Non importa chi te lo dà, purché te lo dia / L'affetto è neutro, attenzione!

9 Dicembre 2016

Un pomeriggio, sotto un duro attacco di tristezza, mi sono messo a vagare per la città dove mi trovavo e passeggiando a caso sono sbucato in una piazza dove c’era una meravigliosa sagra della cioccolata. L’invasione di quel calore emotivo, di quella bontà, dell’affetto naturale sprigionato da quel bendidìo marron, mi hanno ridato in mezz’ora la forza e la lucidità per riprendermi in mano. Certo, la serotonina, ecc. ecc., ma la verità è che quegli artigiani squisiti avevano fatto il mio bene. Per pochi soldi quei cari maestri mi avevano dato una grande dose di affetto. La loro bravura aveva trasformato l’ergonomia delle cioccolate in morale. 

 

Lì ho capito che l’affetto è neutro: non importa chi te lo dà, purché te lo dia. È un qualcosa che non si lascia intaccare dal mezzo che lo veicola. L’affetto viene o non viene, chi o che cosa te lo porta non c’entra. E se non ha secondi fini, va comunque bene, è sempre positivo. Quando sei in difficoltà e ricevi uno sguardo solidale si dice che ti scalda il cuore, è un conforto di qualcuno che si mette dalla tua parte, sia una persona brutta o bella, un savio o un fuori di testa. Ma anche un oggetto può stimolare il nostro affetto. Non parliamo del tuo cane che vive per questo. Il suo affetto è ottimo, continuamente. E tu lo adori non come cane, ma come portatore perpetuo di affetto per te. 

 

Va da sé che l’affetto ha nature diverse a seconda di quale sia la sua provenienza, di chi ne sia l’artefice, un cane o una fidanzata. E si potrebbe di volta in volta anche eventualmente opinare sulla sua maggiore o minore genericità, sul suo “cinismo”. Non serve, tuttavia, avere particolari competenze tecniche (psicologiche o filosofiche) per riconoscere l’affetto. Tutti siamo innanzitutto dei “semplici fruitori/produttori” di affetto. Diciamo che il vino buono si può riconoscere anche senza essere un sommelier, perché quando incontriamo l’affetto – o il vino buono –

 lo percepiamo come segnale di vita, una brezza gentile talmente importante che la identifichiamo immediatamente e la prendiamo al volo. È un elemento essenziale per vivere. Per contro quando si è colpiti da una malattia, la stessa potenzialità affettiva viene meno (vedi Franco Fornari, Affetti e cancro, Raffaello Cortina 1985). Spinoza nel Seicento l’aveva detto che l’affetto “giova alla conservazione” (nell’Etica a proposito del bene). E per Cartesio “spinge all’azione”.

 

 

Il tema delle passioni è molto antico, c’è da perdersi nella bibliografia sulle Teorie delle passioni. 

L’affetto, tuttavia, ha conservato una bassa definibilità, lo stesso Freud ci ha girato attorno in più occasioni (ad esempio in Al di là del principio di piacere o nel Compendio di psicanalisi, dal 1915 al 1938) senza giungere a una descrizione sufficientemente cristallina. La sua natura, per fortuna, rimane vaga, è ontologicamente “evanescente”. Così l’affetto si configura più come una intensità che come un oggetto, non lo puoi definire, ma esiste ed è tra noi e a volte ci rende le giornate più mansuete e importanti. Proprio come la Poesia. L’affetto si mette a disposizione, per così dire, delle circostanze in cui via via si trova a operare. Mi viene in mente un film struggente come Il condominio dei cuori infranti (di Samuel Benchetrit, 2015): in quella banlieu infame il condominio si regge sulla relazione affettiva, ciascuno si affida all’altro, alla sua purezza disinteressata. E chi si innamora lo va a dire subito, per condividere il momento, ai suoi vicini che lo supportano in quella fatica meravigliosa. 

