Il Moses und Aron di Castellucci a Parigi

29 Ottobre 2015

“Una notte negativa e abbagliante di bianchezza”. Per percepire qualcosa della noche oscura tirata in bianco da Romeo Castellucci sul palcoscenico del Moses und Aron di Schönberg andato in scena all’Opéra Bastille di Parigi con la direzione di Philippe Jordan, bisogna paradossalmente cominciare col credere ai propri occhi e con l’affidarsi ai miraggi del suo deserto. E il primo di questi miraggi è un grande, solido, stagliato (così stagliato da apparire iperreale) Revox che sovrasta l’arco di proscenio con le sue bobine che girano lente – il movimento è quello fatale e stupefacente dell’automatismo d’antan, il fascino quello della vecchia fantascienza – riversando il nastro magnetico tra le mani di un’ombra che lo accoglie e lo aggroviglia con la tormentata rassegnazione di chi vorrebbe, ma non può, rifiutare un dono soverchiante. È Mosè che, come tutti i chiamati, tenta anzitutto di respingere l’investitura della profezia con cui lo avvolge la voce del roveto ardente, preferirebbe continuare a guidare le sue greggi, piuttosto che il popolo improvvisamente eletto da Dio tra tutti i popoli, malgrado sia debole e impotente, proprio come lui che “può pensare, ma non parlare”, profeta balbuziente a cui manca il verbo, visionario che (non) vede nulla. Alla sua balbuzie, Arnold Schönberg consegnò un altro dono improvvido e misterioso, lo Sprechgesang, un canto parlato (e non un recitar cantando) che, spiega il direttore Jordan, si esprime attraverso gli intervalli, un canto in continua caduta di canto che fa del profeta interpretato da Thomas Johannes Mayer un personaggio che dall’inizio alla fine non smette di essere tragico, cioè schiacciato dalla propria insufficienza, asfissiato dalla propria mancanza, quanto il tenorile Aronne di John Graham Hall è facondo, ampio e avvolgente nel suo canto.

 

Répétition générale Moses und Aron, Bernd Uhlig - Opéra national de Paris

 

Veggente accecato da un Dio che disdegna le proprie rappresentazioni, Mosè appare e, proprio nel momento della sua controversa vocazione, Romeo Castellucci chiama alle sue spalle il suo fantasma: un bellissimo toro si sporge da una teca, è pallido come un ectoplasma ma un inimitabile fremito delle nari, un minaccioso movimento della testa, rivelano la sua vita: più che un simbolo è una presenza, una forza possente e incarnata verso la quale il tempo è pronto ad arretrare, a riavvolgersi. Come se lo sentisse, il profeta si volta e forse, attraverso il proprio sguardo accecato, lo vede. O forse continua a non vederlo. Ma il vitello d’oro dell’immagine è già lì, nel destino o nel sogno, il suo numinoso respiro animale sdoppia la rivelazione del Dio unico che, chiuso nella fortezza delle sue negazioni più volte ribadite – unsichtbarer und unvorsttellerbarer – sensibile al senso più speculativo (l’udito, secondo Hegel), si può sentire, ma non vedere. Questo toro, come poi si vedrà nel secondo atto dell’opera incompiuta di Schönberg, è anche e soprattutto una forma, una perturbante forma vivente che, prima di incontrarla in un allevamento, il regista è andato a scovare in chissà quale Lascaux della mente (o nelle evoluzioni del toro picassiano), ben sapendo che se l’amore “non è mai stanco di formare immagini”, come canta Aronne, “nessuna immagine (di Dio)”, come ribatte Mosè, “mai potrà essere formata”.

 

Répétition générale Moses und Aron, Bernd Uhlig - Opéra national de Paris

 

Nell’inesausto aprirsi e chiudersi di questa dialettica, tutta novecentesca (e ancora nostra: un’irrisolta disputa sulle immagini scuote da anni la cultura europea) Castellucci ha costruito una scena contesa tra il bianco abbacinante del deserto e il nero oleoso della scrittura, i due fuochi che, secondo la qabbalah si alternano nel testo della Torah, dove anche i margini bianchi sono saturati dalla potenza invisibile del verbo divino. L’ha costruita con una progressione verso l’evidenza del contrasto tragico che guida, e spezza, la parabola di un Mosè guardato, sì, attraverso il grido disperato che suggella la fine del secondo atto (la partitura del terzo, come è noto, non è mai stata ultimata dal musicista austriaco), con quel vertiginoso “O Worth, du Worth…” (“o Verbo, verbo che mi manchi”), che riprende e riscrive dal fondo l’intero movimento drammatico come la registrazione di un crollo. Ma più sottilmente ancora, l’ha fissato nella piega più umana e più vulnerabile della sua solitudine profetica, quasi reinterpretando una famosa affermazione di Kafka sulla sua incompiutezza: “Mosè non raggiunse Canaan, non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo”.

