Ivo Lizzola / Oltre la pena

28 Gennaio 2021

Ivo Lizzola ha pubblicato in tempi recenti un testo per Castelvecchi Oltre la pena. È un testo ostinato e insistente, queste le sue principali qualità. Non smette di ripetere ciò che non si vuole sentire: che le delinquenze più importanti stanno diventando di nuovo – o forse lo sono sempre state – quelle che stanno sotto gli occhi di ognuno, che si mostrano indisturbate sotto le rispettabili apparenze dei modelli economici e sociali dominanti.

“Maledetti voi che ve ne state, con le mogli nei letti di lana, schernitori di noi carne umana” direbbe un poeta. Lo stile del testo è infatti poetico, evocativo. Non si accontenta di fare una diagnosi della situazione contemporanea in relazione ai diritti, alle offese e alle pene; anzi critica i tentativi psicologici di inquadrare la questione in termini diagnostici, rivendica invece un approccio educativo improntato all’incontro e alla relazione, al di là di ogni offesa, di ogni torto perpetrato o subito. Non credo però che Lizzola si riferisca a tutti gli psicologi. Per esempio: sta per uscire, per Mimesis, un libro di Arianna Barazzetti, psicologa e  antropologa, che lavora nella sua stessa università. Si intitolerà Complessità della violenza, e racconterà, con rispetto e attenzione, la storia di vita di un criminale seriale. Non tutti gli psicologi si prestano a entrare nelle carceri per fare valutazione diagnostica, ce n’è molti che si prendono cura della relazione.

 

Il libro di Lizzola però ha una valenza utopica fondamentale, emana forza escatologica e propone una visione messianica dell’incontro. Il ripetuto “si” del testo – per esempio: “si è assunta la possibilità della violenza e dell’inganno” – e la presenza dei “ci” – per esempio: “ci si può riconoscere, provando per la prima volta la preziosità del rispetto, del rapporto senza legame, della cura e della custodia” –, coloriscono la prosa del libro di profondità solidali e di riflessioni preziose. È molto chiaro, ai miei occhi, che non si tratta del “si sociale” descritto da Martin Heidegger come stato di inautenticità. 

Piuttosto ricorda il “si muore” di Maurice Blanchot, ciò che accade, l’unica certezza, ben oltre il cogito, che abbiamo. È appunto questo, mi sembra, il punto di partenza, il filo rosso, che sta dietro e dentro ogni argomento del libro. La finitudine ci costringe ad affrontare la pena su un piano filosofico, teologico, per poi arrivare al piano pedagogico educativo, dentro una dimensione diversa e alternativa. La scrittura, attraverso l’uso dei “si” e dei “ci” diventa potente, costringe a fermar-si, non tanto a pensare, ma a sentire, ascoltare.

 

 

Poi c’è la ricerca empirica qualitativa del testo e, tra le varie digressioni particolari, quella intitolata “Donne con prole” presente nella terza parte del volume, “Rigenerare i legami”. Il solo titolo “Donne con prole” affronta un tema enorme: che n’è stato, che ne è, che ne sarà delle donne in carcere e dei loro bambini?

Più in generale: è possibile pensare un carcere “giusto”? È pensabile una giustizia resa, nono solo alla parte offesa, ma anche alla parte criminale? Fino a che punto il carcere, in quanto “penitenziario”, luogo di pena, è un’istituzione giusta?

C’è una quantità di opere, a partire dall’illuminismo, che si è arrovellata intorno a questi argomenti. Si è parlato della presunzione d’innocenza, della pena come riabilitazione morale, del reinserimento del reo nel tessuto sociale. Di ciò si è parlato, e anche scritto. Tuttavia mai come nel caso delle istituzioni carcerarie gli enunciati e le visibilità sono così distanti. Non si tratta neppure di usare l’avverbio temporale “ancora”. Non si tratta di dire: “nelle carceri la discrepanza tra enunciazioni ed evidenze è ancora lontana”, perché nelle carceri questa discrepanza, con il progresso, si è allargata. Qui, e in altri luoghi, il progresso ha assunto ruoli regressivi, ha semplicemente sostituito la corda e la mannaia con l’elettricità, il gas, la pillola letale. Anche questa è tecnologia. 

 

Non si tratta più del supplizio di Damiens davanti a una folla eccitata, si tratta di una morte inesorabile, senza pietà, nel silenzio di un carcere di massima sicurezza, nel cuore dei luoghi del progresso, comunque lo si voglia intendere: Cina, Stati Uniti e altri paesi “avanzati”. E poi l’ergastolo, il carcere a vita senza redenzione al di fuori della grazia. La grazia però non è dovuta, è scelta e solo chi ha il potere ha questa possibilità. 

Spinoza, e con lui Nietzsche, parlerebbero di una variazione dell’intensità. Ma è proprio questa l’interpellazione di Lizzola: la grazia, quella cosa che emana dal cielo sulla testa dei Re come pioggia pura, quella cosa che tempera la giustizia, quel salto iperbolico capace di prescrivere l’imperscrittibile. 

Questo credo unisca l’opera di Shakespeare, la filosofia di Spinoza e Derrida con il pensiero di colui che è, chiunque sia.

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