«Cartaditalia» / La letteratura italiana nel nuovo millennio

23 Luglio 2019

L’iniziativa di Paolo Grossi di dedicare un intero numero di «Cartaditalia» (n. 5, 2019) a un bilancio complessivo sulla letteratura italiana del nuovo millennio è encomiabile; e altrettanto dicasi per il lavoro compiuto dal curatore Emanuele Zinato e dagli altri autori, Morena Marsilio, Marianna Marrucci e Valentino Baldi, che hanno scritto rispettivamente sullo stato della narrativa, della poesia e della saggistica. Nel confuso e disgregato panorama attuale abbiamo più che mai bisogno, per orientarci, di criteri, mappe, bussole; e poiché negli anni passati sono uscite svariate sintesi – ultime, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea di Gianluigi Simonetti (Il Mulino 2018) e Il romanzo contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi di Carlo Tirinanzi De Medici (Carocci 2018) – un ragionamento d’insieme è più che benvenuto. Soprattutto, mi pare importante mettere al centro della discussione il problema del valore, che è come dire il problema della gerarchia dei valori. Quali sono gli scrittori, quali le opere di maggior rilievo della letteratura duemillesca? 

  

Nel campo della narrativa, la prima osservazione che occorre ribadire riguarda una questione di cornice, cioè la contrazione dei tempi. Oggi si pubblica molto, moltissimo; nessuno è umanamente in grado di padroneggiare il quadro. Inoltre – e questo è il punto decisivo – delle nuove uscite si parla per un tempo ridotto, perché l’avvicendamento sugli scaffali dei librai è incalzante e ininterrotto. Ora, quando parliamo di valore letterario possiamo avere l’illusione che il problema stia nell’individuarlo, nel riconoscerlo. Il compito della critica sarebbe di identificare e cogliere il valore, dove esso già si trova: un’attività diagnostica, per dir così. Nelle epoche di crisi e di trasformazione, poi, il valore assume i connotati di una malattia rara: tende a celarsi, a acquattarsi negli anfratti, quasi giocando a nascondino con la critica. Ma le cose, a mio avviso, stanno diversamente. Il valore non è un dato: è un prodotto. Non è qualcosa che si trovi bell’e pronto, è qualcosa si costruisce. Ed è il risultato di un’attività collettiva, alla quale partecipano, a diverso titolo, il pubblico dei lettori, le diverse categorie di esperti (agenti, editori, critici, accademici, insegnanti), nonché gli scrittori medesimi, che non fermandosi a un unico libro possono trarre profitto dall’accoglienza ricevuta anche in termini qualitativi, oltre che quantitativi.  

 

Detto altrimenti, la questione fondamentale, più che l’identificazione dei valori, consiste nel processo di valorizzazione. Quando viene pubblicata un’opera, il critico comincia a metterne in luce connotati e caratteri, ai quali attribuisce un segno positivo o negativo. Tale valutazione dovrebbe incontrarsi e interagire con le opinioni di altri; dovrebbe essere sottoposta a verifica, dopo qualche tempo (il proverbiale banco di prova della seconda lettura); dovrebbe intrecciarsi con la risposta dei lettori; dovrebbe infine ripercuotersi sull’attività stessa di chi scrive. Nel corso di questa vicenda – e potremmo ben dire: di questo dialogo a più voci – dovrebbero acquistare evidenza alcuni tratti distintivi, attorno a cui si coagulano sia apprezzamenti e consensi, sia indugi problematici e perfino considerazioni controverse, purché abbastanza ben messe a fuoco da tener desta l’attenzione. E poiché il divenire non conosce pause, nuove schiere e nuove leve di lettori e critici saranno nel frattempo entrati in gioco, ciascuno con le proprie esigenze e aspettative: sì che le valutazioni si consolidano, orientano le tradizioni, sedimentano – infine – nei canoni. Mutevoli a loro volta, beninteso: la storia non si ferma. Ma per intanto, non dimentichiamoci che quarant’anni fa Primo Levi non era un autore canonico, mentre Calvino cominciava appena a diventarlo; e che c’è stata un’epoca in cui Alfredo Panzini era più apprezzato di Giovanni Verga. 