 

Répétition générale Moses und Aron, Bernd Uhlig - Opéra national de Paris

 

Nel primo atto, interamente sigillato dal velatino in una nube di inconoscenza, lo vediamo brancolare smarrito, mentre – fratello dove sei? – cerca Aronne: due voci che si inseguono e si incrociano in uno struggente dialogo tra sordi, ciascuna per così dire chiusa nel proprio versetto, due corpi sperduti e letteralmente persi di vista, bianchi sul bianco (come l’apocalittico quadrato di Malevic). Con la stessa vaghezza, in un ondulato e spettrale movimento di dune, si vede il coro del popolo sorgere dalla sua marcia estenuata: le sue voci intonano prima lo stupore e poi il dubbio per il nuovo dio che non assomiglia a nulla. Dispositivo ambiguo che regola la visione secondo le leggi dell’accecamento mistico, nel contempo schermo e diaframma, il velatino separa il popolo dal suo profeta e dallo sguardo di quest’altro popolo, anch’esso sempre in caccia di un’immagine, di un dio visibile, manifestato ed efficace, che siamo noi spettatori.

 

Facile a dirsi, per chi un po’ frequenta il teatro di Romeo Castellucci, è un altro velo nero del pastore. Da fuori, il Mosè di Mayer lo saggia con una timida pressione della mano, come se volesse entrare nel mondo che gli è negato, quello del linguaggio (ed è un gesto, certo, che ricorda quello che da dentro compivano i primitivi di Go down, Moses in cerca di aiuto). Sulla sua superficie vengono proiettate parole all’inizio evidenti e leggibili, poi sempre più veloci e indistinguibili, una proliferazione babelica che raggiunge il suo parossismo di insignificanza nel momento in cui dall’alto cala il bastone magico (l’agile serpente) di Aronne: un lungo motore bianco che gira su stesso. La macchina idolatrica della comunicazione (la macchina retorica e seduttiva del linguaggio, suggerisce nelle sue note Piersandra Di Matteo, codrammaturga con Christian Longchamp di questa versione di Moses und Aron) è ormai accesa, comincia già a funzionare nella bocca di Aronne, il “ricettacolo” della profezia che, traducendola per un “popolo di bambini”, ne tradisce l’ineffabilità: se si crede è perché si vede – il bastone che si muta in serpente, la mano di Mosé che diventa lebbrosa, le acque del Nilo che si tingono di sangue – se ci si genuflette è davanti alla potenza del divino attestata dalla visibilità dei suoi prodigi.

 

Nel finale del primo atto, Castellucci ne compie uno per suo conto: proprio nel momento in cui il popolo sta cantando la sua alleanza con il dio che schiaccerà Faraone e lo renderà libero, lungo le pareti bianche della scena si apre una fenditura nera, un fregio formicolante di corpi nudi ammassati gli uni sugli altri. È una sontuosa, turbolenta visione da giudizio finale che a tutta prima sembra prodotta da un artificio digitale (simile a quelli delle videoinstallazioni pittoriche di artisti come Lech Majewski), mentre si tratta di un vero tableau vivant. Quando le nicchie si svuotano, solo il corpo di una donna si sporge scultoreo, aggrappato alla parete di fondo come un geco. Poi con l’ultimo respiro della musica, il corpo cade e rotola sul palcoscenico, dove rimane, primo, nitido segno del sacrificio che si annuncia.

 

Nel secondo atto, il velo è squarciato: la carne, l’orgia e la moltitudine tracimano nel totale oblio del dio che interdice le proprie rappresentazioni e non ama i sacrifici. Come un rimosso (anzi come “il” rimosso del monoteismo) il grande toro riemerge dalle acque del sogno, esce dalla sua teca e avanza al centro della scena per essere adorato in tutta la sua imponenza di immagine che non nasconde più nulla: il suo profilo da campione mostra i fianchi poderosi, la piccola testa cornuta, l’enorme sesso. Provato dalla lunga assenza di Mosè che, salito sulla montagna per ricevere la Legge, vi è scomparso, divorato dai dubbi, insultato dal popolo stanco di attendere, lordato di nero e ricoperto come un re carnevalesco e sacrificale dai nastri del Revox, Aronne rende omaggio alla materia e ammette: “questa immagine dimostra che in tutto quello che esiste vive un dio…Visibile, cangiante, come qualunque altra cosa, secondaria, è la forma che le ho dato. In questo simbolo, adorate voi stessi”.

