no-vax, complottismo, bias di gregge sono alcuni dei principali disastri di specie che fanno somigliare il superorganismo umano non a un alveare conformista ma a un’orda di lemming suicida. Senonché la storia dei lemming è un mito e in realtà l’umanità sembra tenersi miracolosamente al di qua della catastrofe finale. In altre parole, sbaglia, sbaglia moltissimo, ma non abbastanza da autodistruggersi subito. Questa aurea mediocritas di massa, mai fatalmente intelligente e mai catastroficamente stupida, è quasi ineffabile. La stupidità, specie se non abissale, è molto difficile da perimetrare e descrivere, perché non risponde a un principio di causalità definito, profilato; certo, non produce eventi davvero eclatanti e soprattutto si mescola a così tanti fattori collaterali, le cosiddette circostanze, che alla fine si dissolve come una goccia di latte in un bicchiere d’acqua. Quello che resta però è un bicchiere d’acqua torbida che ci tocca bere tutti i giorni.
Rovesciamo adesso la prospettiva e chiediamoci: la cecità di cui parla Amitav Ghosh, la follia di cui scriveva Paul Shepard, il ritardo nel percepire il collasso descritto da Jared Diamond, insomma questa deriva della civiltà verso il peggio, questo paraocchi cognitivo che ci proietta come specie al centro dell’abisso, è davvero un clamoroso fallimento del superorganismo umano? La stupidità di massa con tendenze autodistruttive è davvero un’accelerazione collettiva verso la catastrofe? Forse possiamo vederla in un altro modo, anche se l’alternativa non ha nulla di consolatorio. Scriveva nelle sue memorie africane David Livingstone: «Sussultando e guardando indietro vidi il leone che mi balzava addosso. Ero su una piccola altura; saltando addentò la mia spalla ed entrambi cademmo a terra. Ruggendo orribilmente contro il mio orecchio mi scrollò come fa un cane col ratto. Lo shock produsse in me uno stupore simile a quello che sembra prendere il topo dopo che il gatto l’ha scosso per la prima volta. Generò in me una sorta di trasogno in cui non c’era sensazione di paura o sentimento di terrore, anche se ero perfettamente conscio di ciò che stava accadendo. Era come la descrizione che danno i pazienti sotto l’effetto parziale del cloroformio, che vedono l’intera operazione ma non sentono il bisturi. Questo stato singolare non era l’esito di qualche processo mentale. La scossa aveva annichilito la paura e bloccato ogni senso di orrore nel guardare la bestia. Probabilmente è la condizione peculiare che si produce in ogni animale quando è ucciso da un carnivoro». Oggi il carnivoro è l’Antropocene e la preda è Sapiens sapiens.
Proviamo allora a vederla così: da qualche anno, praticamente ovunque, sicuramente in ogni fascia socio-culturale della popolazione globale, centinaia di milioni di persone si stanno inconsapevolmente preparando al peggio. Qualcosa, nella testa della gente, ha avvelenato l’ottimismo di specie e la prospettiva del disastro è così imminente e così psicologicamente intollerabile che il cervello non è in grado di sostenerla. Sappiamo che il mondo conosciuto crollerà ma negare il collasso sembra l’unica forma di reazione possibile. Consapevolezza, reazione, impegno totale per invertire il trend sono fuori portata, così ci indigniamo se la fine della “pace climatica” viene chiamata “guerra”, e non perché il lessico militarista ripugna certa sinistra moraleggiante ma perché la guerra, se fosse davvero tale, chiederebbe a tutti di scendere in campo, di prendere posizione, di agire, quando nel comfort domestico la voglia di farlo è poca e gli strumenti mentali e materiali sono comunque scarsi. Così le persone che non hanno mai combattuto in vita loro una battaglia politica si indignano contro le mascherine per l’attacco alla democrazia e alla libertà, e non perché l’abbia detto Agamben ma perché seguitare a fare i propri comodi in privato è un modo molto efficace per non guardare in faccia Grendel, l’orrore incarnato che nel poema anglosassone Beowulf devasta la reggia di Hroðgar. Ecco allora che nel crollo, nello smarrimento panico, il superorganismo si attiva: de-evolversi, rinunciare alla complessità, cedere alle teorie del complotto, decadere culturalmente, instupidire, sono una strategia collettiva che aiuta i più a morire senza dolore, in un trasogno che somiglia al prima, e che forse garantisce ad alcuni di sopravvivere, se non come civiltà quantomeno come entità biologica. Stupidità come adattamento al collasso, dunque, cecità come protezione dal terrore.
