Speciale

Progetto Jazzi / Salvare il fuoco

19 Settembre 2017

Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

Il fuoco è stato uno degli incubi di questa estate. Incendi dappertutto, che hanno incenerito migliaia e migliaia di ettari di bosco. Spesso si è trattato di incendi dolosi, appiccati dall’uomo. Il fuoco fa paura, ma al tempo stesso ci attira. Gli uomini hanno un antico e profondo legame con il fuoco, tanto che è impossibile concepire l’umanità senza di lui, come ha scritto Catherine Perlès, studiosa delle origini della storia umana in Preistoria del fuoco (Einaudi). I miti studiati da James Frazer e diffusi in ogni luogo del Pianeta, ci dicono che l’Uomo si differenzia dall’animale solo a partire dal momento in cui diviene padrone del Fuoco. Il mito di Prometeo racconta inoltre che il fuoco è di natura divina, e che per averlo occorre rubarlo agli dei. Ma quando è accaduto questo?

 

Molte delle testimonianze disponibili ci dicono che già l’Homo erectus faceva uso del fuoco 400.000 anni fa, prima della comparsa dell’Homo sapiens. La scoperta e l’utilizzo del fuoco presuppone, scrive Perlès, un progresso psichico e non tecnico. L’Australopiteco possedeva tutti gli elementi necessari al suo utilizzo, dai fuochi spontanei alla possibilità di conservare e produrre il fuoco, ma, scrive la studiosa francese, non possedeva la struttura mentale per sfruttarlo. Per quanto la scoperta e l’utilizzo abbiano dunque un aspetto di natura tecnica, la dimensione psichica è dunque decisiva.  In effetti la tecnica è sempre un fatto mentale: dietro ogni progresso tecnico decisivo c’è sempre un elemento di tipo psichico, come ci ricorda anche Gaston Bachelard nel suo Poetica del fuoco, pubblicato postumo nel 1967. Il filosofo francese vede nella ricerca del fuoco una forma di sessualità sublimata e cerca di individuare in questo elemento presocratico gli impulsi di una verticalità psichica (“L’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco”).

 

Com’è cominciato tutto, come si è impadronito l’uomo del fuoco? Un tempo nei libri della scuola elementare s’incontrava l’immagine del fulmine che incendia il bosco e offre in tal modo agli uomini la possibilità di usarlo. Ricavare il fuoco dagli incendi spontanei non è tuttavia molto facile, ci spiega Catherine Perlès; per questo la studiosa di preistoria suppone che l’uomo probabilmente ha cercato innanzitutto di produrlo da solo. Una delle tecniche è quella della percussione di due selci. Negli scavi dei siti preistorici si trovano moltissimi esempi di pietre scheggiate e tuttavia non è possibile stabilire una connessione certa tra queste pietre e la produzione del fuoco. Il principio pratico consiste nel far cadere frammenti incandescenti prodotti dall’urto delle pietre su materiale infiammabile come stoppa, esca, foglie secche, trucioli, per poi consolidare il fuoco ravvivandolo con sostanze che bruciano più lentamente: legno, ossa, carbone, torba.

 

 

Solo dal Paleolitico si può pensare che questa tecnica sia stata in uso, data la presenza di tutti i materiali necessari. L’altra tecnica di produzione del fuoco, con cui molti si sono cimentati da ragazzi, è quella della rotazione manuale di un bastoncino su un altro bastone, che richiede l’uso di una cinghia o corda, perfezionamento che nel Paleolitico era già applicabile. Nel corso di questa epoca il legno è stato il maggior combustibile utilizzato. I paleontologi, che hanno studiato i focolari rinvenuti e i carboni ritrovati prevalentemente in grotte, hanno scoperto che le essenze più presenti sono: la quercia, il faggio, il pino, il bosso, l’acero e il pruno. I nostri progenitori usavano tutto quello che trovavano nel loro ambiente. Nella pianura sarmatica durante il Paleolitico superiore si usavano l’abete rosso, il salice, la betulla, poi anche larice, abete, pino, ginepro, sorbo, tasso, olmo, faggio, carpine e acero. Praticamente molti degli alberi che ancora crescono intorno a noi.

 

Anche l’osso è uno dei combustibili più utilizzati nei fuochi paleolitici, il secondo in ordine d’importanza. Il fuoco è calore, serve per riscaldare, ma anche per illuminare, effetto per noi ovvio, ma in un mondo in cui l’illuminazione artificiale era sconosciuta, davvero decisivo. La comparsa delle lampade e delle torce è un passaggio importante nella cultura umana. Dal paleolitico superiore appaiono le lampade di pietra. Il combustibile non è il legno, bensì i grassi animali e persino il midollo osseo. Lo scrittore e divulgatore francese Louis Figuier in un libro della fine dell’Ottocento ci ricorda come con il fuoco delle lampade svanirono le tenebre di antri e caverne dove l’uomo cercava rifugio; con il fuoco anche i climi rigidi divennero abitabili; diminuiva il timore degli animali feroci: “Perduti in mezzo a foreste infestate dalle belve i primi uomini ebbero quindi modo, grazie al fuoco acceso durante la notte, di addormentarsi senza temere gli attacchi delle grandi belve che si aggiravano non lontano da loro”.

