Peter Hujar: i volti e la morte
La vita e la morte hanno volti diversi, fisionomie incomparabili: sebbene siano l’una concatenata all’altra, e siamo noi sempre più portati a concepirle entro il circolo inesauribile dell’esistenza, il loro modo di apparirci ci risulta inconciliabile.
Impossibile intravedere nelle ossa di chi fu vivo un’identità, percepire da questo singolo elemento lo spessore della carne, una voce, i sentimenti che le animarono; le ossa di altri ci dicono soltanto la materia del nostro ultimo futuro fisico, la non-identità che diventeremo. Peter Hujar (1934-1987) è uno dei grandi apolidi nel mondo della fotografia, vissuto da semisconosciuto e in povertà fino alla morte, avvenuta prematuramente per colpa dell’AIDS, e autore di un unico libro, Portraits in Life and Death. Il Derek Jarman della fotografia, potremmo dire con semplicità estrema. Come sua unica testimonianza e testamento, il fotografo ha voluto parlarci dei cardini dell’essere dentro un corpo che vive, del binario obbligato che la sua evoluzione organica sarà costretta a seguire sempre fino in fondo. In questo unico libro, di cui sono arrivate per la prima volta in Europa le immagini, tutte e 41, in occasione di un evento off della Biennale di Venezia, sono raccolti scatti realizzati a distanza di più di dieci anni. Vediamo così la raffigurazione della morte nelle undici immagini delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, realizzate nel 1963, negli scheletri posizionati, quasi esposti, a popolare un regno da cui i morti continuano a guardarci. Di fianco a loro vediamo trenta ritratti, realizzati tra il 1974 e il 1975, dell'élite culturale newyorkese, quella che ancora ricordiamo con una certa eccitazione: da William Burroughs a John Waters, da Robert Wilson a Susan Sontag, che firma anche la prefazione del libro di Hujar.
Iniziamo a dire che forse solo un altro fotografo ha compiuto, nella sua pur più lunga e diversa carriera, una simile parabola: anche Nadar, infatti, uno dei primi grandi padri della fotografia, ebbe modo di fotografare il milieu artistico e intellettuale del suo tempo così come le catacombe parigine, all’epoca addirittura col pericoloso metodo dell’illuminazione al magnesio. Esiste così, se vogliamo, una tappa precedente, già una tradizione che emerge guardando gli scatti di Peter Hujar, in grado di collegare il suo lavoro ai grandi esordi della storia della fotografia.
Hujar ci racconta in una trama chiarissima il destino del corpo e la vanità della vita: i ritratti dei morti di Palermo, insieme a quelli degli amici newyorkesi, convivono in una danza macabra facendo ricongiungere i mondi nella reciproca convivenza in cui per natura già si muovono. In questo modo la fotografia fa toccare ciò che siamo abituati a intendere come separato, tracciando la linea, o il cerchio, in cui vivono i suoi due poli opposti.
Se un fotografo come Joel Peter Witkin supera la barriera imposta dall’intoccabilità della morte e manovra i suoi scheletri per farli vivere nel limbo di un momentaneo ritorno alle azioni dei vivi – si ricordi il bacio tra le due metà della stessa testa, o la mano appoggiata alla sveglia – Hujar non tocca né i vivi né i morti, né impone loro alcun movimento, alcuna azione che non sia quella di essere, nel momento dello scatto. I vivi sono infatti tutti ritratti singolarmente, spesso sdraiati o semi appoggiati sul letto, magari ancora con le coperte sfatte, adagiati in una posizione di rilassatezza. Una condizione formalmente lontana solo un passo da quella in cui vediamo posizionati i corpi delle catacombe palermitane: siamo portati a sentire il peso dei vivi gravare sui materassi per sentire in loro la sostanza che li rende, al momento della fotografia, esseri viventi, il soffio che ne alimenta gli organi, i nervi, lo sguardo. “Le fotografie di Palermo – che precedono nel tempo questi ritratti – li completano, li commentano. Peter Hujar sa che i ritratti in vita sono sempre anche ritratti in morte.” Questo scrive Susan Sontag nella prefazione ai Portraits, anche lei vedendo la tacita corrispondenza tra i due filoni del libro di Hujar espressa nel filo sottilissimo della posa dei soggetti. Il letto è un’anticamera, come lo è il sonno: ci pensiamo tutti qualche volta. Peter Hujar è in grado con un gesto semplicissimo di metterci di fronte alla limpida evidenza dell’essere carne, delle sue inevitabili conseguenze, della possibilità della fotografia di schizzarne in pochi tratti la forma, di raccontare la storia di tutti gli uomini. Eccoci tutti: Susan Sontag è se stessa e ognuno, ogni volto è il volto di tutti allo stesso modo in cui siamo portati a vedere in ogni scheletro il nostro, quello di tutti, senza cercarne il nome. La morte abita solo apparentemente in un luogo lontano: Hujar ce la porta vicino, ci dice che si trova nella stanza attigua alla nostra, c’è solo una porta da aprire.
