Antropologia ed etica / Il diritto di avere diritti

26 Giugno 2020

Il popolo Kichwa, che vive nella parte occidentale dell’Amazzonia, ha un termine, Ilaktas, che potrebbe corrispondere al nostro città, per indicare l’insieme della foresta, dove “vivono” montagne, alberi, paludi, formando un’architettura cosmologica complessa in grado di ospitare tutti i viventi, che sono sempre in stretta e costante relazione fra loro. Noi usiamo altre terminologie per indicare la medesima cosa: ecosistema, per esempio, potrebbe essere un concetto occidentale che gli si avvicina, anche se il suo senso, passato attraverso il filtro della scienza, ha irrimediabilmente perso ogni riferimento a quel contatto intimo e imprescindibile che hanno le emozioni e le relazioni fra i viventi. Ilaktas è un’entità che vive e pensa, ed è la città non solo dei viventi, ma va oltre, comprendendo elementi che siamo abituati a pensare inanimati come l’acqua e le montagne. Non sono concetti astratti, ma entrano di fatto nella vita delle persone, tanto che è stata motivo di una causa legale da parte della popolazione Kichwa nei confronti dell’Ecuador, dove si è arrivati a stabilire che Ilaktas, la foresta vivente, ha gli stessi diritti che si riconoscono agli umani. Se ne parla in Forest law – Foresta giuridica, di Ursula Biemann e Paulo Tavares, edito da Nottetempo a marzo 2020. 

 

 

Seguendo il copione più classico della colonizzazione, a preparare il terreno per la stabilizzazione in Amazzonia dei conquistatori, in questo caso le compagnie petrolifere, sono stati i missionari. Nel 1952 arriva il SIL, Summer Intitute of Linguistic, un settore dei Wycliffe Bible Translator, una importante organizzazione missionaria evangelica americana. Tre anni dopo fonda la propria base a Limoncocha, sul fiume Napo in Ecuador. Il SIL è molto ben organizzato e allo stato serve per consolidare la propria presenza in quei territori mentre loro si impegnano a “pacificare e civilizzare” le popolazioni indigene preparando l’arrivo nel 1964 del gruppo Texaco-Gulf. Ci aveva già provato la Shell negli anni trenta, iniziando una mappatura del territorio, ma aveva incontrato una strenua resistenza da parte degli indigeni. Negli anni seguenti Texaco, poi incorporata nella Chevron, “ha intenzionalmente scaricato miliardi di litri di rifiuti tossici nei terreni e nei corsi d’acqua dell’Amazzonia, provocando l’inquinamento su vasta scala delle terre e dell’acqua e portando malattie e morte agli indigeni e alle comunità contadine, ai loro animali e alle loro culture.” 

 

Nel 1991 l’avvocatessa Judith Kimerling pubblica l’inchiesta Amazone Crude, dove fornisce la prima descrizione documentata del disastro provocato da Texaco in Amazzonia. Nel 1993, oltre 30.000 persone provenienti da oltre ottanta comunità dell’Amazzonia fanno causa a Texaco iniziando una delle più lunghe e combattute battaglie legali della storia della difesa dell’ambiente per dare giustizia a quello che venne definito “un silenzioso e graduale genocidio”. È fondamentale far capire alla Corte di Giustizia quanto le popolazioni siano strettamente legate a tutti gli elementi del territorio e ai loro abitanti invisibili, “questi esseri hanno più diritti fondamentali di chiunque di noi, perché sono coloro che lo proteggono. (…) La foresta vive e pensa. Noi umani non siamo gli unici a interpretare il mondo; tutti gli esseri viventi lo fanno. Essi interpretano e rappresentano continuamente il mondo che li circonda. (…) I soggetti viventi non esistono stabilmente nel presente, arrivano alla vita nel flusso del tempo. La foresta è un’enorme ecologia di esseri pensanti che prolifera di futuro.” Durante il processo ci si rivolge a molti studi tra cui quelli dell’antropologo Eduardo Kohn, che nel suo libro How Forests Think, sulle basi dello studio di un villaggio Kichwa ipotizza un’antropologia oltre l’umano. Un altro antropologo, Rodrigo Villagra Carreòn, ascoltato come consulente, dichiara che “Ci sono molti esseri nella foresta vivente. Probabilmente la cosa non ha molto senso, dalla prospettiva del materialismo metafisico, ma è invece coerente con l’epistemologia delle popolazioni indigene.

