Short Theatre / L’orologio apocalittico del Conde de Torrefiel
A teatro, diceva Albert Camus, “solo la parola agisce”. El Conde de Torrefiel, a suo modo, ha fatto propria questa frase, anche se ciò che veramente agisce in Guerrilla, visto in prima nazionale sul palcoscenico dell’India per la dodicesima edizione di Short Theatre (“Lo stato interiore”) è la disgiunzione tra il testo che corre sullo schermo, fino all’ultimo senza mai fermarsi, e quello che accade su una scena che, dal vuoto iniziale, diviene sempre più popolosa fino a essere gremita da ottanta persone, tutte, invariabilmente, prive di parola.
All’inizio c’è un pubblico, uomini, donne, tutti sotto i quarant’anni, che si dispongono su quattro file di sedie, in attesa di una conferenza, creando immediatamente un effetto a specchio con i veri spettatori seduti in sala (uomini, donne, pochi sopra i quarant’anni): loro sono noi, noi siamo loro, con la differenza che noi li vediamo, mentre loro si comportano come pesci nell’acquario della rappresentazione – come in tutte le rappresentazioni – di cui una mano potente e inavvertita sottotitola vite e destini alzando, come l’instancabile mare omerico, onde sempre più alte, possenti muri d’acqua che inghiottono e risputano le loro piccole e rabberciate zattere esistenziali. Ora grandi, ora minuscoli – sempre imperturbabili sulla scena, quando la voce muta li avvicina, li nomina cifrandoli, secondo una diffusa convenzione romanzesca (“La ragazza con gli occhiali seduta in prima fila, con un quaderno e una penna in mano, si chiama N. N. è nata a Milano e ha 25 anni. La famiglia di N. ha origine ebraiche…”), ingrandendoli nel suo mirino telescopico al solo scopo di allontanarli sempre di più nell’oceano della Storia che bruscamente rifluisce nel momento più acuto della sua tempesta: il presente in quanto profezia.
Già, perché, fin dalle prime parole sgranate sul display, Guerrilla si sporge sul futuro prossimo: siamo nel 2023 – come diceva una vecchia canzone interpretata da Dalida che forse i drammaturghi registi del Conde ignorano, o forse no: “nel 2023 io non so/ se il mio cuore batterà…” – e la Cina e la Russia hanno stretto un’alleanza militare per cambiare gli equilibri geopolitici del mondo; nella maggior parte dei paesi europei (tranne la Grecia, la Spagna e la Svezia!) si sono instaurati dei governi nazional-populisti; paesi come il Messico e la Colombia hanno finito col legalizzare il narcotraffico, col risultato di diventare grazie alle royalties due tra le economie più fiorenti del pianeta; un gruppo di scienziati ha scoperto che la terra, oltre il suo strato geologico più superficiale, è per lo più vuota, come pensava lo pseudo scienziato nazista Horbirger. È un crescendo tanto precipitoso quando implacabile, perché neanche le soluzioni in apparenza più fantasiose sono inverosimilmente lontane dal presente, tanto più da un presente in cui le fake news suppliscono la mancanza di storicità e le chiacchere da bar si incarnano misteriosamente una dopo l’altra… Che vuol dire essere contemporanei, secondo Pablo Gisbert e Tanya Beleyer (drammaturghi e registi dello spettacolo)? Vuol dire recarsi, euforici e frementi, a una conferenza stampa di Angelica Liddell che nel 2023 è divenuta quello che già è nel 2017, un’artista di culto – di cui sulla scena di Guerrilla si ode la voce registrata – mentre, nella notte tra giovedì 14 e venerdì 15 settembre del 2017 (quando el Conde ha spostato il suo spettacolo al Teatro dell’arte di Milano) l’irresistibile Kim Jong-un lancia un missile nucleare che, dopo aver sorvolato l’isola giapponese di Hokkaido, si inabissa nelle acque del Pacifico settentrionale…
Ospiti degli spazi esterni di Short Theatre, qualche giorno dopo, i critici Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto presentano il terzo volume da loro curato di Iperscene (Editoria & Spettacolo, 2017) dove, nelle rispettive prefazioni, si legge di un presente divenuto eterno, tempo unico della comunicazione “totalmente positivo”: per essere profetici, in un presente eterno, è sufficiente imparare, come diceva Walter Benjamin, a nuotare con la corrente. Ma sarebbe fare un torto al Conde, e a tutta quella scena post-drammatica che in realtà riprende a rappresentare – e non solo a esporre e a esporsi in un’autocitazione iper-realistica –, ignorare che nelle loro proiezioni cartesiane di un’attualità in affanno di interpretazioni è proprio la fotografia dello stato interiore, e non lo specchietto per le allodole del dispositivo, ad aprire le ferite più vistose nella coscienza (ormai sovrana) dello spettatore: è la scrittura il grande attore-performer di Guerrilla che nelle pieghe dello spettacolo, e negli a parte del testo, fa scricchiolare la catastrofica resipiscenza del teatro, questo intruso che parla alle nostre spalle con la monotona e perturbante voce dei pazzi che salmodiano sugli autobus.
