Speciale
Untori, numeri e false voci
Di tutti gli strumenti inventati dal genere umano si può fare un uso buono o cattivo. Ad esempio, per quanto riguarda la matematica, io mi sono convinto da tempo (a ragione o a torto: non ho le prove di quanto sto per dire) che usi cattivi, compresi in un arco che va dal discutibile al deleterio fino al pessimo e all’esecrabile, sono avvenuti in campo economico-finanziario. Economisti ignari di matematica e matematici ignari di economia hanno cooperato per mettere in circolazione una serie di tecniche e procedure che hanno provocato effetti enormi, in larga misura imprevisti, nella più assoluta indifferenza dell’aurea definizione, condivisa a suo tempo dallo stesso Adam Smith, secondo cui l’economia, dopo tutto, è «una scienza morale».
Esempi di uso buono, anzi, prezioso della matematica si trovano invece in campo medico; e in particolare in campo epidemiologico, tema che imperversa nell’informazione di questi giorni. Un’efficace esposizione dei dati fondamentali è stata fornita da Paolo Giordano sul «Corriere della Sera» dello scorso 25 febbraio, in un articolo al quale rimando senz’altro (Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos).
Dalle considerazioni di Paolo Giordano – non diverse, del resto, da quelle fatte da numerosi esperti, e non solo in questo frangente, a cominciare dal noto virologo Roberto Burioni – si possono comprendere bene certi aspetti della questione dei vaccini, di cui molto si è dibattuto in tempi recenti. Ad esempio, risulta chiaro perché, per prevenire le epidemie, è indispensabile che siano vaccinate percentuali ben definite della popolazione, diverse a seconda delle malattie (la cosiddetta «immunità di gregge», herd immunity). Se si richiede una copertura vaccinale elevata per il morbillo (il 95%) è perché il morbillo è una malattia molto contagiosa: un malato di morbillo infetta in media altre 15 persone. Quindici sarà quindi il parametro R0 del cosiddetto «modello SIR»: sigla, questa, desunta dalle iniziali delle tre categorie o compartimenti in cui la popolazione viene suddivisa in questo tipo di analisi, cioè Susceptibles (coloro che possono ammalarsi), Infectious o Infected (gli infettivi o infettati), Ricovered (i guariti). Ma il discorso sui modelli matematici applicati all’epidemiologia potrebbe essere lungo, e richiederebbe competenze che non ho. Piuttosto, converrà soffermarsi su un altro aspetto.
I modelli matematici che spiegano la diffusione delle epidemie possono essere usati anche per descrivere la diffusione delle notizie; in particolare, delle notizie false. Come scrive lo stesso Paolo Giordano, «Anche rispetto a un’informazione errata ognuno di noi appartiene a uno dei tre insiemi: i Suscettibili, gli Infetti oppure i Guariti». Questa dinamica è in qualche maniera adombrata da una ormai consolidata metafora: l’uso dell’aggettivo «virale» per indicare una diffusione capillare e repentina. Personalmente, io l’ho sempre trovato sgradevole. Faccio fatica a scindere i vocaboli «virus» e derivati dalla connotazione patologica: se una parola, uno slogan, un modo di dire, un aneddoto, un’immagine, un filmato viene associato all’attributo «virale» non riesco a non percepire un’implicazione morbosa, che può investire sia la semplice propagazione (è improprio pericoloso perverso che una certa cosa sia divulgata), sia la cosa in sé, sulla quale ai miei occhi viene immediatamente a gravare un’ipoteca di nocività. Ciò che viene qualificato come «virale» mi pare insomma veicoli sempre contenuti falsi, mistificanti, malevoli, oltraggiosi.