 

Tutti gli elementi del primo atto sono presenti nel secondo, ma rovesciati: il nero rimpiazza il bianco e non rappresenta più soltanto la parola, ma anche il sangue, è un sangue estratto dalle viscere della terra, come il petrolio dal deserto, che ben presto, in un crescendo di festa e di sacrificio, imbratta e scrive ogni corpo e ogni parte del palcoscenico. Al suo ritorno dal Sinai, Mosè ritrova Aronne, circondato da montagne, trasformato in un idolo vivente: i nastri lo ricoprono come una pelliccia, una lunga maschera africana reifica il suo volto, mentre troneggia ieratico, immobile, impugnando il suo bastone in mezzo al popolo. Servirà a poco spezzare le corna del vitello d’oro, dissipare il riflesso dell’incapacità a “afferrare in un’immagine ciò che è senza limite” (un’espressione del libretto schönbergiano che sembra ripresa pari pari dalle dispute bizantine sull’adorazione delle icone), se la debolezza identitaria di Aronne non è che il rovescio necessario dell’afasia espressiva dell’irrappresentabile idea mosaica. Mentre il sipario cala su di lui assieme al buio, il profeta crolla su se stesso, vinto, prostrato, con quello che non è neanche un grido, ma un anelito che si spegne: O Worth, du Worth, das mir fehlt!

 

Nella luce fragorosa dell’applauso ritmato che segue, dopo un attimo di silenzio, il pubblico dell’Opéra Bastille saluta anzitutto il dissolversi e il riapparire di un commovente sogno artistico reso possibile da una formidabile impresa collettiva che pian piano va a schierarsi sul proscenio: il popolo degli ottantacinque cantanti e dei trenta figuranti (tra cui un gruppo di disabili della cui disabilità gli spettatori quasi non si sono accorti), un Israele quasi sempre in scena, i due direttori dei Cori dell’Opéra de Paris, José Luis Basso e il suo aggiunto Alessandro Di Stefano, la coreografa Cindy Van Acker, i due protagonisti che sporchi e giustamente fieri alzano le mani intrecciate, il direttore musicale, lo svizzero Philippe Jordan, amatissimo dai melomani parigini. Che da parte sua ha dimostrato di aver avuto coraggiosamente ragione: la temibile dodecafonia è “un mezzo, non un fine”, e nella fattispecie del Moses und Aron, un mezzo, anzi una lingua, dotata di una spiccata vocazione teatrale. Così tanto che, passati i primi cinque minuti, anche un goy della musica quale lo scrivente ne ha assunto la complessità melodica come una modalità espressiva necessaria, una naturale anti-natura.

 

Répétition générale Moses und Aron, Bernd Uhlig - Opéra national de Paris

 

Quest’opera incompiuta è fatta per il teatro, come ha scritto Jordan “chiama la scena”. E Romeo Castellucci (anche lui sul palco, inedito, barbuto e irriconoscibile) ha raccolto la sfida di par suo, come e persino meglio che nei suoi spettacoli di creazione: nella durata musicale sembra aver sperimentato una nuova capacità di concentrazione, un tempo scolpito a cera persa, con più precisione; nel canto e nei cantanti ha ritrovato quel surplus di incarnazione che talvolta è mancato al suo verbo teatrale, e puntualmente lo ha restituito loro, strappati all’immobilismo, sporcati dall’azione, corpi eroici e non più solo eroiche voci. Nello spazio di neanche due ore Moses und Aron ha fatto balenare un’essenza di Novecento, mostrandoci la contraddizione della sua grandezza e della sua miseria, del suo anelito e della sua sconfitta, non come un reperto, ma come una luce soffocata che continuiamo a portare in noi. Frastornati dagli applausi, non siamo riusciti a registrare il “qualche fischio” che secondo Repubblica proveniva dall’ultima balconata. È sempre il popolo che fischia a teatro ma talvolta, come racconta Baudelaire, anche il potere. Può darsi che un fischio solitario possa (o almeno così si legge in Fanciullo) trafiggere un artista. Non ne basta una selva per seppellire un’opera d’arte.

 

 

In scena fino al 9 novembre all’Opéra Bastille di Parigi. Ripresa integrale dello spettacolo fatto da Artè.

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