Diario 12 / Deprimere il mare
Ho rimesso piede su una spiaggia dopo tre anni. Il mare in estate non ha mai avuto una buona influenza sulla mia salute. Se voglio rendere il modo in cui percepisco il mare devo ricorrere a Pascal: “Il re è attorniato da persone che non pensano che a divertirlo e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa”.
L’uomo ha il potere sugli elementi della natura. Questo potere non è tale solo quando ne condiziona materialmente gli effetti, è un potere che esercita con la sua sola presenza, col modo di pensare a quegli elementi. Così il mare, all’apparenza, non basta a se stesso, ma è in relazione a noi che lo contempliamo. Ovviamente è un inganno che ci autoinfliggiamo in quanto uomini, perché il mare basta a se stesso in ogni momento del tempo, così come bastava a se stesso quando gli uomini ancora non esistevano.
Ma la sola presenza dell’uomo, e quindi la sola presenza di me che rimetto piede su una spiaggia dopo tre anni, trasforma il mare nel re. Dunque osservo tutti gli uomini che sonnecchiano sulla riva del mare, e tutti gli uomini che si sbracciano tra le onde del mare, e penso che tutti gli uomini vivano il mare come giullari del re. E non perché vogliano effettivamente sonnecchiare o sbracciarsi tra le onde del mare, ma perché temono con tutto se stessi l’infelicità del re, e perciò l’infelicità che deriverà loro dall’infelicità del re. Le loro grida, il loro entusiasmo, il loro riposo non sono altro che tentativi disperati di distrarre il re prima ancora che se stessi.
Prendiamo un mare in inverno, con le sue spiagge incorrotte e deserte, coi suoi colori spenti e il rombo basso e continuo delle mareggiate, col suo orizzonte ingombro di nuvole, con la brezza fredda e il grido degli uccelli. L’uomo a cui piace un tale spettacolo è un uomo di una sensibilità superiore. Gli altri sono incapaci di sopportarne la vista senza struggersi in sentimenti orribili. Anche l’uomo di una sensibilità superiore si strugge, sia chiaro. Ma il suo struggersi è trionfale. Quest’uomo si strugge senza paura, perché sa perfettamente che il mare in inverno è il re che pensa a se stesso. O perché teme di essere lui stesso il re.
Piuttosto mi piace camminare tra i vicoli delle località marine, con il re infelice che appare e scompare in uno scorcio, tra vecchie mura, bastioni, rami di palme, insegne di vecchi alberghi, trascinandomi sotto la luce accecante del sole, contemplando le case bianche con le imposte verniciate dello stesso celeste del cielo, le sdraio aperte nei terrazzini vuoti, i giardini con le magnolie, le bouganville, gli interni scuri e freschi delle chiese. Domenica, passeggiando sulla muraglia di Alghero, ponendomi solo come osservatore e provando a uscire da me stesso, dal palazzo della mente che abito come uno schivo e invisibile signore feudale, ho avuto l’impressione che fra tutte quelle rifrazioni si celasse l’immagine definitiva, ultima, del mondo.
Però tutto questo non lo vivo mai per davvero, se non attraverso la scrittura. E non so se vivere sia veramente vivere. Se sia una cosa preziosa, una forma che tocco con le mani e con gli occhi, o se tutto si riduca a un gioco di rifrazioni. Non so se il mio tempo sia eternamente dislocato in un altro tempo, nel tempo della scrittura, quando rimetto ordine al ricordo delle cose, cose mai veramente vissute, per concedere loro finalmente di vivere. E di conseguenza non so se veramente vivo quando provo a vivere, o se vivo solo nell’ordine arbitrario delle pagine, se questa gigantesca rimozione a cui mi sono consacrato sia in fondo il prosieguo dei giochi da bambino, delle invenzioni romanzesche intonate a voce alta lontano dagli adulti, con la porta chiusa, in una camera dei sogni. In fin dei conti sto bene solo qui e ora, mentre do forma alle cose attraverso il linguaggio. E non ho mai avuto una sensazione più nitida e liberatrice di questa, in nessun momento di quella che dicono essere la vera vita.
Da ragazzo mi piaceva uscire all’aperto, d’estate, nel primo pomeriggio, quando mia madre, dopo essersi sdraiata sul letto nella stanza in penombra, chiudeva gli occhi per dormire. Già a quel tempo era l’ora che preferivo. Sulla terra calava un brusio mortale, le foglie delle piante si afflosciavano per il troppo caldo e le cicale gridavano la loro supplica monocorde, e la luce era così dolce e ardente da imporre alla volontà di ritrarsi dal mondo. Avevo la sensazione che in quei momenti la vita pulsasse più forte dentro di me, perché era solo dentro di me, e non dovevo più spartirla con nessuno. In quel fruscio e in quel chiarore mi sembrava di poter scorgere la macchia bianca dell’avvenire.
Adesso invece, nei pomeriggi assolati d’estate, quella macchia è il fuoco dentro cui arde il tempo, il passato e il futuro, confusamente, e tutte le cose che ho vissuto e che vivrò si accavallano una sull’altra, indistinguibili. E tutto questo ha a che fare con la memoria e l’aspettativa. Se mi sforzo di dare un volto al luogo in cui tutto questo accade, immagino una vecchia casa in stile liberty invasa da una luce calda e orizzontale, come la luce del tramonto. Una casa con le imposte perennemente chiuse, e un giardino alto, svettante sulla strada.
È sabato pomeriggio e sono da poco tornato da Modena. La casa è silenziosa, si sente solo il rombo basso di un temporale lontano. La luce che entra dalle finestre è grigia, a suo modo esalta ancora di più il tono giallognolo della luce artificiale che illumina il soggiorno. Fuori in giardino, pian piano, inizia a scrosciare la pioggia. È un crescendo. Dopo pochi secondi le gocce si fanno grosse e rumorose, cadono deflagrando sul terreno. Ma dura pochissimo. Poi l’aria torna immobile, fitta e umida. Avrei voglia di chiudere gli occhi e addormentarmi profondamente, come se facessi un salto in un abisso. Mia moglie è seduta al tavolo, guarda il telefono con aria assorta, ha una camicia bianca che risplende. È talmente assorbita nei suoi pensieri che non si è accorta del breve temporale di fine estate. Mi alzo in piedi e guardo fuori, c’è una calma millenaria che sembra scivolata dal cielo assieme alla pioggia. Vorrei annotare tutto questo all’infinito, vivendo solo sullo scrittoio, come un pappagallo alla catena, registrando ogni cosa che accade intorno a me, re-inventando il mondo a ogni minuto, cancellando ogni criterio che giudica i fatti in belli e brutti, felici e infelici, e trasformando la scrittura nel collo di clessidra che filtra la vita da un bulbo all’altro, facendo in modo che nel passaggio tutto rimanga inalterato.
Leggi anche:
Diario 1 | Undici tonnellate sopra la testa
Diario 4 | Camminare tra cose derelitte
Diario 5 | Rumori nella cassa toracica
Diario 6 | Toccarsi l'ombelico con dovizia
Diario 7 | Vertigini al contrario
Diario 8 | Un getto che trapassa i corpi e le anime
Diario 9 | Il cielo dal centro del canneto