Diario americano / La marcia su Washington
Le poche centinaia di bolscevichi che nel 1917 assaltarono il Palazzo d’Inverno non riuscirono a completare la rivoluzione perché Lenin, dopo averli incitati con la sua splendida oratoria, tornò a casa per godersi l’assalto in televisione. Più o meno questo è ciò che è accaduto a Washington il 6 gennaio 2021. Ma se Donald Trump, invece di tornare alla Casa Bianca si fosse messo alla loro testa, il colpo di stato avrebbe avuto buone probabilità di riuscire. I repubblicani sarebbero rimasti terrorizzati e insieme ammirati dall’audacia del loro Grande Capo, e visto che più di cento deputati e una dozzina di senatori avevano già deciso di sollevare obiezioni alla certificazione della vittoria di Biden, non sarebbe stato difficile per Trump convincere gli altri. La certificazione sarebbe stata sospesa, e anche se non era vincolante, sarebbe stato il segnale che la Costituzione, di cui tutti si riempiono oscenamente la bocca, era di fatto sospesa. Trump sarebbe rimasto presidente “in stato di eccezione” finché, per citare parole sue di qualche tempo fa, “non si sarà capito che diavolo sta succedendo”.
Per fortuna per l’America che c’è la televisione, e che Trump ha malinteso una vecchia canzone di Gil Scott-Heron, The Revolution Will not Be Televised. No, la rivoluzione non verrà trasmessa in televisione, ma forse un colpo di stato fascista sì. E perché no, visto che è bastato spingere da parte qualche poliziotto per sfondare il Campidoglio, invadere i corridoi, pavoneggiarsi per le sale dell’ingresso con una bandiera della Confederazione in mano, saccheggiare i cassetti dei senatori, posare i piedi sulla scrivania della Presidente della Camera e farsi un selfie seduti sulla poltrona del presidente del Senato. Voglio dire, gli autonomi degli anni Settanta facevano molta più fatica a sfondare un concerto rock.
Si sapeva benissimo che migliaia, anzi decine di migliaia di fanatici di Trump sarebbero scesi a Washington il 6 gennaio. Li ha chiamati lui, li ha incitati a marciare sul Campidoglio, gli ha dato la sua benedizione, ha contemplato soddisfatto lo spettacolo in televisione e poi li ha congedati dicendo, parole testuali: “Va bene, adesso andate a casa, noi rispettiamo la legge e l’ordine, vi amiamo, siete molto speciali”. Certo, se davanti al Campidoglio ci fosse stata una manifestazione di Black Lives Matter la polizia sarebbe intervenuta subito, e in perfetta tenuta antisommossa. Ma i fascisti di Trump, eh, quelli sono i nostri boys, si sa che sono un po’ esuberanti, e poi amano tanto la Costituzione. Sì, ci sono stati quattro morti, ma quattro morti sono il conto che la polizia degli Stati Uniti totalizza in un giorno tranquillo. Quando ci si mette d’impegno può fare molto meglio. Quando senatori e deputati hanno potuto uscire dai rifugi sotterranei del palazzo, togliersi le maschere antigas che stanno sotto i loro sedili e riprendere la certificazione del voto, alcuni repubblicani hanno pronunciato nobili parole di condanna, ma senza mai nominare Trump, e qualcuno ha anche preso le distanze dal tentativo di allungare sine die la certificazione del voto presidenziale, ma i duri e puri non si sono fatti intimidire e hanno ripreso a sollevare obiezioni.