“Per anni – dice un immaginario sociologo che nel 2023 pontifica sui social media – tanto nelle conversazioni da bar come nei mezzi di comunicazione, si è ripetuta, insistita e sostenuta l’idea di essere in guerra. E così, finalmente, l’idea di guerra si è installata nell’inconscio collettivo. Siamo tutti nemici”. Su quell’avverbio scontornato dalle virgole, slitta una rivelazione profonda come una voragine – non sbaglia io credo Renato Palazzi a usare l’aggettivo “morale” per illuminare il corto-circuito formale di Guerrilla, orologio apocalittico scandito dalle frasi e non dai numeri, è morale tutto ciò da cui il vento del giudizio riprende a spirare: dunque la guerra che si installa nel continuo ripetere che “siamo in guerra”, viene dalla magia nera di un desiderio collettivo al quale niente può essere opposto; dunque non potremo più difenderci, come l’ottuso kaiser Guglielmo negli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus, spergiurando che “non l’abbiamo voluto”, perché più che voluto – essendoci messi nell’incapacità di volere alcunché – l’abbiamo affidato alla potente passività del desiderio dove anche chi non l’ha voluto, chi l’ha temuto o scongiurato, ha finito con l’evocarlo in un soffio, mentre si girava nel letto dalla parte del muro.
E Guerrilla, spettacolo tutt’altro che perfetto – e per questo indimenticabile – ogni volta che apre bocca restituisce il contrappunto reale di un discorso immaginario che è quello, volens nolens, del nostro essere contemporanei: come in quell’inno in cui l’economia impregna completamente i nostri giorni, si radica nella nostra idea d’amore, dà da mangiare ai bambini, ci accompagna la sera mentre torniamo a casa e poi dorme teneramente “abbracciata a Jeff Koons” (l’unica cosa che ancora non è riuscita a comprare, aggiunge Gisbert, è ciò da cui tutto il mondo rifugge: la noia, ultima dea di un tempo del quale si potrebbe ancora assaporare l’indugio, il vuoto, o per dirla con l’ormai citatissimo Byung Chul- Han, il profumo).
Spettacolo imperdonabile, quello del gruppo catalano, perché nel frattempo mette in scena la distrazione continuata di una società dove i comportamenti hanno definitivamente soppiantato le azioni. Cosa fanno, infatti, gli uomini e le donne del 2023? Incredibilmente simili ai loro spettatori del 2017, si assiepano alle conferenze di un’artista guru (che, guarda un po’, ha appena presentato il suo ultimo lavoro a Short Theatre), prendono lezioni di Tai-Chi nella seconda parte dello spettacolo, per poi convergere, nell’ultima, in un gigantesco rave dove anche la prospettiva della scena si rovescia. Non più di fronte ai veri spettatori, ma dando a essi le spalle (finendo col divenire, non uno specchio, ma una proiezione dei loro corpi), un’ottantina di persone – o di ombre dell’Ade? – volgono lo sguardo e alzano enfaticamente le braccia verso la parete di fondo, là dove un tempo si annidava un dio, percuotendo e invocando l’invisibile Baal del rumore e dell’estenuazione.
Agli spettatori, come ai compagni di Odisseo, sono stati gentilmente forniti dei tappi di gommapiuma, ma i bassi tonitruanti delle Sirene della techno puntano direttamente al cuore, la protezione è più un velo che li filtra che un’occlusione capace di azzerarli ed è proprio questo ricatto sensoriale a suggerire che ci troviamo ancora, e di nuovo, nell’orizzonte della rappresentazione, cioè di qualcosa che, comunque, si subisce: qualcuno in sala sceglie la via della partecipazione, come una giovane artista olandese che comincia a dimenarsi sulla poltrona perché, non conoscendo l’italiano, non può seguire il testo sullo schermo. Gli altri scelgono per lo più la via dell’apnea o della siderazione, chiamano lo sguardo fuori dall’angoscia del corpo e si abbarbicano alla parola negli ultimi rantoli della sua avvincente lotta contro il suono. Che è un agone già segnato – con tanti saluti al teatro clubbing – dalla percussione epifanica della scrittura, dalla potenza straniante di un Mane Techel Phares che nel giro di un’ora ha assunto la forza, il rilievo, la presenza di una voce o di un urlo silenzioso che nessun tappo può arginare. La profonda intelligenza di Guerrilla sta al teatro contemporaneo in un rapporto assai simile a quello che i romanzi di Michel Houellebecq intrattengono con la letteratura. Ma non potrebbe esistere altrove che sulla scena dove anche l’assenza del testo si incarna e si trasforma.