Michela Marzano. Volevo essere una farfalla

20 Settembre 2011

Sono stata a Sarzana al Festival della Mente, prima, e a Milano, alla Feltrinelli di Piazza Duomo, poi, ad assistere alla presentazione del nuovo libro autobiografico di Michela Marzano, Volevo essere una farfalla (Strade Blu, Mondadori 2011).

 

La quantità di persone presenti e il profondo livello di coinvolgimento e partecipazione in entrambe le occasioni, mi hanno reso inevitabile una riflessione, soprattutto perché sono convinta che per dare ragione di una tale risposta emotiva non sia sufficiente chiamare in causa la storia narrata, certo toccante, drammatica e sfrontatamente sincera, ma sia necessario piuttosto guardare al bisogno sociale cui risponde una tale esposizione, interrogandosi sull’urgenza da cui tale racconto nasce, che non è quella del fare i conti con la propria vita, né soltanto quella del dover affrontare un tema delicato e importante quale l’anoressia.

Riflettere su questo significa anche interrogarsi sul ruolo che può avere oggi la scrittura autobiografica in relazione al problema identitario – non tanto della singola identità quanto del come ci poniamo rispetto ai meccanismi di costruzione ed esibizione del soggetto che intendiamo essere.

 

L’autrice ci mette a parte della propria faticosa storia, parlando dei meccanismi di controllo e ricerca di perfezione messi in campo, del difficile rapporto con il padre, del tentativo di suicidio; espone la propria fragilità e il proprio corpo spezzato; racconta della necessità di passare per il francese, e per anni di psicoanalisi in francese, per fare pace con l’italiano, lingua “paterna”; riporta con lucidità il come dei suoi amori e il come dei suoi successi.

Ma è il perché del racconto di questa storia che è quel che preme che non vada perduto: scrivere ad un certo punto, rivela lei stessa, “è diventata una necessità”. Necessità, aggiungo io, non catartica ma etica.

 

Mi pare allora che l’unico modo di parlare di questo sia abitare quello spazio che la filosofa apre e rivendica, sfidando insieme i tempi e il timore, naturale ora e non più distorto, di essere giudicata.

Adottare questo sguardo non vuol dire provarsi in una grossolana analisi psicologica della donna che lei è, ed è stata, per esplorare l’universo femminile, portandola come esempio dei turbamenti di tutte le donne o, peggio, della donna che si è; e non vuol dire nemmeno promuovere e concedersi all’affetto – come spesso si accusa la scrittura femminile di fare – lasciando da parte le facoltà di giudizio, ma significa accettare il pensiero incarnato, accettare di mettere a tacere lo sguardo che si vorrebbe neutro, per parlare di un libro che è scritto da una donna che, prima come intellettuale e poi raccontando di sé, non ha fatto altro che ripetere, con forza, questo messaggio.

 

Mancava una storia al Sii bella e stai zitta (Strade Blu, Mondadori 2010), mancava qualche cosa che non già giustificasse ma desse forza a quel suo atto di resistenza, a quel suo denunciare l’assenza di modelli alternativi (“sono pochi e quando esistono, restano in ombra”). Mancava il racconto del suo evento, quello che restituisce il da dove noi ci interroghiamo sul come del mondo, come lei stessa ricorda citando Hannah Arendt. Che poi questo interrogarsi percorra le strade della logica o del pensiero filosofico, quelle del racconto o quelle del diario, ciò nulla toglie al ruolo che ha il punto d’origine della domanda.

Rivendicare e denunciare l’importanza di questo luogo, di questa inquietudine da cui siamo attraversati, è, io credo, il nodo centrale del libro, perché è da qui che proviene la possibilità di una differenza.

Non voglio sapere delle sofferenze di Michela Marzano per soddisfare il mio voyeurismo, né voglio sapere delle sue debolezze per quell’esigenza che tutti abbiamo, figlia dello stesso pensiero di cui l’anoressia è uno tra i sintomi, di riportare vicino a noi modelli idealizzati cui vogliamo tendere; ma voglio sapere che è possibile rivendicare, ed è qui la speranza del libro e il suo impegno etico, il ruolo che al corpo e alla propria storia spetta nel pensiero.