 

L’affetto è una delle poche cose che funzionano, in assoluto, perché è neutro, non ha bisogno di connotazioni, di rinvii, di collegamenti. È una funzione nelle nostre mani. Assomiglia molto alla nozione di insapore dei cinesi, un fulcro indeterminato da cui si irradia ogni gusto, descritto tempo fa da François Jullien (L’elogio dell’insapore, Raffaello Cortina 1999). 

 

Il problema è che l’affetto si deve imparare a decifrarlo, e di questo bisogna avere esperienza. Mentre nel mondo indifferenziato dei bambini tutto o quasi è affetto, per gli adulti c’è bisogno di verificare, di disambiguare i messaggi confusi, di certificare il segnale d’affetto sincero. Una volta approvato quell’affetto viene accolto con la massima adesione. Alda Merini usava ripetere: “Ringrazio sempre chi mi dà ragione”. In effetti, se ci si pensa, al di là del merito in questione, quando uno ti dà ragione ti manda una manifestazione di consentaneità, cioè di affetto. Ma questo può essere sufficiente a convalidare la sua positiva disposizione verso di te? La doppiezza dei messaggi di certa politica, ad esempio, risulta particolarmente insidiosa in questo senso (vedi qui il pezzo di M. Dall’Aglio sul recente Il rischio di fidarsi di Salvatore Natoli). 

 

Obbedendo a dinamiche di attrazione (volontaria, spontanea?) l’affetto crea legami, più o meno tenui, ma chiari e distinti. In fondo la nostra vera pratica quotidiana consiste essenzialmente in un’incessante ricerca di questa empatia sottile, perché noi sempre abbiamo bisogno di una rete, la più fitta possibile, di riconoscimenti autentici che ci consolidino nella nostra legittimità emotiva (è questa la ratio del mondo-like?). 

 

Purtroppo all’esercizio dell’affetto non tutti sono alfabetizzati. Oggi più che mai, perché viviamo in una società che ha interiorizzato l’abitudine al conflitto tra persone (sulla pervasività degli “stati di negazione” vedi qui Empatia di Ugo Morelli). La paura di essere gabbati, umiliati o traditi è una costante della nostra quotidianità, e non sono solo i grandi torti perpetrati dai potenti a creare i problemi, ma soprattutto le migliaia di sgambetti che, se non stai attento, rischi di subire dagli “agenti della prepotenza” che ci circondano. L’affetto è un ingrediente della miscela umana e quando c’è la coagula, se non c’è la discioglie (vedi La piccola cattiveria). 

 

Ph Elliott Erwitt.

 

Il problema (affetto/non affetto) sembrerebbe espandersi vertiginosamente se osservato nel crash valoriale che si sta imponendo nei fatti (le elezioni americane contribuiscono non poco in questo senso). I nostri comportamenti sembrano sempre più ispirati direttamente alle ragioni del conflitto, del nostro conflitto privato (io ce l’ho con te), del conflitto sociale (quelli come me ce l’hanno con gli altri), del conflitto internazionale (noi di qui ce l’abbiamo con quelli di lì). I sistemi di autocontrollo etico-sociale paiono indeboliti, e si fa largo la convinzione che azzardare nuovi sistemi di “dialogo con i fatti” diventi “pragmatico”, che agire con la forza prima di concordare strategie comuni sia più convincente, più efficace. Ci sarebbe da ragionare a lungo sull’”anaffettività” della politica contemporanea. In un simile contesto personalmente temo che il fabbisogno di affettività sia destinato ad aumentare. 

 

Le grandi crisi e i grandi problemi che ci affliggono ci hanno sicuramente infragiliti, ma non per questo la “funzione” dell’affetto smette di lavorare, essa può scattare con chiunque ci dia affetto, perché l’affetto è neutro e accettarlo significa in qualche modo farci andare bene anche il soggetto che ce lo porge. Che cosa avrebbero dovuto fare i bambini e le mogli dei soldati nazisti quando ricevevano delle tenere lettere piene di carinerie dai loro babbi e maritini impegnati tutto il “santo” giorno a sterminare ebrei e a distruggere l’Europa? Scrive Hans-Reinhold T., sottufficiale nel 29° Reggimento corazzato tedesco, il 18 ottobre 1944, durante l’avanzata attraverso la Polonia: 