 

Ora, perché un processo di valorizzazione abbia luogo, sono necessari certi tempi, che sono appunto ciò che oggi sembra mancare. Le novità si bruciano troppo in fretta; i confronti scarseggiano, o sono troppo precipitosi; le opere promettenti sono penalizzate dalla difficoltà a rimanere abbastanza a lungo entro il raggio d’interesse dei commentatori. La tendenza alla piattezza e all’omologazione, spesso lamentata dalla critica, dipende anche dalla distanza eccessiva da cui le opere sono sogguardate. Dopo tutto, una narrazione è una narrazione, e tutte le narrazioni, in quanto tali, si assomigliano. Certo, è possibile che una speculare contrazione dei tempi si verifichi sul versante della produzione dei testi. Capita – non sempre, ma non di rado – di leggere un’opera riportando l’impressione che l’autore non ci abbia lavorato abbastanza; e, allo stesso modo, è possibile che l’intervento editoriale sui dattiloscritti in lavorazione si esplichi più nell’applicazione meccanica di criteri generali che non nel tentativo di comprendere la legge interna del singolo testo, a volte anche al di là della consapevolezza degli autori (questo, non altro, sarebbe il lavoro dell’editor). Sta di fatto che l’effetto complessivo della contrazione dei tempi è una fomentazione dell’effimero: donde l’immagine tuttora piuttosto sfocata della narrativa non di oggi, ma degli ultimi due o tre decenni. Dopo la fine del Novecento – che a mio avviso si è consumata, nella letteratura italiana, con un decennio di anticipo sulla scadenza cronologica – i valori sonno rimasti piuttosto fluidi, i borsini instabili. Né mi pare appropriato insistere sul divario (stavo per dire: sullo spread) rispetto alla narrativa in lingua inglese o spagnola, se è vero che la base dei parlanti è di sette o otto volte superiore a quella degli italofoni. 

 

 

La seconda considerazione che vorrei fare riguarda il ruolo della scuola. A ben vedere, l’immagine della narrativa italiana del Novecento è stata sensibilmente condizionata dal varo di collane destinate al nuovo pubblico della scuola media unificata, istituita all’inizio degli anni Sessanta: le «Letture per la scuola media» di Einaudi, «Narratori moderni per la scuola» di Bompiani, «Airone» di Mondadori. E del resto, la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, prototipo e pietra di paragone di ogni canone letterario nazionale, nasceva dalla richiesta dell’editore Morano, convinto della necessità di un manuale scolastico per la nuova Italia. Sulle proposte editoriali odierne non sono aggiornato, ma credo di non sbagliare dicendo che nessuna collana è finora riuscita a lasciare davvero un segno. Proprio dei nostri tempi è semmai un altro fenomeno, sintomaticamente diverso: la periodica proposta di serie di classici contemporanei in vendita in edicola, in allegato a questo o quel quotidiano. Di nuovo, a dominare è l’accorciamento dei tempi: un volume a settimana, migliaia di copie vendute (buona cosa, sia chiaro), ma nessun investimento su una possibile durata. Anziché sui lettori potenziali – i ragazzi – si punta sui lettori esistenti, per lo più di età avanzata (tali sono, ormai, i frequentatori delle edicole). Ma forse varrebbe la pena di riprovare. Forse le case editrici potrebbero sforzarsi di selezionare un numero ristretto di libri sui quali scommettere: non per le adozioni scolastiche in senso stretto, ma per le letture consigliate, a qualunque titolo (per l’estate, ad esempio). Escludendo, va da sé, i libri troppo voluminosi: che forse (chissà) potrebbero trovare spazio in una collana ad hoc per chi è diventato già un lettore convinto.

