Diario americano / Trump nella matrix mediatica

16 Novembre 2020

Un recente editoriale del “New York Times” si apriva con questa constatazione: “Non si capisce se Trump stia preparando un colpo di stato o se stia facendo i capricci”. È una frase che riassume bene lo sconcerto del dopo-elezioni. Ma, intendiamoci, è sconcerto solo per alcuni. Era ovvio che Trump non avrebbe mai ammesso una sconfitta, e che avrebbe attivamente cercato di distorcere il risultato delle elezioni approfittando della vaghezza legislativa che orbita intorno alla ferraglia del Collegio Elettorale. Chi ha letto il mio articolo del 4 novembre però sa che avevo posto una condizione: sarebbe stato molto difficile ribaltare il risultato se Biden avesse vinto con cinque milioni di voti, se presi negli stati giusti: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin, Florida e Arizona. Biden li ha vinti. Non in Ohio e Florida, ma ha vinto in Nevada e soprattutto in Georgia, cosa che sembra impossibile a chi non conosca la struttura capillare che i democratici sono riusciti a creare in quello stato per registrare 800.000 nuovi votanti, soprattutto afro-americani. È una struttura che dovrà servir loro ancora, perché il 5 gennaio in Georgia ci saranno i ballottaggi dei due senatori, e ai democratici servono appunto due senatori per avere la maggioranza al Senato. Se non ci riusciranno, avranno vinto la battaglia per la presidenza ma non la guerra per l’America. 

 

E Trump nel frattempo che farà? Questa è la domanda che diventerà irrilevante nel momento in cui Trump ammetterà di essere stato sconfitto, non con un discorso, che non pronuncerà mai, ma con un silenzioso trasferimento nella sua tenuta in Florida, in attesa che le indagini della Procura di New York lo vengano a raggiungere. Non può permetterlo, ma nemmeno può rimanere alla Casa Bianca dopo il 20 gennaio. Dunque, a che punto siamo con il colpo di stato? 

Non si sa, non si capisce. Potrebbero essere capricci, però questo bambino capriccioso ha fatto la stessa cosa che qualunque caudillo farebbe: ha sostituito alcuni dei vertici della difesa con dei suoi fedelissimi. E sabato pomeriggio ha salutato sorridendo, dall’auto corazzata presidenziale, i membri del suo culto che fuori dalla Casa Bianca strillavano: “Contate i voti!” (eh, sì, in genere è contando i voti che si scopre quando qualcuno ha perso) mentre andava giocare a golf in Virginia. E questo è il vero tocco di classe. Come se Danton avesse ordinato di fare la Rivoluzione Francese alla sua cuoca; lui aveva una partita di pallacorda che davvero non era da perdere.

 

Insomma, bisogna prenderlo sul serio? C’è chi l’ha fatto: Roger Cohen sul “New York Times”, ad esempio, e Timothy Snyder della Yale University, uno storico dell’Europa dell’Est che ha passato la vita a studiare sistemi totalitari, in un’intervista con “The Guardian”: “Anche se sembra così male organizzato,” ha detto Snyder, “il colpo di stato non è di per sé destinato a fallire; bisogna che venga fatto fallire. I colpi di stato vengono stroncati o subito o mai più. Mentre sono in corso abbiamo la tendenza a guardare altrove, come molti stanno facendo. Quando cono conclusi, ci scopriamo impotenti”.

Ma Snyder ha in mente dei dittatori veri, gente che ha la disciplina del tiranno. Trump ha poca disciplina. È la sua forza, perché i suoi sostenitori impazziscono di gioia quando vedono che è capace di buttare un cerino accesso sulla benzina del mondo mentre va a giocare a golf, ma è anche la sua debolezza, perché la dittatura è una gran fatica. Meno della democrazia, è vero, ma richiede una discreta dose di compulsione ossessiva, che Trump sembra riservare solo alla sua ben nota misofobia.