Pensare e agire da stupidi, quello che in prospettiva epocale alcuni chiamano crollo dei saperi o shock cognitivo, è un comportamento che in superficie può apparire un malinconico collasso della cultura, dell’intelligenza, dell’immaginazione, ma di fatto è una specie di Ant Colony Optimisation, e funziona proprio come i feromoni per le formiche. La stupidità è la semplificazione eccessiva di un problema, è lo schermo annebbiante che distoglie l’attenzione dal nucleo, è l’orgoglio emotivo che batte la ragione analitica, e come tale lascia un profumo irresistibile, un percorso in discesa, una traccia attraente che genera imitazione, rafforzamento, scelta collettiva, e infine la traduzione del gesto ripetuto in un algoritmo vincolante. La stupidità di massa funziona per stigmergia: nessun messaggio veramente intenzionale, nessun coordinamento centrale, nessun complotto biopolitico, ma un mero comportamento collaborativo di sciame che usa gli stimoli elementari emessi da ogni singolo stupido come mattoni per edificare un unico macromessaggio: “niente paura, è tutto come prima”. Non c’è bisogno quindi di evocare gli Illuminati, i poteri forti, i governanti che tolgono fondi a scuola e università, non possiamo contare su un Grande Regista della Stupidità Umana, c’è solo un formicaio di sette miliardi di persone che si autorganizza per non vedere l’orrore che avanza. In termini evoluzionistici non è né un bene né un male: il superorganismo non è abbastanza zelante da innescare l’Apocalisse subito e non è abbastanza efficace per scongiurarla. È come sposare passivamente lo status quo, ma soprattutto è una resa al Caso, quello che ha governato le estinzioni, che ha innescato la vita sulla terra e che ha prodotto madri borghesi, occidentali e bianche che non vaccinano i propri figli per non essere “schiavi di Big Pharma”.
La rinuncia cognitiva, il crollo dell’ottimismo di specie, è una condizione relativamente nuova. L’Antropocene ha corroso dall’interno il mito del progresso rendendo il futuro inimmaginabile e dunque immodificabile. Il vero Terrore, quello della sesta estinzione o di condizioni di vita così misere da somigliare alla morte, è psicologicamente e socialmente insostenibile. Mentre Grendel ci sta masticando la spalla, il comportamento addomesticante/anestetizzante è un pendio quasi obbligato: negare la gravità dell’attacco, spensierarsi con un aperitivo, leggere un libro da spiaggia o, a un grado di consapevolezza più complesso, inventare un agente biopolitico, difendere l’economia as usual, promuovere una letteratura rassicurante. Da osservatori esterni tenderemo sempre a concentrarci sul singolo stupido o sul singolo intellectual yet idiot, perché sono ipnotizzanti e colmano tutto l’orizzonte, ma difficilmente riconosceremo queste piccole escrescenze arroganti come mattoni infinitesimali di un sistema collettivo di stupidità autorganizzante. La potenza narratologica della psicologia da sciame va però riconosciuta e studiata, in parte per sottrarci e reagire all’immobilità che ci prende di fronte all’abisso di un singolo stupido, in parte perché comprendere i meccanismi narrativi della negazione è l’unico mezzo per costruire delle contronarrazioni efficaci. Se i feromoni della stupidità segnano piste che diventeranno sentieri che diventeranno algoritmi, occorre immaginare un contrattacco culturale che modifichi il meccanismo al livello della traccia. Un formicaio del genere non si distrugge schiacciando ogni singola formica o inondando il terreno di DDT, ma agendo su epigenetica ed enzimi. In altre parole, sabotando il racconto univoco con paradigmi follemente intelligenti.
Nella versione uscita al cinema, il finale originale di Phase IV era stato tagliato e solo dal 2012 si è potuta visionare una versione restaurata che ricorda molto da vicino l’estenuante finale di 2001 Odissea nello spazio, finale che, in sequenza psichedelica, come poteva piacere in quegli anni, intendeva rappresentare la nuova Terra e la nuova umanità in simbiosi minoritaria con le formiche. A dire il vero anche la versione per il pubblico aveva un finale aperto, dato che il protagonista, con voce fuori campo, ci informa di aspettare rivelazioni dalle formiche sul futuro del mondo. Il traduttore italiano del titolo invece non aveva dubbi: la fase IV è la distruzione della Terra, poco importa se il film racconta un’altra storia e se il messaggio finale è completamente diverso. La cosa mi fa riflettere ancora una volta sul potere semplificatorio della stupidità. Ovviamente, su sette miliardi di persone qualcuno si libera dal capestro dell’algoritmo, indossa la mascherina, corregge i propri bias, si sforza di imbastire contronarrazioni intelligenti, ma la distruzione del mondo as we know it rimane inattingibile nei modi e nei tempi. Chi è più stupido allora? Chi non-vede-non-sente-non-parla o chi immagina un’apocalisse di zecche assassine che probabilmente non vedremo mai e che non funziona nemmeno come metafora? Ignoranti e felici oppure consapevoli e impotenti perché il futuro si può sì immaginare ma fino a che punto, e a che pro? Le formiche si sono evolute dalle vespe intorno a 150 milioni di anni fa. Probabilmente esisteranno ancora quando la nostra specie si sarà estinta. Spinoza e lo spritz non lasceranno alcuna traccia. Alla fine anche le formiche svaniranno.
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