Nel frattempo, e nello stesso giorno, il Senato ha cambiato colore. I ballottaggi in Georgia hanno fatto vincere i due candidati che mancavano ai democratici per raggiungere la maggioranza. Quel tale con la bandiera della Confederazione di sicuro ci pensava: la Georgia ai democratici? Non può essere, è la fine di Scarlett O’Hara e di Rhett Butler, è la fine del mondo. Il 20 gennaio, i democratici avranno la Presidenza, la Camera e il Senato. Forse quel giorno vedremo Satana in persona stringere la mano a Biden. Anzi, lo vedremo di sicuro; il cartello di un manifestante diceva che Nancy Pelosi, la Presidente della Camera, è Satana. Strano, quattro anni fa era Hillary Clinton, otto anni fa era Obama. Satana cambia personalità più rapidamente di Zelig. Posto che ci si arrivi, al 20 gennaio. Come, a questo punto non lo sappiamo, tranne che con le ossa rotte e la mente traumatizzata. L’America sta diventando un mal di testa enorme. Bisognerebbe dirglielo: ragazzi, non riusciamo più a sopportarvi, state prendendo troppo spazio nella psiche del pianeta, siete peggio di un’intossicazione da oppiacei, basta, per favore, emigrate su Marte, costruitevi la vostra splendente città sulle colline e lasciateci in pace con i nostri problemi, ché ne abbiamo già abbastanza.
Ma sono come Trump, non se ne vanno, e adesso dovremo trovare il modo di aggirarci tra i loro cocci senza tagliarci contro gli spigoli. Perché una cosa è certa: questa volta il sogno americano si è veramente interrotto. Ora, Biden o non Biden, c’è solo la realtà di un paese in cui il quaranta per cento della popolazione sta attraversando un episodio psicotico acuto, e quando sarà passato non si potrà far finta che non ci sia stato né pretendere di tornare alla normalità. Il danno cerebrale sarà permanente. Non è solo il sogno americano che è finito; è anche la pretesa di eccezionalità. Ci dispiace, ragazzi, credevate di essere diversi, ma siete proprio come tutti gli altri. Lo sapete che negli ultimi settant’anni ci sono stati centocinquanta tentati colpi di stato nell’America Latina? Adesso anche voi vi siete uniti al club. Welcome to America, anzi Bienvenidos a América, abbiamo più cose in comune di quello che pensate.
È stata tutta una litania, durante e dopo l’assalto, di “qui non può succedere”, “queste cose di solito le vediamo accadere all’estero”, “non è quello che siamo noi”. No, ragazzi, è proprio quello che siete, e non dico tutti di voi, mi riferisco a quel famoso quaranta per cento (che non è poco), ma quel quaranta per cento impedisce al rimanente sessanta per cento di funzionare, e non solo di risolvere qualche problema ma nemmeno di affrontarlo. Non è questione di revisionismo storico, perché i fatti sono sempre stati sotto gli occhi di tutti, ma tutti, appunto, abbiamo avuto la nostra conspiracy theory di comodo sull’America. Sì, era “piena di contraddizioni”, però, in fin dei conti, era anche la terra della libertà e dei grandi spazi. Sì, ma quello che vediamo oggi non è nato ieri.
Donald Trump è il figlioccio di Roy Cohn (non in senso puramente metaforico; è stato proprio il suo allievo), l’architetto dell’anticomunismo paranoico degli anni Cinquanta. La svolta neoconfederata degli stati del Sud risale alla campagna elettorale di Barry Goldwater del 1964, in cui non mancavano personaggi che dicevano di preferire la “sana” Spagna del generale Franco ai “decadenti” Stati Uniti. La “strategia meridionale” è stata poi perfezionata da Richard Nixon, ma la vera svolta anarcoide è iniziata con l’ingresso in politica degli Evangelici conservatori, databile agli anni Settanta, e ha avuto una spinta straordinaria durante la Presidenza Reagan, l’uomo che ha pronunciato la grande frase: “Le sette parole più terrificanti della lingua inglese sono: vengo dallo Stato, sono qui per aiutarla”. Reagan non ha mai smantellato lo stato, ma ha insinuato la possibilità che farlo sarebbe stata una bella cosa. Da Reagan in poi, il Partito Repubblicano ha avuto un solo obiettivo, quello di non governare, tranne che per ridurre le tasse ai ricchi e alle corporations e finanziare l’esercito. I repubblicani reaganiani, quelli puri e “ideologici”, che in vita loro hanno letto solo Ayn Rand (sulla quale andrebbe fatto un discorso a parte, troppo lungo da affrontare qui) si fanno eleggere, e vengono eletti, con il puro scopo di non far funzionare lo stato. Il loro mestiere consiste nell’essere pagati dai ricchi per convincere i meno ricchi che la colpa è dei poveri. Ma non è stata l’economia a far eleggere Trump. Il sostegno che ha ricevuto in questi anni non si è modificato né quando le cose andavano né come adesso che le cose vanno piuttosto male (e se non fosse stato per la sua incapacità di affrontare Covid avrebbe sicuramente vinto).
