Berlusconi: Dudù!

8 Ottobre 2013

Berlusconi scende dall’auto, ha gli occhiali da sole nonostante la giornata di pioggia, la mascella serrata. Il video pubblicato da Oggi  riprende il suo arrivo a palazzo Grazioli il giorno dello strappo col governo Letta. Inopinatamente, sulla spalla del capo compare Dudù, il barboncino. Lo tiene come un sacco dal peso lieve. Dudù, dopo un rapido movimento della testa, sembra inanimato, più simile ad una sciarpa voluminosa che ad un cane.

 

 

Una foto, scattata qualche giorno prima, ritrae Berlusconi da dietro, a villa San Martino. Si vede la nuca, mezza schiena fasciata dalla giacca blu, frammenti d’arredamento. Dudù è appoggiato alla spalla sinistra del presidente. Lo sguardo – due piccoli occhietti neri - va in avanti, verso l’obiettivo, secondo una prospettiva inusuale per un cane. Il terreno, inevitabile punto di riferimento per chi si orienta con l’olfatto, si allontana. Pare tranquillo, probabilmente è abituato a questo  trattamento, come testimoniano le numerose foto che lo colgono insieme a Francesca Pascale, in cui è raro vederlo  a terra, libero di essere se stesso.

 

Dudù è il cane gingillo, il gentil-cane degli epicedi signorili del Cinquecento, il cane da cui è stato signorilmente cancellato l’istinto. Come è stato detto, persino le sue deiezioni tra le pareti domestiche vengono tollerate. In questo caso il gesto ha però qualcosa di eccessivo. Esprime un affetto esclusivo, colloso. Ma, nello stesso tempo, imponendo all’animale quella postura incongrua, rivela una appena rattenuta volontà di dominio.

 

 

Lo dimostra bene il video di palazzo Grazioli. Dudù non può camminare, non può far perdere tempo, non può provocare diversioni. Dudù non può fare il quadrupede. E allora deve stare in spalla al “padrone”, come un capo d’abbigliamento, il bianco sul blu. E’ la vittoria dell’uomo. E’ la manifestazione della sua superiorità. E’ la negazione della volontà dell’animale. E’ lo stesso messaggio di un’altra foto in cui Dudù, il corpicino elegantemente infiocchettato stretto tra le mani di Berlusconi, viene puntato occhi contro occhi, naso contro naso in una postura che ne sancisce la tenera inferiorità.

 

 

Altre immagini di Berlusconi con i cani danno sensazioni simili: il carlino di Michaela Biancofiore viene quasi strangolato dalla sua morsa ferrea, da potente. In questo caso, però, il gesto inusitato – non ce n’è traccia nella pur smisurata iconografia canina – sa anche di rottura sprezzante (un fotogramma coglie Berlusconi con la testa rivolta verso l’esterno, oltre il cancello, verso il pubblico di via del Plebiscito). Con chi ce l’ha? Con gli umani che non lo hanno capito? Con i tanti che lo stanno per pugnalare? “Guardate come sono capace d’amare”: forse è questo il senso dell’immagine?

 

Il colore del cane può essere in tal senso significativo. Il bianco è segno di urbanità e cortesia. E’ la vita contrapposta alla nera negatività della morte (il cane-barbone nero del Faust di Goethe). Ma, come dimostrano Pulcinella e Pierrot, il bianco è anche lo stigma di un vuoto da riempire, di una morte a cui deve essere data vita.

 

 

In un’altra foto - di inizio settembre - Berlusconi è sul divano di Arcore con Dudù e la fidanzata. E’ una scena privata, almeno in apparenza. C’è una mezza luce prodotta dalla lampada sullo sfondo, un telefono (il leader non è mai separato dal mondo). Berlusconi ha le gambe accavallate e Francesca se ne sta seduta sulla sponda con sorriso conciliante da spot, gli occhi rivolti alla sua creatura. Dudù in questo caso è il cane figlio, coccolato dai genitori finalmente liberi da altri impegni. E’ uno stilema d’antica tradizione, il cane-puer, che surroga in tutto e per tutto l’assenza del bambino.

 

Ma una nota stride. Il padre è evidentemente disabituato a mostrare affetto. La sua presa non è carezzevole e spontanea, al contrario esprime fatica, sforzo. Vorrebbe grattargli il collo, ma trapela ancora una volta il desiderio di bloccare Dudù, di evitare un’eccessiva invadenza, di fargli capire chi comanda. Ad esercitare l’atto è un uomo vecchio, sofferente, visibilmente alterato nei tratti del viso: la testa, incassata nelle spalle, sembra più larga del solito, i capelli sono radi, gli occhi puntini inespressivi. La scena – che pare riprodurre il trittico caro alla pittura rinascimentale, la sacra famiglia – ha qualcosa di forzato, di artificioso, di fatalmente falso. L’unica verità sta in quel corpo vecchio e sfatto e nel suo disperato aggrapparsi ad un residuo di vitalità.

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