Speciale

Eusocialità / Le origini profonde delle società umane

30 Marzo 2020

È venuto il momento dell’eusocialità, quello della “buona socialità”? In realtà noi umani eusociali lo siamo sempre stati, e non da ora, ma da moltissimo tempo, almeno da quando uno dei nostri predecessori, l’Homo habilis, è comparso nella savana africana separandosi da una linea di discendenza di australopitecine due o tre milioni di anni fa. La parola eusocialità, coniata alla metà degli anni Sessanta, è utilizzata da diversi decenni dall’etologia. L’ha messa in circolazione un importante entomologo e biologo, Edward O. Wilson, che negli anni Settanta aveva creato una nuova branca di studi, la sociobiologia, all’epoca molto discussa e criticata. Wilson, ancora in attività come studioso e come saggista, è stato docente per molti anni ad Harvard, titolare della cattedra di Biologia; la sua specialità sono le formiche, su cui ha scritto, insieme con il collega Berthold K. Hoelldobler, un meraviglioso libro, Formiche. Storia di una esplorazione scientifica (Adelphi), che fa seguito a due grossi volumi pubblicati da Einaudi nel 1976: La società degli insetti, altrettanto fondamentali. Si tratta di libri che anche un non-specialista può leggere, e da cui si può imparare moltissime cose sui tre animali eusociali per eccellenza, api, termiti e formiche, da lui studiati nel corso della sua vita. L’eusocialità è una parola collegata con un’altra che Wilson ha utilizzato nei suoi studi, superorganismo, che è il titolo di un libro pubblicato da Adelphi anni fa, sempre in collaborazione con Hoelldbler.

 

Wilson ci ricorda che api, termiti e formiche si sono organizzati nel corso di decine di milioni di anni in società coese e solidali, dominate da regole inflessibili, così che ogni singolo individuo si comporta seguendo una legge generale che subordina tutto al bene dell’intera colonia. Tutti insieme agiscono come un’unica entità, un superorganismo appunto. In queste società vige la divisione del lavoro e la funzione riproduttiva; tutta l’attività degli insetti è subordinata a questi due aspetti. Da un lato c’è la regina madre, circondata dai maschi che provvedono all’inseminazione, e dall’altro c’è la casta delle operaie sterili dedite alla cura della prole prodotta dalla regina, oppure utilizzate in missioni ad alto rischio come la guerra e i conflitti con le colonie rivali. In suo nuovo libro, Le origini profonde delle società umane (tr. it. di Allegra Panini e introduzione di Telmo Pievani), più breve dei precedenti, l’entomologo americano allarga la sua riflessione alla società umana, all’Homo sapiens e ai suoi progenitori, riprendendo tesi contenute in un saggio precedente più ampio, La conquista sociale della Terra (Cortina editore, tr. it. Lucio Trevisan, a cura di Telmo Pievani). Sarà forse un caso, oppure invece no, ma questo breve e agile volume ci permette di fare una serie di ragionamenti su quanto sta accadendo in questi giorni intorno a noi, giorni e settimane in cui Covid-19 domina la nostra vita quotidiana e ci fa temere il peggio, non solo come individui, ma anche come collettività, e più in generale come società umana. 

 

Perché siamo eusociali, cioè collaborativo gli uni con gli altri per il bene comune? Per spiegarlo Wilson parte dagli insetti sociali, che ora dominano l’ambiente terreste degli invertebrati, i quali esistono da cento milioni di anni. Nel Medio Triassico, 220 milioni di anni fa, emersero le termiti; nel Tardo Giurassico e Primo Cretaceo, 150 milioni di anni fa, fu poi la volta delle formiche; e infine nel Tardo Cretaceo, 70-80 milioni di anni fa, comparvero infine dei bombi e delle api domestiche. Un tempo lentissimo, dice Wilson, se si pensa che solo dopo l’apparizione delle piante con i fiori, i tre gruppi eusociali raggiunsero l’attuale livello di organizzazione: 65-50 milioni di anni fa. Lo fecero sviluppando attività fondamentali per mantenere in buona salute la Terra; essi sono infatti prede, simbionti, spazzini, impollinatori, rigeneratori del terriccio, e altre cose ancora per il beneficio del Pianeta. Non distrussero la biosfera terrestre, ma ne diventarono invece un elemento vitale. Di recente c’è stato un allarme circa l’eventuale scomparsa degli insetti, e in particolare delle tre specie indicate da Wilson, evento che se avvenisse si rivelerebbe catastrofico e metterebbe in seria crisi il nostro sistema ecologico. 