Ciò detto, a un italianista non può non sovvenire una circostanza notevolissima. La più accurata rappresentazione del propagarsi di un’epidemia, la peste del 1630 in Lombardia descritta nel cap. XXXI dei Promessi sposi, è immediatamente seguita dalla descrizione del delirio degli untori (cap. XXXII). Alla diffusione del contagio s’intreccia un’epidemia di notizie fasulle: invenzioni febbrili partorite dalla paura e dalla rabbia, dalla smania feroce di vendicarsi su qualcuno, da un’immaginazione accesa e funesta. Il Manzoni non presenta modelli matematici: ma dalle sue pagine risulta chiara la proporzione diretta fra la misura della catastrofe e l’alterazione delle facoltà mentali, che stravolge la capacità di giudizio. Uno degli episodi più significativi del romanzo è l’incontro fra Renzo, tornato a Milano a cercare Lucia, e il passante che lo scambia per untore (cap. XXXIV). Lì per lì non accade nulla: lui si spaventa, lo minaccia, Renzo se la dà a gambe. Quanto al passante, corso a casa, racconta trafelato di aver incontrato un untore, che aveva in mano «lo scatolino dell'unto, o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de' due)», e aveva tentato di fargli il colpo. Il narratore ci informa che costui sopravvisse al contagio; non solo, ma ebbe la ventura di campare a lungo: «e ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: – quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste». Insomma, il pregiudizio è tanto più vasto e persistente, quanto maggiore è la sensazione di impotenza: non solo ostacola l’esercizio della ragione, ma distorce le stesse capacità percettive.
Ma c’è un’altra considerazione che occorre fare. Finora non si sono verificati, mi pare, episodi drammatici di intolleranza: la ricerca di capri espiatori, allo stato presente, è stata contenuta entro limiti controllabili. Avvisaglie, però non ne sono mancate. Ora, negli stati d’animo collettivi vige una notevole forza d’inerzia. Un gruppo sociale o una comunità tradizionalmente indifferente di fronte a un fenomeno può – in apparenza (in apparenza solo!) d’improvviso – cambiare umore, e attaccarcisi d’un tratto con attenzione spasmodica, facendone oggetto di un’ossessione. Da questo punto di vista, è indispensabile restare sul chi vive. Mai sottovalutare i sintomi di derive paranoidi. Per citare di nuovo il Manzoni, quando il delirio degli untori fosse conclamato, sarebbe troppo tardi per arginarlo: troppo costoso – o troppo rischioso – opporsi a una credenza dilagante.
I fantasmi più pericolosi sono quelli che «il povero senno umano» (come diceva don Lisander) si fabbrica da sé. Pericolosi, perché derivano da un senso di vulnerabilità: chi ci si aggrappa, in assenza di armi migliori, riversa nell’affrontarli un’energia e un’intransigenza tanto maggiori quanto più forte è l’impressione di non avere altra risorsa. Insomma: oggi più che mai abbiamo bisogno di rimanere lucidi. Di ragionare, di prestare ascolto agli esperti. E ricordiamoci di quanto sarà accaduto, quando, in tempi tranquilli, rialzeranno la testa i No-Vax e i loro accoliti; e quando qualcuno, per lucrare consensi, darà loro spago.
Nello stesso tempo, conviene domandarsi che cosa corrisponde, nel caso delle notizie false, agli strumenti con cui la medicina contrasta i virus patogeni. L’immunità permanente, a livello di credenze collettive, è probabilmente, nel senso stretto del termine, una chimera. Però esiste la possibilità di individuare le falsità (diagnosi!) e denunciarle. Esiste la possibilità di scovarne i germi nelle fasi di latenza. E la cosa che assomiglia di più ai vaccini – sia pur temporanei, e bisognosi di periodici richiami – è rappresentato dall’educazione. Troppo spesso accade ancora di incontrare nostri concittadini che rigettano con sufficienza, o con insofferenza, i numeri. Certo, i numeri possono anche essere manipolati; anche con i numeri si può mentire, eccome. Ma al di fuori dei numeri, dei dati, delle statistiche, ci sono solo le impressioni soggettive: le idiosincrasie personali, l’aneddotica spicciola. Come si usa dire, i discorsi da bar. Ecco, forse bisognerebbe frequentare un po’ di più i bar, e non aver paura di discutere con chi li frequenta. O meglio: imparare a discutere con chi li frequenta.
(Chi ha aggiunto: invece di scrivere articoli per «Doppiozero»? Vi ho sentito! Ma sì, avete ragione voi).