Nulla di moralistico, si intende: quello di Peter Hujar è un carme dolente, composto già nella consapevolezza del male che lo aveva colpito e che stava iniziando il suo lugubre lavorio nel corpo del fotografo. È il duello interiore che avviene in ogni esistenza, o il ballo, se vogliamo, tra le due facce del vivere: e se una non può mai vedere in volto l’altra, Hujar ci mette anche nella condizione di poterlo fare, di vedere contemporaneamente ciò che per natura è stato posto fisicamente e temporalmente distante.
Masaccio intorno al 1425 unì l’idea del memento mori alla raffigurazione della Trinità, dipingendo alla base delle figure sacre uno scheletro sdraiato in un sarcofago. Gli scheletri di Peter Hujar in qualche modo si fanno anche loro carico di dirci quel “Io fu’ già quel che voi siete, e quel ch’i’ son voi anco sarete”, ma ci dicono anche della riduzione della sostanza, della scarnificazione necessaria per giungere a vedere la verità concreta che si nasconde in ognuno. Le nostre ossa ci si nascondono quanto il nostro spirito, anche loro invisibili se non vedessimo quelle di altri. Ecco chi amiamo, chi stimiamo, chi vediamo solo una volta nella vita, ridursi all’unico punto in cui tutti convergiamo: era un attimo fa, sembra dirci Hujar, che vedevo questo amico sdraiato nel suo letto, parlarmi in confidenza, nella calma della sua o della mia stanza. Mentre alla fine non esiste alcun eroe in grado di svicolare, trovare altre strade a questa unica. Peter Hujar ha un modo di trattare l’esistenza e l’idea di morte che ricorda in qualche modo Antonin Artaud, che nel 1928 scriveva: “E siccome, dopotutto, la morte non è cosa nuova, ma invece troppo nota, non percepiamo forse, in fondo a questa distillazione di viscere, l’immagine di un panico già provato?”
Peter Hujar sarebbe venuto a mancare il 26 Novembre del 1987. Quel giorno, David Wojnarowiczs, artista ed ex amante di Peter, lo avrebbe ritratto, disteso, col volto fisso nella sua ultima espressione, scomposta dal trauma della morte. Tutto quanto potesse esserci di profetico nei ritratti di Hujar si svela nell’ultima immagine che gli fu scattata; tutto ciò che poteva aver già visto, previsto, accettato dall’inizio, è tutto questo essere sdraiato infine, nell’abbandono e nel compimento.
Nessun eroe, e nessun dio nella storia umana di Peter Hujar: il viaggio che compie il corpo è faccenda degli uomini, un fardello da scontare da soli. Tutto ciò che accade in mezzo è lo stesso per tutti, nulla che vada davvero raccontato. Con Hujar comprendiamo che ognuno in fondo fa un’unica cosa, e la varietà che tanto ci contraddistingue non fa che ridursi a un tempo e una trama in realtà per tutti uguali.
Sapere che quella materia ossea estranea siamo noi, noi l’indistinta identità cui siamo sempre appartenuti senza saperlo, senza poterla vedere: tutta la sostanza del mistero a volte più che un velo, è davvero l’osso della nostra tibia, l’omero rigonfio, la mandibola squadrata. Hujar appare nei racconti di chi l’ha conosciuto come un’anima lesa fin dal principio, dagli abbandoni, dal padre violento, dall’indigenza della madre, dall’appartamento di una sola stanza in cui ha voluto rimanere fino ai sedici anni, per poi andarsene. Peter Hujar sarebbe entrato nel circolo del grande fermento artistico e culturale del suo tempo, sarebbe stato attore e modello per Andy Warhol, avrebbe ricevuto le telefonate di grandi galleristi, documentato i moti di Stonewall per la liberazione della comunità gay. Tutto racchiuso nella parentesi fulminea che vede un uomo respirare sul suo letto e poi sparire.
Vedere come tutto ciò che è rilevante di colpo si acquieta; Peter Hujar ce lo mostra con l’estrema sintesi di cui è capace chi ha compreso tutto il necessario.
Ancora una volta con le parole di Artaud, pubblicate questa volta nel 1926 ne “L’incudine delle forze” possiamo sentire Peter Hujar confidarsi con noi: “Anch’io aspetto soltanto il vento. Che si chiami amore o miseria, potrà soltanto farmi arenare su una spiaggia di ossa.”
In copertina, fotografia di Lorenzo Palmieri.
Peter Hujar: Portraits in Life and Death
Peter Hujar Foundation, A cura di Grace Deveney
Istituto Santa Maria della Pietà, Calle della Pietà, Castello 3703
Periodo di apertura: 20 aprile – 24 novembre 2024