 

La migliore difesa contro il colpo di testa rimangono i cinque milioni di voti per Biden. Più di 75 milioni di persone l’hanno votato (e il numero è destinato ad aumentare con il completamento dei conteggi), ma è anche vero che quasi 71 milioni hanno votato per Trump. Una buona percentuale dei suoi elettori non sa qual è la differenza tra "dittatura" e "democrazia", e lo potrebbe seguire senza sapere dove sta andando. Mi possono dire finché vogliono che si tratta solo di raccogliere soldi dai gonzi per pagare i debiti della campagna elettorale (nel momento in cui concedesse la vittoria a Biden le donazioni crollerebbero), o che è per galvanizzare la base in vista dei ballottaggi in Georgia. A Trump non importa niente dei senatori della Georgia se non servono a riconfermarlo alla Casa Bianca. Gli servono solo perché l'elezione di due senatori repubblicani costituirà la "prova" che il popolo americano ha scelto lui ed è stato truffato. Nello scenario peggiore, il Senato e i ministri più fedeli lo appoggeranno. Sarà l'equivalente dell'incendio del Reichstag, o almeno cercheranno di farlo apparire come tale. Ma è concepibile che le cose vadano così? Ogni giorno che passa lo è sempre meno, ma io spero lo stesso che Biden stia contattando i vertici militari fuori dall'orbita di Trump, perché senza il consenso pieno dell'esercito, e non solo dei capi nominati all’ultimo momento, il colpo di stato non si può fare. 

 

La cosa paradossale è che i repubblicani dovrebbero essere contentissimi di essersi liberati di un presidente troppo ingombrante e nello stesso tempo di avere rimontato in parte lo svantaggio rispetto ai Democratici alla Camera e nelle legislazioni statali. Molti di coloro che hanno votato contro Trump alle presidenziali hanno votato per loro nei singoli stati. Il senatore Mitch McConnell del Kentucky, presidente del Senato e vero Klemens von Metternich dei repubblicani, è stato rieletto con il 58% dei voti. Lindsay Graham, il più entusiasta leccapiedi di Trump, la più gran zoccola della politica americana, è stato rieletto a larga maggioranza nella South Carolina. Le speranze dei democratici di conquistare il Texas (assolutamente infondate, lasciatevelo dire da uno che ci abita) sono state travolte. Se vinceranno i ballottaggi in Georgia, i repubblicani potranno tenere Biden in ostaggio con un ostruzionismo assoluto come per anni hanno fatto con Obama. Perché dunque non scaricano Trump e non si dicono a vicenda di averla scampata bella? Nei primi giorni dopo le elezioni sembravano disposti a seguire Trump nel suicidio della nazione, e anche adesso ben pochi tra loro hanno riconosciuto la vittoria di Biden. Perché questa ostinazione ormai senza senso? 

 

 

Perché quando vendi l'anima non la puoi ricomprare a un prezzo più basso, anzi non la puoi ricomprare affatto. Quattro anni fa Slavoj Žižek aveva detto, ironicamente ma non troppo: “Non votate Hillary Clinton, votate Trump. Distruggerà il Partito Repubblicano”. Vero, l’ha distrutto, ma l’ha sostituito col Partito di Trump. I repubblicani hanno ceduto su tutti i loro sacrosanti principi; gli resta il complottismo. È quello il vero cerino acceso che è rimasto in mano ai 71 milioni di votanti per Trump. Più ancora del razzismo e del fondamentalismo evangelico, più ancora del disprezzo per tutto ciò che sa di “società”, il complottismo è l'unica scialuppa di salvataggio a cui si aggrappano. Al centro non possono più approdare, è un’isola traboccante di democratici. Aborrono i conservatori vecchio stile, e i pochi conservatori vecchio stile che sono rimasti aborrono loro. Rimane il complottismo. Rimangono Facebook, Twitter, Instagram, Newsmax, Infowars, One America News, Sinclair Channels e QAnon (nemmeno più Fox News, che ha osato anticipare la vittoria di Biden; i trumpiani scesi sabato a Washington urlavano “Fuck Fox News!”). In futuro, gli storici chiameranno questo periodo "the social media star wars": l’epoca della “realtà individualizzata”, in cui ognuno di noi vive nel suo personale Truman Show; realtà fratturata dentro la nostra testa, in cui il detto “Non è vero ma io ci credo” ha sostituito il principio di non contraddizione della logica aristotelica.

