Ridi, disperato

8 Luglio 2011

 

Alle prove, in un mercoledì pomeriggio in cui gli altri lavorano, siamo in trenta, quaranta, al Teatro Gobetti del Teatro Stabile, Torino. Sul palco i cinque giovani attori della compagnia guardano scanzonati il Maestro, seduto esausto a un gracile tavolino: ha i lunghi capelli bianchi incollati al cranio, quando s’alza è curvo, si appoggia a un bastone ortopedico. Dice che questo è il suo ‘Finale di teatro’, perché “le restrizioni implacabili della vecchiaia” gli stanno togliendo un diletto durato 41 anni. “È dal ’91 che ho mollato il mio Teatro dei Sensibili, ma tutti continuano a dirmi che io faccio le marionette. Ma io sono un suonatore ambulante di organetto di Barberia! è bello cantare ballate in una strada, mentre la gente passa e poi si ferma e ti ascolta. Una volta, all’Eur, a Roma, passando con il cappello in mano, raccogliemmo 700.000 lire”.

 

Non ha avuto molto tempo per provare Finale di teatro, il pensatore, scrittore, saggio, filosofo, saggista, drammaturgo Guido Ceronetti: “Effettivamente sì, chiamatelo pure collage, quello che vedrete: ci sono alcuni personaggi del mio teatro, e dei miei libri”. Helter Skelter (la canzone pre-punk dei Beatles che ispirò a Charles Manson il massacro nella villa di Roman Polanski) alle prove esplode a tutto volume, dà i brividi, ma Ceronetti non la vuole, stona, si prende troppo spazio, è emotivamente drammatica, in un progetto minimalista in cui anche la narrazione del massacro di Novi Ligure (Erika incita Omar a macellare il fratellino piangente… ), deve scorrere straniante e strana.

 

Madamini, il catalogo è questo: la crudeltà sessuale tra un uomo e una donna; la crudeltà dello sleale pugile Michele Bonaglia, fascista torturatore che sloga le ossa ai partigiani prima di essere ammazzato dai loro compagni in una strada di Druento; la crudeltà della vecchiaia che sfascia la bellezza di una donna, secondo Jacques Villon…  Ceronetti non ha più toni di predicatore stoico e biblico: con il suo parodistico accento torinese, un siparietto dopo l’altro, non ghigna più della atrocità della condizione umana: “Mi sforzo, senza mentire, di far sorridere, di essere un disperato che spartisce il suo pane restando ilare, di mostrare che il teatro è un luogo fraterno”.

 

 

La sera dopo, giovedì 23 giugno 2011, un’ora prima dello spettacolo fuori dal teatro ci sono già centinaia di devoti. Metà riescono a entrare. In sala ci sono anche narratori di miti come Roberto Calasso e cantori di ilari disastri come Vinicio Capossela.

 

Il rito comincia con la compagnia e Ceronetti che cantano l’OM dietro il siparietto; poi, con una tragica maschera bianca Nõ, il cantore di disperazioni si trascina a un bacile, le due attrici lo aiutano nelle abluzioni, come due monache di un Cristo senza fede da proporre; tintinnano le campanelle buddhiste. Poi gli sketch. Alla fine c’è una rosa bianca, per Ceronetti. Se ne va stanco dopo una affettuosa breve ovazione.

 

“Fuori troverete un tavolino con dei pezzi di carta: scrivete le vostri impressioni sullo spettacolo, e infilateli nella Bocca della Verità; vi risponderemo”; mio figlio, che ha 9 anni, gli disegna un grosso “CARINO!”, e con un po’ di fifa, emozionato, infila il suo complimento al vecchio.

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