E gli umani come sono diventati eusociali? Come Homo sapiens noi siamo una delle venticinque forme di ominidi comparse sulla Terra, scrive il biologo americano, e ci siamo appena da alcune centinaia di migliaia di anni, poi ci siamo sparpagliati per ogni dove sulla superficie terrestre solo negli ultimi sessantamila. Un tempo brevissimo confrontato con quello degli insetti. E tuttavia questa presenza dominante – siamo oggi oltre 7,7 miliardi sulla Terra – pone un problema decisivo: non abbiamo avuto il tempo di evolvere insieme con il resto della biosfera, per cui le altre specie non erano preparate a reggere il nostro assalto, cosa che ha avuto conseguenze terribili per l’ecosistema del Pianeta.

 

Gli studiosi, ad esempio David Quammen in Spillover (Adelphi), sottolineano come la devastazione cui abbiamo sottoposto l’ambiente terrestre sarebbe una delle principali cause del diffondersi delle epidemie. Ora noi Sapiens siamo rimasti soli mentre altre specie, tra cui i nostri stessi progenitori, sono finiti in vicoli ciechi filogenetici e sono spariti: “ramoscelli sull’albero della vita che smisero di crescere”. Secondo Wilson siamo in qualche modo imparentati con formiche, termiti e api. Non che discendiamo da loro; questo certo no. Siamo infatti venuti giù dal ramo, in senso letterale, dei primati, dal Ardipithecus ramidus, o da una specie strettamente correlata, da cui abbiamo probabilmente ricevuto una eredità che è quella dei bipedi: allungamento delle gambe e raddrizzamento, crescita dei piedi, sino a consentirci il passo che produce la cosiddetta rullata, ovvero lo spostamento dell’appoggio del tallone alla punta più efficiente in termini energetici, come spiega Wilson; inoltre il nostro bacino si si è modellato diventando una specie di ciotola poco profonda per contenere le viscere. 

 

 

Le pagine che il biologo ed entomologo dedica allo sviluppo degli ominidi sono affascinanti e riprendono altri studi precedenti debitamente citati. Il punto su cui il libro insiste è quello della eusocialità, che non è nata dal nulla, dal momento che abbiamo dietro le nostre spalle almeno tre milioni e mezzo di evoluzione, come ricorda Telmo Pievani nella sua introduzione al libro. Secondo Wilson questo passaggio alla collaborazione positiva tra individui di una stessa specie è avvenuto solo dodici volte nella storia della Terra. I gruppi organizzati più elementari, al di sopra del livello delle colonie batteriche, sono gli sciami degli insetti, quelli che si formano nel periodo della riproduzione, insetti che, se volano singolarmente, neppure li vediamo, come i moscerini chironomadi. Gli esempi che il biologo americano fa sono diversi, dalle formiche alate agli storni, che per esempio stringono i ranghi del gruppo rendendo pericoloso per i falchi il tentativo di gettarsi in mezzo a loro per cacciare. La sua tesi è che proprio l’eusocialità ha permesso agli esseri umani, come alle formiche e termiti, di conquistare una posizione dominante nel Pianeta. 

 

In un capitolo del libro Wilson ripercorre da entomologo lo sviluppo dei tre gruppi di insetti, oggetto dei suoi studi precedenti, sino alla creazione delle colonie e dei superorganismi. Quindi passa a considerare l’uomo, e sulla scorta di Darwin. Nella sua opera fondamentale, L’origine della specie (1871), il padre dell’evoluzionismo si pone l’obiettivo di rispondere alla domanda: perché l’eusocialità si dimostrata tanto rara nel corso della evoluzione? Wilson risponde che esiste una difficoltà a livello biologico a compiere l’ultimo passaggio in questo cammino accidentato verso la cooperazione. Come spiega nella sua introduzione Telmo Pievani, l’evoluzione presenta un difficile compromesso tra due interessi divergenti e tra livelli sovrapposti: “L’egoismo individuale e il potere del gruppo trovano di volta in volta i loro instabili bilanciamenti, traducendosi in varie gradazioni di eusocialità che rappresentano le diverse “stazioni di passaggio” del processo: maggiore cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; e poi selezione genetica di gruppo, cioè pressioni che aumentano la frequenza di quei geni connessi a comportamenti prosociali che rendono più coesi e competitivi i gruppi in competizione con altri gruppi”. L’altruismo è la strategia vincente all’interno del gruppo, e tuttavia è ristretto ai confini del gruppo stesso, perché il conflitto, come mostrano le colonie delle formiche, è con gli altri gruppi. 