 

L’ingresso di nuovi media sulla scena della storia provoca sempre sconquassi. Dopo l’invenzione della stampa, ognuno poteva leggere la Bibbia tradotta nella propria lingua (non in Italia, dove le traduzioni della Bibbia venivano bruciate). Il risultato: la rivoluzione protestante, la modernità, e 130 anni di guerre di religione. Il mondo può credere che Trump sia stato il primo tiranno generato dai social media, ma non è così. Trump è solo una prova generale, un mostro di Frankenstein con molti difetti di fabbricazione. Il primo vero tiranno dei social media è Putin, che per quattro anni ha manovrato Trump come in remote control. Nemmeno Putin è onnipotente, però, e il suo limite è che in casa sua non può contare sulla facilità con cui gli americani credono ciecamente a chiunque gli sventoli in faccia la loro bandiera. Ma se dovesse venire alla ribalta un Putin americano, con un crocifisso in una mano e l’altra sulla tastiera del telefonino, con meno campi da golf e meno ingombrante narcisismo, il mondo non avrebbe scampo. Ma dovrebbe avere lo stesso controllo sull’industria della disinformazione che ha Putin, e questo in America è difficile perché i media sono più avanti dei politici. 

 

Dopo il 25 aprile, in Italia non si trovava più un fascista. Non era solo per furberia e convenienza. È che si era fermata la macchina della propaganda. Anche il fanatismo, dopotutto, è una bestia come le altre; va nutrita in continuazione, e se le tagli la catena alimentare può anche morire di fame. Ma nell’epoca delle guerre combattute a colpi di social media la propaganda prende l’aspetto del “ciclo di notizie” e interromperla è molto più difficile. In questi ultimi anni, Trump non è stato solo un utente di Twitter ma un partner, un social medium lui stesso. Tutti abbiamo avuto il cervello assolutamente wired, collegato 24 ore al giorno a quello di Trump. I media si sono serviti di Trump per tenerci incollati a loro, e si sono serviti di noi per tenere incollato Trump a loro. Detto altrimenti (con una frase che ho sentito in un bar a Milano): "Tu sei lì che ti fai i fatti tuoi, e a un certo punto ti accorgi che sei finito nei suoi". Come si può sopravvivere in questo iperpresente? In un presente cioè completamente isterizzato, dove ogni reazione a qualunque cosa succeda prende l’aspetto ultra-isterico dell’“uomo del sottosuolo” di Dostoevskij, che sosteneva di vivere in uno stato di costante ipercoscienza? Fa impressione sapere che su Trump sono già stati scritti 150 libri, e che molti di più probabilmente se ne scriveranno. Ci ho pensato quando ho ricevuto L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro di Andrew Spannaus, pubblicato da Mimesis, già datato – inevitabilmente – ma non del tutto, e basato comunque su una panoramica ad ampio raggio che va tenuta presente se non si vuole soffocare nell’iperpresente.

 

Perché gli elettori di Trump sanno di avere questo in comune con lui: sono entrambi ridotti allo stato vegetativo, tuberi umani nelle serre della Matrix mediatica. E noi con loro, e io con tutti, finché un mese prima delle elezioni ho cancellato l’abbonamento a CNN, MSNBC e Fox News. Non sono ancora libero dalla Matrix, perché le loro notizie m’inseguono ogni volta che apro il computer (niente notifiche sul telefonino, quello no), ma forse ho mosso il primo passo per uscire dalla serra. (Mi ero dimenticato che i network generalisti, ABC, CBS, NBC, a volte danno notizie che incredibilmente non hanno niente a che fare con Trump). Però, anche se non è ancora possibile tirare il totale, mi voglio concedere una soddisfazione. Non sono uno che si emoziona per i politici, neanche per quelli che voto. Ma la prima volta che ho visto Kamala Harris in televisione mi ha colpito molto il suo tono sicuro e tranquillo. L’ho pensato subito: i democratici dovrebbero puntare su di lei. Come presidente, intendevo.

 

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