 

 

La foresta e i suoi esseri hanno un potere particolare, un particolare dominio su piante, luoghi, animali. Parliamo del cosmo come di una molteplicità interconnessa: el kawsak sacha, la foresta vivente. Ci sono città sotterranee, esseri che abitano nell’acqua, e questi esseri sono in contatto con gli sciamani. (…) Come diceva Claude Lévi-Strauss, nelle nostre teorie evolutive la differenza sta nel fatto che per noi, in origine, gli esseri umani e gli animali erano tutti animali; mentre, nella filosofia e nella cosmologia amerindie, gli animali e gli esseri umani erano tutti umani. Umani nel senso che erano dotati di intenzionalità, della capacità di agire volontariamente, che invece noi, nella nostra epistemologia, teniamo separata.” Una splendida descrizione di questo tipo di cosmogonia la si trova in La caduta del cielo, parole di uno sciamano yanomami, di Bruce Albert e Davi Kopenawa, edito in Italia sempre da Nottetempo nel 2018 e che si presenta come un lungo racconto di Davi Kopenawa che ci accompagna alla scoperta della foresta vivente e dei suoi abitanti e segreti. 

 

Anche a seguito della lunga battaglia legale iniziata nel ‘93, tra il 2007 e il 2008 l’Ecuador redige una nuova costituzione dove, per la prima volta al mondo, si introduce il concetto di Diritti della Natura, e si dichiarano soggetti giuridici gli ecosistemi, le foreste, le montagne, i fiumi, i mari. “Ai sensi della legge costituzionale dell’Ecuador, la natura, o Pachamama, è titolare di una serie di diritti inalienabili: - il diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, delle sue strutture, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi. – Il punto cruciale è che, in difesa di questi diritti, gli individui, le comunità e le nazionalità possono agire legalmente di fronte a istituzioni pubbliche e tribunali.”

 

 

Resta la strana sensazione che ha a che fare col fatto che per essere riconosciuti dalla nostra cultura bisogna entrarne a fare parte in qualche misura, bisogna diventare visibili e incasellabili nelle sue strutture giuridiche, altrimenti si è invisibili e quindi inesistenti e si può essere sfruttati senza alcun problema. Ora gli elementi della natura hanno diritto ad avere diritti al pari degli esseri umani, per lo meno nella costituzione dell’Ecuador. Questo presupporrebbe che tutti gli esseri umani hanno uguali diritti. Ma è così? Se lo è chiesto Andrea Staid in Dis-integrati, Migrazioni ai tempi della pandemia, un breve saggio uscito nel maggio 2020 per Nottetempo. Staid con la sua consueta sensibilità affronta il tema della migrazione cercando non solo di analizzarlo, ma di proporre soluzioni concrete. “Dobbiamo ri-soggettivizzare il termine “migranti” per congedare lo sguardo coloniale che ancora caratterizza molte analisi dei movimenti migratori contemporanei. Dobbiamo parlare di donne e di uomini, con nomi e cognomi, professioni, emozioni, personalità, esperienze e abilità. (…) le migrazioni assumono una funzione-specchio: ci rivelano le contraddizioni sociali che si esprimono nelle relazioni tra autoctoni e migranti. Emigrazione e immigrazione rinviano reciprocamente l’una all’altra come un fenomeno sociale complessivo: a ogni immigrazione in una società, corrisponde un’emigrazione da un’altra società.”

 

In maniera breve e precisa la lucida analisi di Staid tocca tutti i punti caldi del tema smascherando luoghi comuni e pregiudizi e puntando l’attenzione sul fattore umano. “Queste donne e questi uomini sono titolari di tutti i diritti umani e inoltre hanno bisogno di una speciale protezione quando si ritrovano a scappare da guerre o persecuzioni politiche. Nel suo Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt difende una tesi centrale per la mia prospettiva: si tratta del diritto ad avere diritti. Negare il diritto ad avere diritti è una tipica pratica totalitaria. Questa pratica la soffre chi vede diminuiti e non rispettati i propri diritti a causa della sua nazionalità di provenienza o della sua etnia. (…) Quella che chiamiamo umanità è il prodotto già distillato di vecchie e grandi migrazioni di gruppi e individui. Il futuro sarà inevitabilmente sempre più meticcio.” 

 

Ma c’è ancora molta strada da fare. A maggio 2020 il gruppo Rio Tinto, la terza più grande società mineraria del mondo, ha fatto esplodere le grotte sacre aborigene in Australia, un luogo che conteneva testimonianze della presenza umana di oltre quarantaseimila anni fa, un’azione ben più grave dell’annientamento di Palmira da parte dell’Isis. Questo genere di fatti resta talmente impunito che a Chris Salisbury, l’amministratore delegato, è bastato fare spallucce e chiedere scusa. Dall’altro lato del mondo, in Brasile, il presidente Bolsonaro, per il gaudio dei complottisti, dichiara che siamo davanti a un “complotto internazionale per utilizzare la pandemia e instaurare il comunismo”, come riporta in un’intervista l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, che parla chiaramente di genocidio “perché il governo di Bolsonaro sarebbe ben contento di potersi sbarazzare non solo degli indigeni – che resistono ai suoi progetti di sfruttamento dell’Amazzonia – ma anche di una parte della popolazione povera, quella che non avrà più accesso alle cure quando il sistema di salute sarà saturo. L’epidemia è destinata ad avere lo stesso effetto di una pulizia etnica per coloro che dipendono dell’assistenza pubblica.” Il diritto di avere diritti è una lotta in corso. 

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