Il coraggio di Volevo essere una farfalla insomma non è soltanto nell’esposizione della propria fragilità, nella messa a nudo del sé, ma più ancora nel dire oggi che di tutto questo non solo si può ma si deve parlare, se si vuole fornire spazio e terreno fertile allo svilupparsi di una dimensione critica che consenta la decostruzione di immagini e discorsi che producono devianze pericolose, devianze che abbiamo davanti agli occhi e di cui la cultura ha il dovere di occuparsi.

Ora questa storia è arrivata, con tutto un carico di femminilità, se giochiamo ad accettare questo pensiero che ci divide in due, che quasi sorprende, in una filosofa che ha fatto della logica la sua forza (e la sua gabbia).

 

Il libro parla dell’anoressia, di come la malattia, così scrive, le abbia insegnato a vivere.

Il libro in verità rivela che l’anoressia non sia che uno tra i sintomi di un pensiero che pretende il controllo totale, che fa dell’essere all’altezza il motore di un’esistenza, e che dimentica che da qualche parte lo spazio per la gioia deve essere conquistato.

Sono pagine faticose, faticose per il dolore che contengono e faticose perché nel come del racconto e nel cosa del racconto sono esibiti i limiti della razionalità: la scrittura abbandona l’ordine cronologico e segue urgenze, il ragionamento si incaglia ed è chiaro che non vi è soluzione. Si palesa come scienza e coscienza non abbiano potuto nulla, come gli strumenti di analisi a disposizione non siano stati sufficienti per vincere l’ostinazione di un pensiero totalizzante, e piuttosto abbiano contribuito a rendere tenace e resistente il pensiero stesso (partendo da premesse sbagliate, la logica non può che condurre a luoghi non abitabili).

 

Non si può non venire colpiti dalla quantità di donne visibilmente scosse nell’ascoltare quella voce squillante e forte raccontare di una vita che, nonostante tutto, nonostante l’amore trovato, nonostante il posto guadagnato, non le fa dire che ne sia valsa la pena, e non si può non rimanere colpiti dai silenzi troppo lunghi che precedono la lettura di alcuni passi, silenzi che contengono moti del corpo cui, finalmente, è dato lo spazio per esistere.

Si guarda una donna, che si è conosciuta spezzata tra le pagine, raccontare i propri coni d’ombra, non solo come invito a fare altrettanto e perdonarsi, ma anche come invito a prendere coscienza del quanto sia mostruosa l’uniformità prodotta da questo pensiero che chiede di conformarsi a un ideale.

 

Con sintomi diversi, più o meno contenuti, più o meno visibili, quest’incapacità di accettare le debolezze e questo non voler altro che essere oggetto del desiderio costruendo non già momenti di seduzione ma identità seducenti (sospendendo con ciò il corpo: come dice Baudrillard la seduzione passa attraverso l’attrattiva del sesso, la trascende), è qualcosa che ci riguarda se centinaia di donne piangono perché delle parole stanno raccontando una storia che guarda caso è proprio la loro storia.

Bisogna riflettere e inorridire: perché oggi si è disposti ad abdicare alla propria singolarità – e viene da chiedere: c’è dell’altro? – in nome di un riconoscimento che non ha nulla di quel riconoscimento insito nell’amore di cui la filosofa parla nel libro? Rispondere a un dover essere che non ci faccia trovare mai impreparati a una forma di giudizio non è poi troppo diverso dal desiderare quella bellezza senza storia – e oserei dire senza corpo – che vediamo appiccicata ad ogni muro di ogni città e replicata in forma approssimata e maldestra, ma maledettamente riconoscibile, in ogni classe del liceo.

 

Un sospetto, tuttavia, mi ha attraversato: sarà potente questo libro per chi, abitato completamente dal pensiero ossessivo del raggiungere l’altezza del proprio ideale, non potrà non constatare il luogo da cui provengono queste parole? Saprà credere alla possibilità di una via di uscita, a che a un certo punto davvero si impara a chiedersi di essere felici, o leggerà queste parole semplicemente come il risultato dello sguardo guadagnato da chi, per la posizione affettiva e lavorativa raggiunta, ha fatto pace con il proprio sentimento di inadeguatezza?

 

Io non so rispondere a questa domanda che in fondo mi turba, ma qualunque sia la risposta – se mai ci possa essere – credo che ci fosse bisogno di queste pagine, e credo che la strada per raggiungere una nuova prospettiva, per riscattare la gioia e arginare i disastri prodotti dal delirio di onnipotenza celato sotto il termine disgustoso di “vincente”, passi necessariamente da qui, da storie individuali.

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