Foxcatcher, an American Horror Story

27 Marzo 2015

Come accade spesso, anche per Foxcatcher la distribuzione italiana ha pensato di aggiungere al titolo originale un sottotitolo, al fine di guidare e informare meglio lo spettatore rispetto agli argomenti trattati nel film. Al di là del gesto in sé – che tanto quanto la traduzione dei titoli stranieri (forse ancora di più) nasconde sempre un atto violento – è curioso notare come in un film che usa lo sport per toccare temi profondi e delicati come l’ineluttabilità dei rapporti di classe, l’esercizio egemonico del potere e del denaro e la forza sottile e crudele del ricatto, quello che viene messo in evidenza è che questo film sia più di ogni altra cosa “una storia americana”. E certo non si può negare che lo sia: per come molti di noi vedono e si immaginano gli Stati Uniti. Ma se Foxcatcher usa un pezzo della storia dell’America degli anni Ottanta per raccontarne la Storia intera e dare risalto all’anima nera di un paese che mai come nel decennio contraddistinto dall’ascesa di Reagan era invece pieno di autostima e convinto che tutto fosse possibile, è forse vero che il film di storie ne racconta più di una e ne contenga tante e tutte diverse.

 

Perché Foxcatcher è innanzitutto un horror. Un film popolato di mostri e ambientato in un mondo crudele; un film che racconta la paura, che dà corpo al terrore – una grande e magniloquente ballata di morte. Quello che Miller fa sin dall’inizio è dividere i ruoli dei personaggi fra vittime e carnefici dando l’impressione che il loro destino sia segnato sin dalla prima comparsa sullo schermo.

 

I fratelli Dave e Mark Schultz, il miliardario John du Pont e la madre di lui, come tutti gli altri personaggi (marginali) che abitano nella gigantesca Foxcatcher Farm – la tenuta dei du Pont in Pennsylvania, costruita su un campo di battaglia della guerra di indipendenza americana e quindi, di fatto, un immenso e sterminato cimitero – sono cadaveri che camminano. Sono uomini e donne circondati dalla morte, connessi con la morte: quella che sta loro intorno, che domina nei paesaggi vuoti, disadorni, percorsi dalle brume e da luci plumbee e sovrastati da cieli grigi, dalla pioggia e dalla neve, ma anche quella che sta dentro di loro. Quella morte che ognuno di essi esprime e alla quale tende sia perché vi è destinato (come la madre di John e come Dave), sia perché ne è lo specchio evidente. Se però John assomiglia sin dal principio ai suoi uccelli imbalsamati (che come nella casa di Norman Bates in Psyco, se ne stanno attaccati alle pareti, tetri latori di angosciosi presagi), è Mark che nel momento stesso in cui raggiunge la tenuta du Pont inizia a spegnersi lentamente e in maniera inesorabile. Dando l’impressione di ammuffire poco a poco, come un trofeo o una medaglia che prende polvere in una bacheca, metafora evidente di un mondo fuori dal tempo in cui tutto tende a disfacersi, a consumarsi e morire.

 

Foxcatcher, 2015, regia Bennett Miller, una scena del film

 

Ma Foxcatcher è anche un film erotico. Un film che parla di corpi e attraverso i corpi. E in cui i corpi si toccano, si spingono, si stritolano, entrano in contatto e non smettono di sudare, di dimenarsi e di cambiare forma – la lunga sequenza in cui Mark ingrassa e dimagrisce di quasi cinque chili nel giro di mezza giornata è da brividi. Corpi, inoltre, che all’immaginario muscolare e machista dell’America reaganiana (immortalata dai vari Rambo, American Gigolò, Urban Cowboy e da icone come Stallone, Richard Gere o John Travolta), ci approdano attraverso un esplicito accostamento con la mitologia. Gli atleti della lotta greco-romana – fra i più antichi sport olimpionici e senza dubbio il più ancestrale, oltre che quello più elementare e primitivo – concedendosi all’ammirazione del pubblico e misurandosi a mani nude con la forza dell’avversario, sono come martiri che offrono il proprio corpo al sacrificio. Immortalati in pose plastiche da statue dell’antica Grecia, diventano simboli e simulacri di un corpo (un apparato) sociale.