 

Un’ultima nota di carattere metodologico. Nelle pagine di «Cartaditalia» – e ancor più nel dibattito che ne è seguito nei locali dell’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles – séguita ad aleggiare lo spettro di una logica di mercato considerata come intrinsecamente perniciosa. Una connotazione limitativa o censoria pesa su ogni occorrenza dell’aggettivo «commerciale», in sistematica antitesi con le ragioni dell’arte. Ora, a me pare che sarebbe utile farla finita una volta per tutte con una concezione del mercato così piatta e semplicistica. Noi viviamo in un’economia di mercato: tutti – scrittori, editori, librai – aspirano alla diffusione dei prodotti che contribuiscono a mettere in circolazione. Certo, ci sono differenze di qualità: chi lo nega? Ma lo stesso accade, che so, con gli abiti, o con gli alimentari. «Mercato» è sia la merendina confezionata o l’affettato in busta del discount, sia il dolce di pasticceria o l’insaccato che il salumiere competente insiste per tagliare a coltello e non a macchina. E attenzione: non si opponga l’artigianato alla grande industria, perché dipende tutto dal tipo di prodotti che prendiamo in considerazione. Nessun apparecchio televisivo, nessuna cassa acustica, nessun trapano elettrico è frutto di lavoro artigianale nel senso letterale della parola. Un mercato unico, indifferenziato, omogeneizzato, semplicemente non esiste. L’editore che pubblica libri mediocri non sta obbedendo a una logica di mercato: si sta solo indirizzando a un certo segmento del mercato, e non è affatto detto che ottenga i risultati che si augura, specialmente se ha confuso un segmento di mercato con un altro.

 

Cosa che accade, temo, molto più spesso di quanto non si pensi. Del resto, i bilanci delle case editrici, delle grandi specialmente, sono lì a testimoniarlo.

La demonizzazione del mercato ha però anche un risvolto di carattere propriamente critico, perché tende a obnubilare un dato importante. In campo culturale, molte innovazioni – la maggior parte delle innovazioni, anzi, se non tutte – vengono dal basso. Gli artisti le vagliano; ne raccolgono alcune, che elaborano e perfezionano; grazie quest’opera, gli esiti migliori potranno trovare dimora stabile anche nella produzione più raffinata. Questa è la storia della modernità, dall’avvento del romanzo allo «sdoganamento» dei generi popolari, dal successo del melodramma all’esplosione contemporanea della canzone. Perché se è vero, come asseriva Montale, che il gran semenzaio della poesia è la prosa, è vero altresì che la pépinière della narrativa è la produzione di intrattenimento. Peraltro, l’idea (condivisa da molti) che l’intrattenimento sia diventato la cifra dominante della letteratura attuale mi sembra infondata.

 

Non c’è motivo di pensare che i lettori, le lettrici, specie le giovani lettrici, non cerchino nei libri qualcosa di importante per la loro vita. In quali libri le cercano, naturalmente, è un discorso diverso: assai meno facile, peraltro, di quanto può sembrare – soprattutto a chi si appaghi della tradizionale tripartizione fra highbrow, middlebrow e lowbrow (implicitamente riecheggiata anche da Zinato), che, al pari della condanna indiscriminata dell’industria culturale, ha avuto un senso qualche decennio fa, ma oggi come oggi temo non serva a molto. Per rendere ragione dell’articolazione della letteratura attuale occorrono tassonomie alternative. Bisogna pensarci, sul serio. E poiché uno dei maggiori pregi di questo numero di «Cartaditalia» è che propone dei nomi, se questa discussione andrà avanti – come mi auguro – occorrerà entrare nel merito, e ponderarli con attenzione. Senza illudersi che il giudizio di chi scrive nel 2019 o nel 2020 su quanto è accaduto dal 2000 in poi sarà condiviso dai lettori del 2030 o del 2040.  

 

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