 

Mia amata, oggi ti spedisco anche il ricciolo che hai tanto desiderato e ne approfitto per spiegarti anche perché non ho esaudito prima il tuo desiderio. Vedi, qui divido la stanza con altri camerati, , che troverebbero semplicemente ridicolo se mi tagliassi una ciocca di capelli, anzi sono sicuro che mi prenderebbero in giro perché probabilmente non comprendono il senso profondo di questo gesto. Adesso invece sono solo e non devo preoccuparmi. Che questo piccolo ricciolo ti possa dare sempre il coraggio necessario e faccia sì che si realizzino presto tutti i nostri desideri.

Tesoro mio, per oggi chiudo. Stammi bene, ti mando mille saluti e baci, 

tuo Hannes”.

 

Era “buono” quell’affetto dei soldati nazisti? Bambini e mogli avrebbero dovuto respingerlo? Un criminale può essere latore di affetto? L’affetto non guarda in faccia proprio nessuno? 

 È evidente che per soddisfare il mio fabbisogno affettivo posso anche ritrovarmi aggregato a strane combriccole. Siamo macchine a energia affettiva e anche la curva sud e la camorra, alla fine, sono soggetti indiscutibilmente portatori di affetto. 

 

Dice Timothy Snyder, curatore insieme a Marie Moutier delle Lettere dai soldati della Wehrmacht, (Corbaccio 2015) da cui ho tratto quella sopra citata, “i soldati tedeschi erano assolutamente consapevoli degli orrori ai quali assistevano o che commettevano, ma dal loro punto di vista tali crimini rappresentavano solo un elemento della loro quotidianità, e raramente quello di maggiore importanza. Essi erano molto più preoccupati di ciò che mangiavano, del luogo dove dormivano, di ciò che pensavano dei loro commilitoni e della lontananza dalle proprie famiglie”. 

 

Poi c’è l’affetto, diciamo così, paraculo, di chi brandisce la finta affezione, come le star che scelgono di sostenere qualche causa sociale-umanitaria per ignobili scopi, negati, di marketing, o i politici più sfacciati in campagna elettorale, o le pubblicità commerciali più subdole. Tutte cose sempre potentemente seduttive che i destinatari apprezzano e incamerano come affetti buoni, cose che non fanno male ma bene. Che ce ne sia di affetto, dicono, anche di quello falso, finché funziona. Questi sono gli scherzi della percezione: chi manifesta l’affetto che non sente, da un lato, e chi lo riceve e lo sente, dall’altro. Perché l’affetto in tutti i casi arriva là dove deve arrivare, e lo può fare perché appare neutro, anche quando non lo è.

 

L’affetto è una funzione ambigua, in sé gratificante, ma pericolosa nel momento in cui crea dipendenza. Discernere è decisivo. E discernere non è un’abilità innata. Un ragazzino esposto alle folate di demenza provenienti dal web e dal suo contesto sociale, non può che alimentarsi degli “affetti” che gli arrivano. E così l’individuo sguarnito di strumenti critici difensivi. È in questo terreno che giocano i mestatori di affetti, grandi o piccoli fratelli, che si contendono le nostre esistenze, e le deteriorano. Che siano anche queste delle nuove forme di “indebitamento”, come direbbe Maurizio Lazzarato (La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, 2012)? Dei crediti che riceviamo e che a un certo punto dovremo pagare?

 

P.S.: Dopo aver chiuso il pezzo vedo l'ultima scena dell'ultima puntata della serie di Paolo Sorrentino The young pope, dove Pio XIII tiene alla folla assiepata in Piazza San Marco un'omelia tutta incentrata su ciò che Dio non è, secondo i canoni della cosiddetta teologia negativa. Dio non si mostra, Dio non è simile a noi, Dio non ci consola – dice il giovane papa – ma conclude: "E tuttavia, Dio ci sorride". 

 

Mi è parsa una interessante affinità con quanto scritto sopra, no? 

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