No, è stata l’erosione delle istituzioni democratiche a spianare la strada a Trump. È stato il Collegio Elettorale che poteva avere senso nel 1776 ma adesso distorce il voto popolare al punto che per Biden è stato necessario vincere con sette milioni di voti per mettere al sicuro il suo risultato (e negli stati-chiave comunque ha vinto per poco, il che significa che come ha vinto oggi può perdere domani). Ma soprattutto è stata la “legge delle conseguenze involontarie” che ha alterato irrimediabilmente il senso stesso del “fare politica” negli Stati Uniti. Entrambi i partiti – ma i repubblicani con una capillarità e una sfacciataggine molto, molto maggiore – hanno tratto vantaggio dal gerrymandering, cioè dalla possibilità di manipolare la geografia dei distretti elettorali in modo da favorire i propri candidati. Lo scopo era quello di creare dei distretti “sicuri” dove il candidato del partito A o partito B, chiunque fosse, era sicuro di vincere. La strategia ha funzionato anche troppo bene, soprattutto per i repubblicani, così che nella maggioranza degli stati tradizionalmente legati al Republican Party è venuta a mancare la necessità di confrontarsi con il partito opposto.
Il candidato che concorre alle primarie non deve confrontarsi, non deve dimostrare ai democratici o anche solo agli indecisi che le sue proposte sono migliori di quelle del suo concorrente. No; deve lottare contro gli estremisti del suo partito, se è un moderato, o contro un moderato, se è un estremista. In entrambi i casi, vive in una bolla, parla da una bolla, e agisce dall’interno di quella bolla. Quando va a Washington, la bolla ci va con lui. Non è abituato a misurarsi con idee differenti dalle sue. Non sa negoziare, anzi deve guardarsene bene. Al minimo cedimento di purezza ideologica, c’è qualcuno nel suo distretto che alla prima occasione gli soffierà il posto (e la competenza non serve, visto che comunque non si entra in politica per governare).
Date queste premesse, il nostro candidato può magari pronunciare parole come Costituzione e Democrazia, ma per lui non hanno nessun significato. Non ha mai neanche dovuto far finta di essere democratico. Donald Trump per lui non è un’aberrazione, è la corrente forma del potere a cui lui stesso, nel suo piccolo, aspira. Se poi un giorno Trump manda il suo manipolo di squadristi a far bivacco nell’aula sorda e grigia del Congresso, che cosa fa il neodeputato post-democratico? Si butta a terra come da protocollo, si mette la maschera antigas, scende nel rifugio sotterraneo, e quando torna su ricomincia da dove si era interrotto: “Non posso permettere che le serie accuse di frode elettorale di cui i miei elettori sono convinti (senza prove, ma questo è irrilevante) rimangano senza risposta…”. Per lui non c’è stata nessuna ferita inferta alla democrazia, perché non è grazie alla democrazia che è arrivato a Washington, bensì grazie a un sistema elettorale che tende al partito unico, e non si può sentire la mancanza di qualcosa che non si ha mai avuto né si sa bene che cosa sia. Ma se questo accade ai candidati, accade anche ai loro elettori.
Ci sono milioni di americani ormai per cui la parola democrazia semplicemente non ha più senso. Non la conoscono, non l’hanno mai vista in azione e dunque ne hanno paura, anzi, per tradurre l’espressione americana preferita, una paura fottuta. Democrazia è una parola che non usano mai, potrebbero essere tacciati di comunismo. Preferiscono parlare di Patriottismo e di Costituzione. Ma la democrazia non è un’istituzione e neanche un regime politico; è una pratica, un abito. Se non la si tiene in esercizio si arrugginisce. Da quattro anni, gli Stati Uniti stanno vivendo nella profezia ciclica dell’VIII libro della Repubblica di Platone, la lenta discesa della democrazia nella tirannia. Hanno quattordici giorni di tempo per interrompere la caduta.
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