 

Wilson si sofferma sulle azioni cruente degli scimpanzé esercitate su altri scimpanzé appartenenti a differenti gruppi e abitanti in territori limitrofi. Questo spiegherebbe perché gli esseri umani sono altruisti dentro la cerchia del “noi”, mentre non lo sono rispetto all’“altro da noi”, così che, scrive Pievani riprendendo una questione affrontata da Luigi Cavalli Sforza, altruismo e conflitto appartengono in modo paradossale alla medesima radice evolutiva. Aggiunge poi un’osservazione su cui dovremo riflettere quando la pandemia del coronavirus sarà terminata: la nicchia ecologica in cui ci muoviamo è diventata oggi super tecnologica grazie al web, ma i cervelli che la abitano sono “sempre quelli del buon vecchio Homo sapiens l’africano”. La crisi sanitaria del virus ci ha spinto a rendere ancora più connessa l’umanità attraverso il web, a sviluppare forme di comunicazione digitale, mentre, come ricorda Pievani, le nostre reazioni mentali ed istintuali restano le stesse del lontano passato evolutivo. Un pericolo ulteriore questo oppure una possibilità evolutiva ulteriore? 

 

Come si è sviluppata allora la eusocialità umana così diversa da quella degli insetti? Attraverso alcuni elementi: la difesa del nido o dell’accampamento; il controllo del territorio circostante, come già i primati africani da cui discendiamo; la divisione del lavoro; e poi, questione molto importante, l’uso del fuoco, e l’utilizzo della carne come nutrimento grazie alla sua cottura. Un tema fondamentale, come ha già mostrato Richard Wrangham in L’intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri). In modo simile ai bonobo, meno aggressivi degli scimpanzé, noi umani ci siamo ingentiliti. Un fatto ereditario? Probabilmente sì. Pievani si dice convinto che la selezione naturale abbia favorito gli individui docili e socievoli rafforzando così le nostre capacità di cooperazione. Una cosa che non è accaduta di certo nel mondo delle formiche o delle termiti, stando a quanto Wilson stesso ha mostrato in altri suoi studi. 

Per quanto sia dubbioso di questo ingentilimento, che a tratti viene smentito da vicende storiche, mi pare però consolante che, rispetto al mondo totalitario degli insetti eusociali, noi non ci siamo evoluti in caste sterili come le operaie delle termiti o quelle delle formiche. Inoltre abbiamo elaborato comportamenti non riproduttivi curiosi, se visti ad esempio nella prospettiva insettocentrica, come i comportamenti sessuali volti al piacere e non alla generazione. Su questo tema uno scrittore amante dell’entomologia, Primo Levi, nella sua intervista immaginaria “Nozze della formica” fa parlare la regina del formicaio: “Sa quante uova ho fatto finora? Un milione e mezzo, e ho solo quattordici anni, e ho fatto l’amore una volta sola”. C’è poi anche l’astinenza dal sesso per motivi religiosi, così come esistono anche nell’ambito della cultura umana forme di rinuncia alla riproduzione. Pievani sottolinea inoltre come la stessa menopausa sia un vero enigma evoluzionistico che resiste ai nostri tentativi di spiegazione. 

 

Ma per tornare al tema della eusocialità, Wilson ci ricorda che i paleontologi sono concordi nel riconoscere che l’origine della nostra specie – “e delle gigantesche banche dati cerebrali che ci distinguono” – è da ricercare nella luce dei focolari accesi negli accampamenti africani dei nostri progenitori. Non c’è solo la carne cotta, più digeribile e ricca di sostanze nutritive, e poi trasportabile con maggior facilità, che ha stimolato la nascita di gruppi e bande, ma anche le conversazioni intorno al fuoco. Questo è il luogo dove si raccontano e si ascoltano le storie. Un tema che uno scrittore con interessi antropologici come Italo Calvino ha più volte sottolineato. Insomma, la letteratura orale ha contribuito alla nostra evoluzione? Probabilmente sì.

 

L’intelligenza sociale è il dono che noi abbiamo ricevuto da questa pratica. Wilson ci ricorda come gli antropologi abbiano cominciato molto tardi a indagare questo tema presso i rari gruppi di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti nel mondo. Ed è proprio lì tra quegli uomini che le chiacchiere costituiscono una delle chiavi per comprendere l’origine della nostra eusocialità, così diversa da quella delle termiti e delle formiche. Un’antropologa, Polly W. Wissner, in un articolo apparso pochi anni fa, ha stimato che il 40% dei discorsi intorno al fuoco sono storie e un altro 40% è invece dedicato ai miti, mentre di giorno pochissimo tempo è dedicato a queste due attività. Sono sicuro che quando usciremo da questa terribile situazione della epidemia, una guerra combattuta contro un nemico invisibile, nasceranno tante storie, moltissime storie, e forse qualcuno le sta già immaginando e persino scrivendo la notte, mentre l’ansia lo tiene sveglio, o sveglia, perché intorno al fuoco delle lampadine elettriche e dei visori dei computer ci sono donne e uomini insonni che digitano. 

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