 

Ed è per questo che Foxcatcher è anche un film di supereroi e di paladini. I lottatori rappresentano la sublimazione e l’incarnazione degli istinti violenti e dominanti di un’intera nazione: du Pont coltiva e sovrappone l’ideologia bellica e patriottica a quella sportiva, e la sua ossessione diventa la metafora più esplicita dello spirito nazionalista statunitense, lo sport che più di tutti va incoraggiato e sostenuto. Al tempo stesso, però, du Pont deve fare i conti con un fisico che non risponde a nessuno dei canoni estetici a lui cari. Appesantito, invecchiato e sproporzionato, il corpo di John – che è quello di un immenso Steve Carell – si trascina letteralmente per tutto il film come fosse quello di una tartaruga. Evidenziato nella sua inadeguatezza da una tuta da ginnastica fuori misura, fuori figura, du Pont è l’esatto contrario dello sportivo e dell’atleta: quasi una sua goffa parodia, come quando Miller lo ne mostra la corsa stanca e impacciata sotto gli occhi della madre, mentre i giovani lottatori fanno pratica. Un momento che passa quasi inosservato, ma che alla maniera del grande cinema dice da solo più di quanto le parole possano spiegare.

 

Ed è forse per questo che du Pont porta alle estreme conseguenze il suo legame con Mark e con Dave. Nel rapporto distruttivo coach-allievo risiede l’inadeguatezza sia di John sia dei fratelli Schultz rispetto al mondo che abitano, e forse il significato stesso di un film come Foxcatcher. In maniera molto simile a ciò che Paul Thomas Anderson raccontava in The Master, anche qui la relazione fra maestro e discepolo assume il significato di un confronto che non ha modo di evolversi. E non solo perché i maestri (leggi i padri) in un macrocosmo (e cioè una nazione) che sta rapidamente superando il bisogno di costruire e tramandare la propria memoria, e che sta per affondare in una condizione post-mitologica, non sono più necessari e sono allo stesso tempo incapaci di agire, ma anche perché chi li ascolta non ha più nulla da imparare. O addirittura non l’ha mai avuto.

 

Foxcatcher, 2015, regia Bennett Miller, una scena del film

 

Insomma, come gli anni Cinquanta di The Master anche gli Ottanta di Foxcatcher (due decenni che da sempre si assomigliano e, specialmente al cinema, dialogano in maniera costante e che similmente anticipano anni caratterizzati da grandi rivoluzioni: i Sessanta delle contestazioni e i Novanta delle insicurezze, della fine delle ideologie e del post moderno) sottolineano l’anacronismo dei rapporti gerarchici e l’ormai evidente inconciliabilità dei conflitti di classe. Du Pont – come Lancaster Dodd in The Master – si erge a maestro senza averne capacità e statura, e la legittimazione gli deriva solo dal potere che esprime ed esercita. La forma di devozione alla quale entrambi i personaggi costringono i subalterni è imposta in virtù del loro auto promuoversi all’esercizio della legge. E che sia la legge di Dio o quella del denaro, poco importa: in fondo Du Pont e Dodd sono incarnazioni della stessa strategia di potere, custodi della medesima tradizione capitalista.

 

Motivo per il quale Foxcatcher, in ultima analisi, è anche un western. Una rappresentazione cioè, che come i grandi film sull’epopea della frontiera, narra, assimila e risolve tanto il racconto della propria ascesa quanto l’illustrazione tragica del proprio declino. È la celebrazione di una sconfitta perpetrata e condotta dai suoi stessi protagonisti, l’ideale smantellamento della leggenda della nascita della nazione. L’analisi di Miller pone infatti l’attenzione su una particolare condizione dell’America che ritorna in maniera ciclica in tutte le epoche storiche: ovvero il momento in cui un Paese che vive in una logica di perenne conflitto con ciò che gli è estraneo, si trova d’improvviso senza nemici. E se come sosteneva Carl Schmitt, più volte citato da Derrida, la perdita del nemico è una delle peggiori contingenze politiche nelle quali può trovarsi una nazione, dato che tale situazione mette a dura prova le stesse strutture politiche di un governo e mina le certezze dei suoi cittadini.

 

Non si può allora non pensare ancora all’America degli anni Ottanta, di fronte alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e a un passo dalla fine della Guerra fredda. John du Pont, in fondo, non è altro che l’incarnazione di questo sentimento: è l’immagine corporea di uno Stato che ha bisogno di nemici, di combattimento e di lotta. Perché nel momento in cui smetterà di avere bersagli da colpire, non farà altro che rivolgere l’arma contro se stesso.

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