Larsen C di Christos Papadopoulos / Danza come esperienza estetica

26 Novembre 2021

Lo spettacolo – ipnotico, caustico, avvolgente – inizia con una luce che fende lo spazio della scena. Così facendo, il nero perfetto della scatola teatrale che giace nelle retine del pubblico appare ferito da quel fascio luminoso. Non siamo più di fronte a uno spazio-tempo a scorrimento immobile, ma a un ambiente esperienziale vero e proprio in cui si innesta un ticchettio cronografico. C’è uno stato di sommessa, sottile agitazione che permea l’inizio e che trova liberazione solo nel superamento di quell’immagine iniziale e scura, un’immagine tanto conchiusa e definitiva quanto semplice ed enigmatica. Da quella apertura disegnata dalla luce, che sì apre un varco ma in realtà non preannuncia nulla di ciò che segue, a una a una iniziano ad apparire immagini plastiche e misteriose. Questo primo segmento di luce è, dunque, uno spazio laterale. È una zona che si estende quasi discretamente verso il fondo della scena. Una sagoma emerge da una penombra in cui si staglia in maniera via via più chiara un preludio di corporeità: così la danza si annuncia. Si intuisce la natura umana di questa prima forma, da essa emana un calore. L’immagine è quella di una superficie liscia, mobile, duttile. Molto probabilmente si tratta di una schiena, ma null’altro è concesso vedere. 

 

 

In Larsen C di Christos Papadopoulos, presentato in prima nazionale al Festival Romaeuropa, poi al Festival Aperto di Reggio Emilia (entrambi tra i co-produttori), il corpo si svela intero agli occhi del pubblico piano piano, la visione qui non rappresenta un dato di partenza ma il frutto di un percorso percettivo vero e proprio nel quale lo sguardo è guidato, con estrema e meticolosa precisione, in un delicato equilibrio di ripetizione ed evoluzione dei segni. Sono movimenti asciutti che compongono scie dinamiche, forme che oscillano come piccole ossessioni scheletriche, spostamenti di peso, scatti e dinamiche potenzialmente ampi ma abortiti quasi sul nascere. Sono piccole cadute fuori dall’asse verticale del corpo che determinano il movimento sulla superficie liscia del palcoscenico: portata in scena da sette performer, la danza del coreografo greco è generata, soprattutto, da uno stato della presenza che, per come è organizzato, porta in primo piano l’ascolto e il riverbero tra i corpi. Con il suo sviluppo, che non precipita nell’azione ma non per questo diventa prolisso, lo spettacolo condivide il proprio meccanismo interno piano piano, soprattutto attraverso la visione. Questo disvelamento continua, senza fermarsi, dipanandosi nello spazio attraverso arabeschi sempre più arzigogolati e complessi che avvolgono il pubblico fino a rendere chi vi assiste e la sua sfera percettiva parte integrante della performance stessa. 

 

 

L’esperienza estetica è condivisa, artisti in scena e pubblico si spartiscono lo stesso materiale emotivo e una sola indicazione tacita ma evidente: lasciarsi andare nel flusso. Allo sguardo, all’udito, alla capacità di fidarsi del trip che viene presentato è come se venisse concesso, dall’inizio, un tempo di accettazione ed accomodamento. Il nero predomina, l’assenza di luce sembra poter riavvolgere i corpi dei performer senza preavviso, cancellandone arti, sezioni, articolazioni, connotati. Le modulazioni della luce fungono quasi da segnatempo. L’uso della distorsione visiva, strumento che Papadopoulos utilizza efficacemente, è un elemento che continua a tornare e che si pone in qualche modo in correlazione con un’organizzazione corporea del movimento a tutti gli effetti stabile, che i performer in scena padroneggiano lasciando trasparire un’emotività sottile, che si infiltra nelle sequenze di movimento, involontaria. Il bacino, le gambe e i piedi sono profondamente radicati al suolo, quasi magneticamente, mentre la parte superiore del corpo – le braccia, le mani, il petto e il collo – portano una qualità più aerea sebbene non completamente fluida.