 

Una visione oleografica ma probabilmente non troppo lontana dal vero. Il fuoco è stato il nostro principale alleato per migliaia di anni. Calore, luce, modificazione delle proprietà fisiche dei materiali riscaldati: questa è la meraviglia del fuoco, sussidio indispensabile per l’uomo in tutte le attività quotidiane (Perlès). L’uomo preistorico cui dobbiamo la scoperta del fuoco si è rivelato nel corso delle indagini archeologiche molto ingegnoso, tanto che gran parte degli utilizzi anche attuali del fuoco derivano da lui. La studiosa di preistoria ha calcolato che poteva ottenere il fuoco in dieci diversi modi. Sappiamo che poi poteva abbrustolire, bollire, arrostire gli alimenti, ma non possiamo sapere se effettivamente il cibo venisse cotto, dice Perlès. Di diverso parere è invece Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, che ha scritto un intero libro, L’intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri), per sostenere che è la cottura dei cibi ad aver reso l’uomo umano, cottura che può avvenire solo con il fuoco. La carne cotta è più digeribile, più sicura, fornisce più proteine della carne cruda, e quindi più energia. Sono i geni, a suo dire, dei cuochi della preistoria a circolare nei nostri corpi attuali; cuocendo si sono fortificati e sono sopravvissuti meglio dei mangiatori di carne cruda. Molto istruttivo è il capitolo in cui Wrangham si dedica alla confutazione delle valenze nutritive dei crudisti con tabelle, esperimenti, resoconti.

 

La sua idea è che gli uomini si sono adattati a mangiare cibi cotti come le mucche si sono adattate a mangiare l’erba, le pulci a succhiare il sangue o qualsiasi altro animale alla sua alimentazione tipica. Il nostro corpo e la nostra mente sono, secondo il biologo americano, l’effetto della cottura col fuoco: “Noi esseri umani siamo le scimmie che sanno cucinare, le creature del fuoco”. Usando il fuoco per cacciare i nostri progenitori hanno cominciato a modificare i territori che frequentavano, o dove erano stanziati; prima in modo inconsapevole, poi in modo consapevole e diretto. Il fuoco è stato il loro strumento principale. Con le fiamme hanno proceduto a disboscare i territori che abitavano, creando così ampi spazi coltivabili. Così si sono create condizioni favorevoli per alcune piante, specialmente le graminacee e i legumi, cui occorre la luce diretta del sole, come racconta Johan Goudsblom in un bellissimo libro, Fuoco e civiltà (Donzelli Editore).

 

Le società agricole stanziali sono il risultato delle fiamme che ardono. Il fuoco è fondamentale anche in altri ambiti della tecnica come la metallurgia, un capitolo decisivo della civiltà umana, che ha nelle figure dei fabbri i protagonisti di un’attività che confina con il sacro, come ci ricorda Mircea Eliade. Fuoco e religione sono il capitolo fondamentale a partire dal Paleolitico. Senza il fuoco non sarebbero pensabili i sacrifici, compresi quelli umani. L’Homo necans (Walker Burkert) usa il fuoco. Johan Goudsblom spiega il rapporto tra religione e fuoco da Israele alla Grecia e a Roma. Hestia è la divinità del focolare, dea della casa, contrapposta a Hermes, che diventerà poi Mercurio nel mondo romano. Il fuoco esce dai boschi, dalle foreste, dai campi e si lega alla città, ne diventa il centro, così come mutano pian piano, nel corso dei secoli, i combustibili che lo alimentano. Le città bruciano esattamente come i boschi, perché a lungo saranno costruite con il legno, contribuendo a disboscare le foreste che coprono il Pianeta, ridotte pian piano a poca cosa rispetto alle origini. È stato il fuoco a contribuire alla “pietrificazione” e “mattonificazione” delle città.

 

Un’antica religione, quella di Zoroastro, praticata ancora oggi in Iran e in India da alcune migliaia di fedeli, eredi di popoli che abitavano quelle regioni un tempo, conserva la memoria del nostro ancestrale rapporto con il fuoco. I parsi custodiscono nel loro sacrario il fuoco che arde da secoli e secoli nel tempio, dove si possono recitare le preghiere a Ahura Mazda, la divinità creatrice del mondo, divinità del fuoco. Negli anni Settanta Italo Calvino visita questo tempio nella città iraniana di Yazd e ne resta colpito. “La sola immagine possibile d’Ahura Mazda – scrive – è il fuoco: senza forma, senza limiti, che riscalda e divora e si propaga, nell’agilità delle sue lingue abbacinanti che cambiano colore a ogni istante: il fuoco che languisce nella lenta agonia della brace, si occulta nella cenere grigia, e d’improvviso rinasce, solleva le sue ali appuntite, riprende impeto, si slancia in una nuova fiammata violenta” (“Le fiamme in fiamme”, in Collezione di sabbia).

 

Lo scrittore è affascinato dal potere distruttivo del fuoco; lo teme, ma nello stesso tempo ne è attratto. Nel fuoco sono racchiusi, come aveva visto Bachelard, significati come purezza, distruzione, passione, timore, assolutezza. Il fuoco è morte e vita insieme. Calvino catturato dalla catena delle analogie trasferisce il suo sguardo all’universo: “L’universo è un incendio”. E si pone una serie vertiginosa di domande sul fuoco, sulla cenere, su quel processo irreversibile che conduce l’universo a decomporsi in una nube di calore: l’entropia. Scrive: “Il Tempo è come il fuoco”. Il pezzo, brani di diario di viaggio in Iran, si conclude con un apologo tratto da Jean Cocteau. Chiedono al poeta: se un incendio stesse distruggendo la tua casa, che cosa porteresti in salvo? Cocteau risponde: “Il fuoco”.   

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