 

Gli sguardi sono tesi e spalancati, espansi fino alla più ampia periferia della visione. È come se l’aria interrompesse la propria fluidità, ritmicamente, seguendo una pulsazione intermittente che la musica di Giorgos Poulios sostiene e incoraggia. Così architettato, è come se il corpo dei performer fosse oggetto di una trazione concretamente fisica dove il plesso solare, come se fosse agganciato al cielo e lì restasse sospeso, mantiene una verticalità che si muove restando in caduta costante mentre il bacino e gli arti inferiori legano questa particolare qualità della presenza alla materialità orizzontale del piano d’appoggio. I piedi scivolano sul pavimento, silenziosi. Se non fosse che il disegno coreografico è così complesso, si potrebbe pensare a una trance. Le mani e gli avambracci, uniche parti del corpo scoperte dai costumi colore blu notte leggermente cangiante, tracciano volute che sembrano indicare e sottolineare le dinamiche che la danza disegna nello spazio. C’è un vocabolario di movimento che inizia a ripetersi, con leggerissime variazioni espresse sia singolarmente sia in gruppo. Dalla platea, la visione è assorbita dentro questo spazio scuro che a tratti deforma i corpi, a tratti li espone, l’insieme è una dimensione dominata dallo scambio e dall’attenzione reciproca.

 

La densità dei danzatori, nel movimento che li caratterizza, è una costante attorno alla quale gravita un disegno coreografico che, come ci ha confermato il coreografo, è quasi interamente definito prima di entrare in scena. Tuttavia, esiste in questo sistema ancora un margine di variazione o, per meglio dire, deviazione, che è dato dalla componente umana e, più precisamente, da quella che Christos Papadopoulos ha definito come una letterale “negoziazione” che di fatto è ciò che rende possibile la comunicazione tra i corpi. Nello spettacolo il rapporto tra i piani individuale e collettivo traccia un crescendo che, procedendo nell’astrazione, evoca memorie e pensieri che mettono in connessione l’oggi con il tempo di prima. Lo stare insieme dei corpi sulla scena mette in risalto la sfera inter-relazionale senza caricarla di quella paura cui purtroppo abbiamo dovuto fare l’abitudine. Dell’ostilità del nostro presente non c’è traccia, non c’è un riferimento diretto.

 

 

A colloquio con lui poche ore prima del debutto dello spettacolo, emerge con chiarezza come il suo intento sia lontano da un approccio politico. Eppure, è nemmeno troppo velatamente che lo spettacolo si presta a una lettura, come minimo di natura sociale, dove interdipendenza, cooperazione e dialogo sono parole chiave di un discorso trasversale che qui organizza e “investe” la danza, ma che facilmente si ritrova anche al di là dei confini delle arti dal vivo. Christos Papadopoulos, nato nel 1976, formatosi per la danza alla School for New Dance Development di Amsterdam, per il teatro all’Accademia d’Arte drammatica Nazionale greca, laureatosi in Scienze politiche all’Università Panteion di Atene, è un coreografo abile nella composizione attraverso la sintesi.

 

Con la sua arte coreografica, molte istanze che oggi “impegnano” il discorso della danza sono qui presenti e i loro dosaggi sono calibrati: la ripetizione, la variazione, la resistenza, l’unione e la separazione dei corpi. Oltre a questo, in scena si palesa una profonda sapienza illumino-tecnica, capace di svelare e nascondere la danza in modo tale da esaltarne la forma in funzione del contenuto. È un gioco percettivo che non lascia indietro nessuno, il meccanismo è fluido, oliato. Con le sue parole precise e ponderate, Papadopoulos mi spiega che la misura dello spettacolo è calibrata unicamente sulla sua stessa percezione e capacità di lasciarsi portare. Parliamo della responsabilità che un artista deve assumersi e mi dice che per lui questa non può che essere intera, assoluta. Quello che accade in scena è l’espressione diretta della sua misura emotiva e fisica. Il pubblico è invitato a fidarsi accettando di lasciarsi trasportare da ciò che vive.

 

Nel suo approccio alla coreografia non è mai previsto un livello di conoscenza di base utile per accedere all’esperienza. In linea con i suoi precedenti lavori – Elvedon (2016), Opus (2018) e Ion (2019) – anche Larsen C continua nell’esplorazione della percezione di quegli shift che, interponendosi tra un movimento e l’altro, permettono l’evoluzione della danza. Questa compattezza tra intenzioni e risultato, lo spazio concesso, in piena coscienza, alla negoziazione tra macro-scrittura coreografica e micro-improvvisazione, fa sì che il lavoro di Christos Papadopoulos si posizioni, in Europa, come uno dei riferimenti cui guardare per provare a comprendere quali possibili percorsi stia intraprendendo l’arte coreutica, protesa in questo tempo intermittente dove le forze in gioco tendono verso una desiderata e oggi più che mai necessaria pluralità delle forme sceniche e dei corpi. 

 

Le foto a corredo di questo articolo sono di Piero Tauro.

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